Nel lurido grigiore di un mattino d’inverno,
Forse chiamato da un sogno,
Col passo appesantito dai pensieri:
Cupi presentimenti marinati
Nelle spezie delle ore notturne,
Discendo il viale dei Mille sotto i tigli
Incrostati di gelo,
Incurante dei suoni dei motori
Del friggere dei freni
Che graffiano l’aria
Del mondo che mi ringhia attorno.
Alla sosta dell’autobus rimango
In paziente, solitaria attesa.
Rosso e bruno leviatano
Partorito dal grembo della nebbia
Nel tiepido ventre mi raccoglie
In compagnia di grigi, funesti demoni
Tossenti, esalanti virus influenzali,
Salmodianti misteriose litanie.
Mi guardano sottecchi, amicanti,
Per associarmi ai loro mesti canti
Ma il mio mondo è su un’altra sfera
Che ruota solitaria nel buio e nella luce.
Cimiteriale profumo di rose antiche,
Fragranza di caffè, di pane.
L’ombra del sapere si diffonde:
I suoi foschi tentacoli traspaiono
Al fondo melmoso del lago
Violetto e bruno d’inchiostri.
“Non misurare il volo delle tortore
La levigata scapola dell’agnello
Il fondo del bicchiere. Alla fine del viaggio
Potrai sfogliare il libro del destino”.
Così parlò il mio nocchiero
Manovrando la grande ruota.
Sobbalzo alla fermata dell’ospedaletto:
Dai cancelli le grida di antiche sofferenze.
Lo spaccio sotto i portici, i mercanti
Cacciati dal tempio.
Chiesa dell’Annunziata: dietro il portone chiuso
Gli ermetici riti del buio e del silenzio.
Al ponte di mezzo mi dice il conducente
Con voce roca incrostata di ruggine:
“Grida che sei di Dio, ripeti sempre
Che appartieni a Dio, se no ti perderai
Sulle rive del fiume, smemorato per sempre”.
Il fiume è secco, solo le nutrie e i corvi
E qualche specchio d’acqua rabbrividente.
Grido: “Appartengo a Dio, io son di Dio!”.
Dai piedi del ponte neri vapori
Si aggrappano con furia ai parapetti.
Ripeto disperato: “Appartengo a Dio!”.
Le loro mani attraverso i vetri
Afferrano i compagni di ventura
Strappandoli ai sedili,
Fumo anch’essi divenuti
Come tutto sembra essere il mondo.
“Non torneranno, dice il mio nocchiero,
Grigi vapori portati dalla corrente,
Si spegneranno in mare”.
Via Mazzini, nei grandi magazzini
Entrano ed escono azzurre ombre
Utopica fiumana di diffuso benessere.
Geme nel buio dei vicoli la nera
Ragna di povertà, tracima
Nelle strade del centro.
L’autobus è vuoto,
Siamo rimasti io e l’autista soli.
Una luce, piazza Garibaldi
Preferito giaciglio del sole.
“Per via della Repubblica non farò fermate
So che hai fretta d’arrivare”.
“D’arrivare dove?” mi domando,
forse domando a lui.
Quando saremo in Barriera Repubblica
Mi fermerò senza guardarti
E muto tu discendi,
Bevi l’acqua della fontana,
Non voltarti indietro
E’ la strada del ritorno
Un sentiero di selvaggia foresta.
Bagno la fronte con l’acqua della fonte,
Ne bevo dal palmo della mano.
Intorno a me un dolce scampanio
Di lontani campanili.
Nella nebbia che si dirada,
Un cerchio di ombre luminose,
Sento le loro voci, le vedo attorno a me:
Benedetta, felice schizofrenia.
Hanno l’aspetto familiare dell’infanzia
Come mi fosse caduto dalle spalle
Il peso degli anni.
“Vieni con noi” mi dice una voce,
Voce dolcissima di madre
E gli occhi miti di mio padre
Mi sorridono dietro le lenti spesse.
“Siamo con te da sempre,
Ma tu non puoi vederci”.
E tanti amici avevo attorno
E parenti che mi furono cari.
M’incamminai con loro.
L’arco di San Lazzaro
Svettava nella nebbia.
“Fermati ora!”
La voce di mia madre
Divenuta imperiosa:
Una donnina esile e mite
Eppure così autorevole.
Aveva in mano una benda nera,
Me la strinse sugli occhi.
Mi avvolse una notte carica di stelle.
“Ecco Omero, mi disse,
D’ora in poi avrai solo
Le immagini della tua mente.
Andrai di piazza in piazza,
Appenderai i tuoi sogni
Ai muri delle strade.
Diranno che sei Nessuno
Che non sei mai vissuto”.
Piangeva lenti singhiozzi
E mio padre teneramente
La strinse tra le braccia.
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