“Tutta la vita delle società nelle quali predominano
le condizioni moderne di produzione
si presenta come un’immensa accumulazione di spettacoli.
Tutto ciò che era direttamente vissuto
si è allontanato in una rappresentazione”.
Guy Debord, La società dello spettacolo
“Tutta la chiesa sempre più d’accordo, sempre più lontano
già nel terzo millennio
loro ragionano così… Altro che giorno per giorno”.
Vasco Rossi, La fine del millennio
“Fine del mondo in Mondovisione.
Diretta da S. Pietro per l’occasione”.
Ligabue, A che ora è la fine del mondo
San Giovanni Rotondo, 24 aprile 2028 d.C.
Non appena la porta automatica della chiesa si chiuse alle mie spalle, fui avvolto da un piacevole silenzio soprannaturale e l’odore di cui tanto si parlava raggiunse persino le mie agnostiche narici. Il tempo di compiere pochi passi in direzione della zona dove presumibilmente avrei trovato l’entrata della cripta e fui intercettato da una sorridente vecchietta, bassa di statura e con una borsetta nera aperta che penzolava da un braccio.
«Giovanotto, mi scusi! Sarebbe così gentile da leggermi il biglietto di quella macchina infernale?» E nel pronunciare la parola infernale si girò velocemente verso l’altare sussurrando termini incomprensibili come a voler chiedere perdono di qualcosa. «Ho dimenticato di portare con me le lenti per leggere da vicino: credevo di averle messe nella borsetta e invece…»
«Non si preoccupi, mi faccia vedere». Presi in mano un piccolo rettangolo di carta bianca che non avevo mai visto o utilizzato prima. «Qui c’è scritto, signora, che dovrebbe recitare tre avemarie e quattro padrenostro oppure, fa lo stesso, può andare sul sito della diocesi, se è pratica di Internet, e cliccare tre volte sull’immagine della Madonna e quattro su quella di Gesù».
«La ringrazio tantissimo, lei è un giovanotto molto gentile. Che Dio la benedica e buona giornata!»
«Si figuri, per così poco».
Ah, sì! Ne avevo già sentito parlare di quelle macchine infernali o forse avevo letto qualcosa da qualche parte: si trattava degli avveniristici Confessionali Intelligenti della Soulsoft, una società tailandese con una sede importante anche a Milano specializzata in arredamenti liturgici interattivi. Una vera novità. E non solo dal punto di vista tecnologico.
Dopo la grave crisi vocazionale d’inizio millennio, al Vaticano sembrò essere l’unica soluzione praticabile per arginare la pressante richiesta d’ascolto da parte dei fedeli peccatori che volevano continuamente essere confessati. Tu entravi in quegli affari di legno del tutto simili ai confessionali che c’erano una volta, ti inginocchiavi e cominciavi a vomitare fuori tutte le nefandezze commesse e i pensierini poco cristiani formulati nei giorni e nelle settimane precedenti. Solo che, dall’altra parte della grata, non c’era il classico prete in devoto e comprensivo raccoglimento o semiaddormentato, pronto a trovare le parole giuste da affibbiarti per alleggerire l’anima, ma una serie di sofisticati sensori collegati tramite una vasta giungla di fili e marchingegni vari a un cervellone elettronico piazzato, addirittura, in un lontano sotterraneo sotto Città del Vaticano, nel cuore di Roma. Questo computer centrale, forte di un database contenente più di ottomila definizioni di peccati standard e un corpus di millecinquecento peccati particolarmente fastidiosi e “pesanti”, era capace, dopo che ci si alzava dall’inginocchiatoio, di elaborare una penitenza personalizzata nel giro di pochi decimi di secondo. Il tempo di ringraziare, in direzione della webcam, il “prete virtuale” e già – zaaaac! – t’usciva il biglietto da un’apposita fessura con tanto di preghiere da recitare e atti riparatori da compiere nel giro di ventiquattro ore. Cantava Giorgio Gaber alcuni decenni prima: “E la chiesa si rinnova per la nuova società!”
Ero stato inviato dal mio giornale, ovviamente in qualità di giornalista scientifico e non certo di devoto del santo di Pietrelcina, in occasione di un evento storico tanto fondamentale quanto segreto: l’inaugurazione ufficiosa del “p.i.o.” a cui avrebbero assistito pochi e selezionati giornalisti accreditati direttamente dal Vaticano e le più alte cariche religiose della regione Puglia, in primis il vescovo della diocesi.
La robotica aveva fatto passi da gigante durante quegli ultimi venti anni e l’immagine del santo con il volto siliconato, che suscitò tanto scalpore nel 2008, stava per essere archiviata definitivamente. Le ricerche riguardanti il cervello positronico avevano dato molte soddisfazioni sul versante della gestione industriale e commerciale: robot capaci di gestire sportelli bancari, o di pilotare petroliere in pieno oceano senza commettere alcun errore, avevano da tempo fatto la loro comparsa sui vari scenari della vita pubblica.
Stavolta si trattava, però, di applicare gli stessi concetti in un campo decisamente più delicato ed emotivamente sensibile: riproporre al pubblico credente il corpo di un santo morto da sessant’anni. L’equipe internazionale di esperti aveva lavorato per più di un anno sui pochi resti del frate, cercando di riprodurre un simulacro umanoide in metallo leggero. Non era tanto importante creare esattamente le fattezze corporee del santo che sarebbero state ricoperte da una muscolatura e un tegumento in gomma compatta e dall’immancabile saio, quanto piuttosto fabbricare delle mani convincenti e soprattutto un volto “realistico”, utilizzando una plastica morbida capace di assecondare i movimenti dei sottostanti meccanismi robotici; congegni precisissimi che avrebbero dovuto interpretare esattamente le espressioni umane, le smorfie, gli stati d’animo del frate. Un’impresa faraonica, se confrontata con la vecchia e sorpassata maschera in silicone.
I tecnici, grazie alla prova a cui stavo per assistere, avrebbero presto saputo se gli sforzi di quei lunghi mesi fossero stati inutili o se potevano finalmente dichiarare aperta una nuova stagione della robotica. Il “santo robot” avrebbe potuto interagire con i fedeli, ascoltarli, toccarli, benedirli, schiaffeggiarli se necessario, coccolarli, sbatacchiarli, incensarli, trastullarli, mandarli fuori a pedate dalla cripta, tirare le orecchie ai bambini, confessarli, ungerli, battezzarli, sposarli, cresimarli proprio come avrebbe fatto il vero frate Pio da Pietrelcina durante gli anni perduti della sua vita carnale.
Si passava così da una venerazione statica a una venerazione dinamica e interattiva: i fedeli, pur sapendo che non si trattava di un vero corpo umano, sarebbero stati felici di illudersi dinanzi al robot. Avrebbero fatto finta di poter recuperare un rapporto mai vissuto con il famoso frate; si sarebbero riscaldati al fuoco confortante delle sue sante parole come bimbi seduti ai piedi di un nonno ecumenico, parole elaborate in tempo reale e senza esitazione dal calcolatore centrale del p.i.o.
Avrebbero, insomma, vissuto una nuova e sofisticata fase di illusione attuata dalla santa madre chiesa, che farebbe di tutto pur di non allentare la presa sull’emotività e sulla fedeltà delle sue pecorelle smarrite.
La spettacolarizzazione della religione stava per raggiungere il suo massimo livello storico, facendo apparire ridicoli tutti gli sforzi architettonici dei secoli passati, tutte le crociate lanciate in nome di Dio, tutta la maestosità del vicario di Cristo fatta di ori e raffinati paramenti.
E io avrei avuto il privilegio di assistere a quella eccezionale “anteprima” pensata per pochi.
«Sono uno dei giornalisti accreditati». Dissi mostrando il mio tesserino al supervisore del programma mentre, stando in piedi davanti alla porta della sala controllo, cercava il mio nome nella lista.
«Tutto a posto, può entrare».
«Grazie!»
Avevano ricavato una certa quantità di spazio in cui collocare la sala controllo del p.i.o., utilizzando una delle cappelle laterali opportunamente chiusa con un muro. Al centro della cripta c’era uno scranno imponente su cui sedeva immobile il santo robot ricoperto dall’immancabile saio marrone e con il cappuccio in testa. Dalla sala i tecnici potevano tenere sotto controllo la cripta e il suo serafico ospite, non visti, attraverso un vetro a specchio: sulla consolle pullulante di luci e tasti le mani frenetiche degli operatori attendevano agli ultimi preparativi tecnici prima dell’arrivo dell’alto prelato che avrebbe dato il via alla prova generale del “Padre Pio Show”.
Ripensavo, durante l’attesa, ad alcuni passaggi delle interviste che avevo realizzato il giorno prima gironzolando tra i fedeli che frequentano costantemente la chiesa di San Giovanni Rotondo.
«Io sono uno dei miracolati!» Mi disse convinto un uomo di mezza età con uno strano sorriso stampato in faccia. «Avevo un tumore e dovevo essere operato. La sera prima mi addormentai, sognai Padre Pio e quando mi svegliai non avevo più niente! Capisce?»
Certo, capivo. Dopo alcuni minuti, parlando con sua moglie che l’accompagnava, seppi la verità sul “miracolo”. Il poveraccio interpretava il “sogno” come una metafora dell’anestesia generale: infatti era stato regolarmente operato da un’equipe di chirurghi oncologi ed effettivamente al suo risveglio non c’era più traccia della neoplasia. All’uomo piaceva credere che fosse stato Padre Pio a levargliela e continuai a farglielo credere, tanto non mi costava nulla.
Vivere e commerciare sfruttando la figura non sempre cristallina di quel frate: questo, forse, era stato il vero miracolo. Il miracolo economico.
Come aveva scritto un collega sulle pagine di un importante quotidiano nazionale qualche giorno prima: “…si tratta di vestigia di un mondo pre-moderno… dell’incapacità da parte dell’italiano medio di praticare una religione spirituale, di andare al di là della materia, di distinguere tra spirito e materia… Il materialismo della religione per esaltare l’incorruttibilità del santo… Santità e corruzione non stanno bene insieme…”
Il mio amico giornalista era sempre stato molto delicato e diplomatico nei suoi articoli: al posto suo io avrei parlato, invece, di vera e propria “pornografia religiosa” e l’avrei fatto senz’altro nell’articolo che m’apprestavo a scrivere, dopo la prova che stava ormai per cominciare. Non si trattava, ovviamente, della classica pornografia a cui il nostro pensiero troppo facilmente ci rimanda, ma dell’ostentazione di un’oscena corporeità, seppur santa, che denunciava un’immaturità spirituale gravissima, anche se condivisa da migliaia di rispettabilissime persone. La gente aveva bisogno di vedere e la filosofia mediatica (per non dire televisiva) che stava alla base di questo bisogno collettivo, era la stessa che alimentava tutti gli altri campi dell’umana comunicazione commerciale: il santo come un detersivo, né più né meno.
Togliere macchie, peccati o tumori: la differenza non importava quasi a nessuno.
«Buongiorno Eminenza, è tutto pronto!» Disse il capo del programma quando vide entrare il vescovo nella sala.
«Potete procedere, allora». Rispose il prelato sedendosi su una delle poltrone appositamente preparate per l’occasione.
«Circuiti preliminari?»
«Pronti!»
«Percentuale di elaborazione dati positronici?»
«98%!»
«Bene… Procediamo con l’invio dei primi schemi mentali».
«…3 …2 …1: invio in corso!»
Per alcuni secondi non accadde nulla di interessante, poi all’improvviso il robot positronico cominciò a muovere le dita della mano destra e alzò il braccio di quel lato fino all’altezza del viso come a volersi rendere conto di sé stesso, della propria “esistenza”, come a voler registrare accuratamente il dato “mano”.
Gli schemi mentali di Padre Pio erano stati preparati da un attento gruppo di agiografi e di psicologi comportamentali sulla base di una vasta gamma di informazioni culturali e biografiche che andavano dal 1887, anno di nascita del santo, fino al 1968, anno della sua morte. Schemi che avevano lo scopo di riprodurre, tramite il simulacro robotizzato, la maggior parte dei gesti e delle reazioni tipiche del frate, quando questo era realmente vivo in Puglia e gli scorreva del sangue vero nelle vene. Insieme a me, tra il “pubblico” selezionato, vi erano infatti molti anziani testimoni che avevano avuto la fortuna di conoscere personalmente Padre Pio all’epoca della sua prima vita organica e avrebbero potuto così suggellare, con la loro presenza e il loro consenso, il successo o meno dell’esperimento.
«Sta benedicendo!» Esclamò in maniera concitata uno di loro in direzione del capo programma.
«È un miracolo…» incalzò il capo programma visibilmente esaltato «…della scienza!» Si affrettò a concludere.
Il santo robot si alzò lentamente dallo scranno su cui era seduto e compì i suoi primi incerti passi nella cripta. Il cervello positronico stava registrando minuziosamente tutte le caratteristiche dell’ambiente e presto i dati raccolti avrebbero permesso alla macchina di muoversi autonomamente senza più bisogno di ricevere ulteriori dati dalla sala controllo.
«Mandiamogli un bambino» disse risoluto il vescovo.
«Fate entrare il bambino!» comandò un tecnico da un microfono della consolle.
Si aprì una porta e comparve timidamente un “fortunato” bambino scelto per estrazione tra i tanti concorrenti della parrocchia di San Giovanni Rotondo.
«Fatti più avanti, Luigino!» intimò il tecnico dall’altoparlante.
«E tu chi sì?» chiese tra lo stupore generale il santo robot, pronunciando le sue prime parole.
«Mi chiamo Luigino e questo fiore è per te!» Il bambino preventivamente addomesticato era entrato nella cripta con un giglio in mano.
«Grazie guagliò! La vuoi na caramella?»
«Sì!»
Il vescovo, strappandosi quasi le vesti di dosso, si alzò in piedi ed esclamò: «Funziona!»
E tutti, tranne io, si inginocchiarono per pregare.
La prova generale del “Padre Pio Show” procedeva ormai da più di un’ora: avevano mandato nell’arena, oltre il bambino, una madre anziana, una giovane ragazza con il fidanzato, un carabiniere, un parroco diocesano, un contadino, un medico, un hippy, un neonato, un veterinario, un tetraplegico, un ragazzo affetto dalla sindrome di Down, un ex alcolizzato, un ex galeotto, un sosia di padre Agostino Gemelli, un tossicodipendente di una vicina comunità e un gatto nero… Gli schemi mentali erano stati quasi tutti caricati nel cervello positronico del santo e le prove sembravano procedere per il meglio: le reazioni erano più o meno uguali a quelle del vero frate Pio. Vi fu anche un momento di generale ilarità quando il frate positronico ordinò all’hippy: «Guagliò, vatti a lavare e tagliati sti capill! Sinnò nun t’ facc trasì cchiù!»
Era proprio lui: il burberamente dolce frate cappuccino era “tornato” per continuare a operare il bene tra i suoi amati fedeli. Il vescovo sembrava volesse gridare al mondo intero: “Santi positronici di tutto il mondo, unitevi!”
Ma l’entusiasmo generale sarebbe stato di lì a poco ridimensionato.
«Registro un preoccupante aumento dell’energia positronica nel lobo frontale!» Avvertì nervosamente uno dei tecnici rivolgendosi al capo programma che da dieci minuti gongolava in compagnia del vescovo discutendo degli sviluppi futuri della prova.
«Dammi sul monitor un grafico dello schema mentale generale». Ordinò il capo programma rientrando bruscamente dalla gioia prematura.
«Ecco… Sembrerebbe tutto a posto, ma nonostante questi dati non riesco a spiegarmi l’aumento…»
«Diminuiamo del 5% il flusso di dati mentali positronici e controlliamo il buffer overflow!»
«Siamo già all’87%, ma mancano ancora i dati mentali relativi agli anni Sessanta…»
«Tu non ti preoccupare: diminuisci il flusso come ti ho detto e tieni sotto controllo l’energia».
«Va bene».
Ma ormai era troppo tardi: il sovraccarico positronico aveva già destabilizzato la griglia motoria del robot e dalla sala controllo, da quell’istante in poi, avrebbero potuto solo assistere passivamente alle follie robotiche del marchingegno andato in tilt.
«I’m singing in the rain just singing in the rain!» La versione robotizzata di Padre Pio da Pietrelcina cominciò a cantare improvvisamente, tra lo stupore generale, imitando addirittura i passi di danza di Gene Kelly nel celeberrimo film Cantando sotto la pioggia.
«Interrompi l’energia!» sbraitò il capo programma.
«Fatto… Non succede niente!» rispose il tecnico osservando la faccia terrorizzata del capo.
«Il sovraccarico positronico sta gestendo in maniera autonoma l’immane quantità di dati che abbiamo già introdotto nella memoria positronica…»
«E ora cosa facciamo?»
«Bisognerebbe entrare nella cripta e togliere direttamente dalla testa del robot il chip mnemonico…»
«La vedo difficile, capo!»
«Lo so: se entriamo lì dentro, quello sarebbe capace di prenderci a calci in culo fino a domani mattina!»
Intanto il frate positronico, imitando Gassman, continuava indisturbato la sua inaspettata performance teatrale «Essere o non essere, questo è il problema: se sia più nobile d’animo sopportare gli oltraggi, i sassi e i dardi dell’iniqua fortuna, o prender l’armi contro un mare di triboli e combattendo disperderli?»
«Fermatelo, per carità!» Guaiva il vescovo ormai in preda a una vera e propria crisi isterica.
«Ci stiamo provando!» Cercò di rassicurarlo senza troppa convinzione il capo programma.
«Con ventiquattromila baci… così frenetico è l’amore… in questo giorno di follia… ogni minuto è tutto mio!» Tirando in ballo persino il Molleggiato, il robot s’era messo a cantare un motivo sempreverde del 1961 di Adriano Celentano; segno evidente che, almeno fino a quell’anno, i dati mnemonici erano stati incamerati.
La sala era ormai in preda a un comprensibile trambusto: frati cappuccini che correvano da tutte le parti, suore con in mano i sali per il vescovo svenuto, tecnici disperati e assolutamente impotenti che guardavano il cybercappuccino attraverso il vetro a specchio mentre cantava un vecchio successo di Frank Sinatra «But more, much more than this, I did it my way!»
Non c’era più traccia in me del freddo cronista scientifico in giacca e cravatta; ero disteso da più di due minuti sulla sedia e avevo le mani premute sulla pancia per cercare di trattenere il dolore derivante dalle forti risate a cui m’ero abbandonato. Mentre tutti intorno a me fuggivano e si strappavano i capelli, io ero forse l’unico a non aver perso la testa. L’unico ancora capace di ridere della vita, delle follie del mondo: per non prendere quella buffonata pseudo-religiosa troppo seriamente. L’esperimento malriuscito, poi, aveva rappresentato il massimo della stupidità umana: gli individui della mia specie erano capaci di atti assolutamente esilaranti e la comicità derivante da questi fatti aumentava progressivamente in relazione alla grandiosità e all’austerità che li accompagnava.
«Proprio strana la specie umana!» pensai tra me e me mentre mi apprestavo a lasciare la sala controllo.
Avevo guadagnato ormai l’uscita della cripta e mi dirigevo verso il sagrato della chiesa, all’aria aperta, sotto il sole cocente di Puglia. Non ridevo più e respiravo decisamente meglio.
Non sapevo ancora cosa avrei scritto nel mio articolo, ma di una cosa ero fermamente convinto: non capivo il trambusto dei frati e la disperazione scaturita dagli eventi a cui avevo appena assistito. In fin dei conti, e malgrado tutto, il “Padre Pio Show” c’era stato e, almeno io, m’ero divertito come non mi succedeva ormai da anni.
Nota:
P.I.O.: acronimo di “Positronic Intelligence Ostensory” – Ostensorio a Intelligenza Positronica.
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