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Febbre d’estate

di Pasquale Antonio Marinelli
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Pubblicato il 30/03/2018 11:34:45

Quel giorno avvertivo una forte sensazione di caldo. Sulla fronte erano comparse piccole goccioline di sudore che, grondando a poco a poco, si posavano sulle folte sopracciglia. Era la prima avvisaglia di una febbre d’estate che mi avrebbe costretto a restare in casa, presumibilmente nel mio letto o accanto alla finestra della mia stanza che si affacciava sulla litoranea jonica, pullulante di turisti e di automobili che si accodavano nel traffico estivo.

Erano le conseguenze di una notte brava, trascorsa con gli amici sulla spiaggia, sin dalle prime luci adombrate del tramonto. Una notte accompagnata dai suoni armonici di una chitarra classica e di un tamburello, dai leggiadri movimenti delle gambe di ragazzi e ragazze intenti a ballare la pizzica salentina, con un passo di danza sempre più ritmato e coinvolgente, sino a lasciarsi cadere stremati sulla sabbia umida.

Una notte illuminata dal bagliore delle stelle che, raccolte in cerchio in un cielo privo di nuvole, proiettavano fasci di luce cosmica sui nostri corpi intenti a volteggiare, a cantare, ad abbracciarsi e a godere dello spazio circostante. Quello spazio che al mattino veniva occupato da una miriade infinita di ombrelloni, sedie a sdraio e asciugamani che lo rendevano infinitamente piccolo e inaccessibile.

Eravamo lì, a godere della libertà che la vita giovanile concede per tutta l’estate e della gioia di condividere quello spazio e quel luogo con gli amici di sempre. Quegli amici con cui trascorrevamo le prime mattine d’inverno sugli autobus, lungo i tragitti per giungere a scuola. Gli stessi amici con i quali, nelle piovose serate autunnali di un sabato tanto atteso, condividevo una pizza ed una lattina di coca-cola, i primi tiri di una sigaretta estratta da una pacchetto comprato insieme, per sentirsi liberi, grandi, uomini.

Ora quelle goccioline di sudore, che scendevano dritte e lente lungo il viso, lasciavano presagire che avrei trascorso qualche giorno di una torrida estate chiuso in casa, lontano da quei cari affetti, lontano da quella spiaggia calda che osservavo dalla finestra, lontano da quel mare azzurro, piatto, liscio che si perdeva nell’infinito orizzonte sino a congiungersi col cielo limpido.

Allora pensai bene che quelle giornate non avrei potuto trascorrerle nella monotona cadenza di gesti consueti che si ripetono alla presenza di uno stato febbrile. Non potevo starmene lì, inerme, a misurare la febbre ogni tre ore, a deglutire sciroppi dal gusto sapor fragola, a restare incollato davanti al televisore guardando i soliti palinsesti televisivi. Volevo viverli quei giorni, anche restando a casa, e volevo immortalarli, segnarne un ricordo da condividere con i miei amici, con i miei figli, con i miei nipoti, quale traccia di uno spazio temporale che non poteva essere vissuto aridamente sotto le lenzuola fresche di cotone di un letto estivo.

 Immediatamente iniziai a fotografare la spiaggia, i gabbiani in volo, il tramonto, le prime luci dell’alba. Feci una miriade di scatti ed autoscatti, ritraendo i vari momenti di quelle giornate: la colazione mattutina, la misurazione della febbre, la visita degli amici, mia madre che mi posizionava la borsa del ghiaccio in testa, il mio gatto fermo lì, ai piedi del mio letto.

Teneri ricordi di una febbre d’estate che non dimenticherò mai.


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