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viaggio iniziatico di Omero

di Salvatore Solinas
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Pubblicato il 30/03/2018 10:00:36

Nel lurido grigiore di un mattino d’inverno,

Forse chiamato da un sogno,

Col passo appesantito dai pensieri:

Cupi presentimenti marinati

Nelle spezie delle ore notturne,

Discendo il viale dei Mille sotto i tigli

Incrostati di gelo,

Incurante dei suoni dei motori

Del friggere dei freni

Che graffiano l’aria

Del mondo che mi ringhia attorno.

Alla sosta dell’autobus rimango

In paziente, solitaria attesa.

 

Rosso e bruno leviatano

Partorito dal grembo della nebbia

Nel tiepido ventre mi raccoglie

In compagnia di grigi, funesti demoni

Tossenti, esalanti virus influenzali,

Salmodianti misteriose litanie.

Mi guardano sottecchi, amicanti,

Per associarmi ai loro mesti canti

Ma il mio mondo è su un’altra sfera

Che ruota solitaria nel buio e nella luce.

 

Cimiteriale profumo di rose antiche,

Fragranza di caffè, di pane.

L’ombra del sapere si diffonde:

I suoi foschi tentacoli traspaiono

Al fondo melmoso del lago

Violetto e bruno d’inchiostri.

“Non misurare il volo delle tortore

La levigata scapola dell’agnello

Il fondo del bicchiere. Alla fine del viaggio

Potrai sfogliare il libro del destino”.

Così parlò il mio nocchiero

Manovrando la grande ruota.

 

 

 

 

Sobbalzo alla fermata dell’ospedaletto:

Dai cancelli le grida di antiche sofferenze.

Lo spaccio sotto i portici, i mercanti

Cacciati dal tempio.

Chiesa dell’Annunziata: dietro il portone chiuso

Gli ermetici riti del buio e del silenzio.

Al ponte di mezzo mi dice il conducente

Con voce roca incrostata di ruggine:

“Grida che sei di Dio, ripeti sempre

Che appartieni a Dio, se no ti perderai

Sulle rive del fiume, smemorato per sempre”.

 

Il fiume è secco, solo le nutrie e i corvi

E qualche specchio d’acqua rabbrividente.

Grido: “Appartengo a Dio, io son di Dio!”.

Dai piedi del ponte neri vapori

Si aggrappano con furia ai parapetti.

Ripeto disperato: “Appartengo a Dio!”.

Le loro mani attraverso i vetri

Afferrano i compagni di ventura

Strappandoli ai sedili,

Fumo anch’essi divenuti

Come tutto sembra essere il mondo.

“Non torneranno, dice il mio nocchiero,

Grigi vapori portati dalla corrente,

Si spegneranno in mare”.

 

 

Via Mazzini, nei grandi magazzini

Entrano ed escono azzurre ombre

Utopica fiumana di diffuso benessere.

Geme nel buio dei vicoli la nera

Ragna di povertà, tracima

Nelle strade del centro.

L’autobus è vuoto,

Siamo rimasti io e l’autista soli.

Una luce, piazza Garibaldi

Preferito giaciglio del sole.

“Per via della Repubblica non farò fermate

So che hai fretta d’arrivare”.

“D’arrivare dove?” mi domando,

forse domando a lui.

 

Quando saremo in Barriera Repubblica

Mi fermerò senza guardarti

E muto tu discendi,

Bevi l’acqua della fontana,

Non voltarti indietro

E’ la strada del ritorno

Un sentiero di selvaggia foresta.

 

Bagno la fronte con l’acqua della fonte,

Ne bevo dal palmo della mano.

Intorno a me un dolce scampanio

Di lontani campanili.

Nella nebbia che si dirada,

Un cerchio di ombre luminose,

Sento le loro voci, le vedo attorno a me:

Benedetta, felice schizofrenia.

Hanno l’aspetto familiare dell’infanzia

Come mi fosse caduto dalle spalle

Il peso degli anni.

 

“Vieni con noi” mi dice una voce,

Voce dolcissima di madre

E gli occhi miti di mio padre

Mi sorridono dietro le lenti spesse.

“Siamo con te da sempre,

Ma tu non puoi vederci”.

E tanti amici avevo attorno

E parenti che mi furono cari.

M’incamminai con loro.

L’arco di San Lazzaro

Svettava nella nebbia.

 

 

 

“Fermati ora!”

La voce di mia madre

Divenuta imperiosa:

Una donnina esile e mite

Eppure così autorevole.

Aveva in mano una benda nera,

Me la strinse sugli occhi.

Mi avvolse una notte carica di stelle.

“Ecco Omero, mi disse,

D’ora in poi avrai solo

Le immagini della tua mente.

Andrai di piazza in piazza,

Appenderai i tuoi sogni

Ai muri delle strade.

Diranno che sei Nessuno

Che non sei mai vissuto”.

 

Piangeva lenti singhiozzi

E mio padre teneramente

 La strinse tra le braccia.


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