Crepaccio del mio verbo la distanza
tra parola e precipizio:
all'assalto delle rose crolla il dente
che azzannò la prima pietra.
Alla notte che fu crepa di radici la mia
carne si fa carne di adunanza.
Siano danze a benedire questa pioggia
negra a capofitto nel gerundio.
Eppure la parola mi rimette
a un'acqua che marcisce nelle vene; a
un'acqua di salvezza senza mano
che la strappi o la passisca:
farfalle orrende del crepaccio, qui tentate
il principio delle cose e fu la zuffa. Zuffa
d'uovo a minacciare nel colore
ogni icona che sta al templio e sputa rose.
E fu guinzaglio dal melo alla serpe,
la parola su ogni erba e terra
di padrone, demone giallo caduto al sole
col sorriso grande e disgraziato. Sapeva dei seni
e dell’acqua piaciuta, diede al fulmine
le mani, agli occhi il sale, e fu da sempre
notte, rumore di pietre
morte.
Fu il vento a stordire le facce
di chi arrossiva nudo a luci rotte.
Dal silenzio che venero, lambisco
il disagio dell'errante, un muro aperto
in fronte. Separatemi le acque della bocca
gli orgogli e la saliva, come se avessi
terre a seppellire, un nome
che biascica.
Dal sangue del mio sangue
lamento di scoglio, si indossano
flagelli, tutti gli ori del Santo
lenzuola ancora umide.
Eppure dall'acqua della mia acqua
il fiore beato, muto, poggiato
a un morso d'aria.
Accadesse nel dominio della croce
questo canto che non strazia, e più domanda
più disperde l'avvenire della quercia:
corteccia che fu nervo, nervo
grezzo a sconquassare la ragione.
Nell'ultima parola venne a Giobbe
il cielo sulla lingua, e cose basse
che tramano l'insidia della serpe.
Dolore degli angeli la sorte
segreta del mio primo osso:
battesimi e olocausti crolleranno
all'inverno d'ogni nome.
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Mattia Tarantino e Salvatore Leone

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