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The Padre P.I.O. Show
“Tutta la vita delle società nelle quali predominano le condizioni moderne di produzione si presenta come un’immensa accumulazione di spettacoli. Tutto ciò che era direttamente vissuto si è allontanato in una rappresentazione”. Guy Debord, La società dello spettacolo “Tutta la chiesa sempre più d’accordo, sempre più lontano già nel terzo millennio loro ragionano così… Altro che giorno per giorno”. Vasco Rossi, La fine del millennio “Fine del mondo in Mondovisione. Diretta da S. Pietro per l’occasione”. Ligabue, A che ora è la fine del mondo San Giovanni Rotondo, 24 aprile 2028 d.C. Non appena la porta automatica della chiesa si chiuse alle mie spalle, fui avvolto da un piacevole silenzio soprannaturale e l’odore di cui tanto si parlava raggiunse persino le mie agnostiche narici. Il tempo di compiere pochi passi in direzione della zona dove presumibilmente avrei trovato l’entrata della cripta e fui intercettato da una sorridente vecchietta, bassa di statura e con una borsetta nera aperta che penzolava da un braccio. «Giovanotto, mi scusi! Sarebbe così gentile da leggermi il biglietto di quella macchina infernale?» E nel pronunciare la parola infernale si girò velocemente verso l’altare sussurrando termini incomprensibili come a voler chiedere perdono di qualcosa. «Ho dimenticato di portare con me le lenti per leggere da vicino: credevo di averle messe nella borsetta e invece…» «Non si preoccupi, mi faccia vedere». Presi in mano un piccolo rettangolo di carta bianca che non avevo mai visto o utilizzato prima. «Qui c’è scritto, signora, che dovrebbe recitare tre avemarie e quattro padrenostro oppure, fa lo stesso, può andare sul sito della diocesi, se è pratica di Internet, e cliccare tre volte sull’immagine della Madonna e quattro su quella di Gesù». «La ringrazio tantissimo, lei è un giovanotto molto gentile. Che Dio la benedica e buona giornata!» «Si figuri, per così poco». Ah, sì! Ne avevo già sentito parlare di quelle macchine infernali o forse avevo letto qualcosa da qualche parte: si trattava degli avveniristici Confessionali Intelligenti della Soulsoft, una società tailandese con una sede importante anche a Milano specializzata in arredamenti liturgici interattivi. Una vera novità. E non solo dal punto di vista tecnologico. Dopo la grave crisi vocazionale d’inizio millennio, al Vaticano sembrò essere l’unica soluzione praticabile per arginare la pressante richiesta d’ascolto da parte dei fedeli peccatori che volevano continuamente essere confessati. Tu entravi in quegli affari di legno del tutto simili ai confessionali che c’erano una volta, ti inginocchiavi e cominciavi a vomitare fuori tutte le nefandezze commesse e i pensierini poco cristiani formulati nei giorni e nelle settimane precedenti. Solo che, dall’altra parte della grata, non c’era il classico prete in devoto e comprensivo raccoglimento o semiaddormentato, pronto a trovare le parole giuste da affibbiarti per alleggerire l’anima, ma una serie di sofisticati sensori collegati tramite una vasta giungla di fili e marchingegni vari a un cervellone elettronico piazzato, addirittura, in un lontano sotterraneo sotto Città del Vaticano, nel cuore di Roma. Questo computer centrale, forte di un database contenente più di ottomila definizioni di peccati standard e un corpus di millecinquecento peccati particolarmente fastidiosi e “pesanti”, era capace, dopo che ci si alzava dall’inginocchiatoio, di elaborare una penitenza personalizzata nel giro di pochi decimi di secondo. Il tempo di ringraziare, in direzione della webcam, il “prete virtuale” e già – zaaaac! – t’usciva il biglietto da un’apposita fessura con tanto di preghiere da recitare e atti riparatori da compiere nel giro di ventiquattro ore. Cantava Giorgio Gaber alcuni decenni prima: “E la chiesa si rinnova per la nuova società!” Ero stato inviato dal mio giornale, ovviamente in qualità di giornalista scientifico e non certo di devoto del santo di Pietrelcina, in occasione di un evento storico tanto fondamentale quanto segreto: l’inaugurazione ufficiosa del “p.i.o.” a cui avrebbero assistito pochi e selezionati giornalisti accreditati direttamente dal Vaticano e le più alte cariche religiose della regione Puglia, in primis il vescovo della diocesi. La robotica aveva fatto passi da gigante durante quegli ultimi venti anni e l’immagine del santo con il volto siliconato, che suscitò tanto scalpore nel 2008, stava per essere archiviata definitivamente. Le ricerche riguardanti il cervello positronico avevano dato molte soddisfazioni sul versante della gestione industriale e commerciale: robot capaci di gestire sportelli bancari, o di pilotare petroliere in pieno oceano senza commettere alcun errore, avevano da tempo fatto la loro comparsa sui vari scenari della vita pubblica. Stavolta si trattava, però, di applicare gli stessi concetti in un campo decisamente più delicato ed emotivamente sensibile: riproporre al pubblico credente il corpo di un santo morto da sessant’anni. L’equipe internazionale di esperti aveva lavorato per più di un anno sui pochi resti del frate, cercando di riprodurre un simulacro umanoide in metallo leggero. Non era tanto importante creare esattamente le fattezze corporee del santo che sarebbero state ricoperte da una muscolatura e un tegumento in gomma compatta e dall’immancabile saio, quanto piuttosto fabbricare delle mani convincenti e soprattutto un volto “realistico”, utilizzando una plastica morbida capace di assecondare i movimenti dei sottostanti meccanismi robotici; congegni precisissimi che avrebbero dovuto interpretare esattamente le espressioni umane, le smorfie, gli stati d’animo del frate. Un’impresa faraonica, se confrontata con la vecchia e sorpassata maschera in silicone. I tecnici, grazie alla prova a cui stavo per assistere, avrebbero presto saputo se gli sforzi di quei lunghi mesi fossero stati inutili o se potevano finalmente dichiarare aperta una nuova stagione della robotica. Il “santo robot” avrebbe potuto interagire con i fedeli, ascoltarli, toccarli, benedirli, schiaffeggiarli se necessario, coccolarli, sbatacchiarli, incensarli, trastullarli, mandarli fuori a pedate dalla cripta, tirare le orecchie ai bambini, confessarli, ungerli, battezzarli, sposarli, cresimarli proprio come avrebbe fatto il vero frate Pio da Pietrelcina durante gli anni perduti della sua vita carnale. Si passava così da una venerazione statica a una venerazione dinamica e interattiva: i fedeli, pur sapendo che non si trattava di un vero corpo umano, sarebbero stati felici di illudersi dinanzi al robot. Avrebbero fatto finta di poter recuperare un rapporto mai vissuto con il famoso frate; si sarebbero riscaldati al fuoco confortante delle sue sante parole come bimbi seduti ai piedi di un nonno ecumenico, parole elaborate in tempo reale e senza esitazione dal calcolatore centrale del p.i.o. Avrebbero, insomma, vissuto una nuova e sofisticata fase di illusione attuata dalla santa madre chiesa, che farebbe di tutto pur di non allentare la presa sull’emotività e sulla fedeltà delle sue pecorelle smarrite. La spettacolarizzazione della religione stava per raggiungere il suo massimo livello storico, facendo apparire ridicoli tutti gli sforzi architettonici dei secoli passati, tutte le crociate lanciate in nome di Dio, tutta la maestosità del vicario di Cristo fatta di ori e raffinati paramenti. E io avrei avuto il privilegio di assistere a quella eccezionale “anteprima” pensata per pochi. «Sono uno dei giornalisti accreditati». Dissi mostrando il mio tesserino al supervisore del programma mentre, stando in piedi davanti alla porta della sala controllo, cercava il mio nome nella lista. «Tutto a posto, può entrare». «Grazie!» Avevano ricavato una certa quantità di spazio in cui collocare la sala controllo del p.i.o., utilizzando una delle cappelle laterali opportunamente chiusa con un muro. Al centro della cripta c’era uno scranno imponente su cui sedeva immobile il santo robot ricoperto dall’immancabile saio marrone e con il cappuccio in testa. Dalla sala i tecnici potevano tenere sotto controllo la cripta e il suo serafico ospite, non visti, attraverso un vetro a specchio: sulla consolle pullulante di luci e tasti le mani frenetiche degli operatori attendevano agli ultimi preparativi tecnici prima dell’arrivo dell’alto prelato che avrebbe dato il via alla prova generale del “Padre Pio Show”. Ripensavo, durante l’attesa, ad alcuni passaggi delle interviste che avevo realizzato il giorno prima gironzolando tra i fedeli che frequentano costantemente la chiesa di San Giovanni Rotondo. «Io sono uno dei miracolati!» Mi disse convinto un uomo di mezza età con uno strano sorriso stampato in faccia. «Avevo un tumore e dovevo essere operato. La sera prima mi addormentai, sognai Padre Pio e quando mi svegliai non avevo più niente! Capisce?» Certo, capivo. Dopo alcuni minuti, parlando con sua moglie che l’accompagnava, seppi la verità sul “miracolo”. Il poveraccio interpretava il “sogno” come una metafora dell’anestesia generale: infatti era stato regolarmente operato da un’equipe di chirurghi oncologi ed effettivamente al suo risveglio non c’era più traccia della neoplasia. All’uomo piaceva credere che fosse stato Padre Pio a levargliela e continuai a farglielo credere, tanto non mi costava nulla. Vivere e commerciare sfruttando la figura non sempre cristallina di quel frate: questo, forse, era stato il vero miracolo. Il miracolo economico. Come aveva scritto un collega sulle pagine di un importante quotidiano nazionale qualche giorno prima: “…si tratta di vestigia di un mondo pre-moderno… dell’incapacità da parte dell’italiano medio di praticare una religione spirituale, di andare al di là della materia, di distinguere tra spirito e materia… Il materialismo della religione per esaltare l’incorruttibilità del santo… Santità e corruzione non stanno bene insieme…” Il mio amico giornalista era sempre stato molto delicato e diplomatico nei suoi articoli: al posto suo io avrei parlato, invece, di vera e propria “pornografia religiosa” e l’avrei fatto senz’altro nell’articolo che m’apprestavo a scrivere, dopo la prova che stava ormai per cominciare. Non si trattava, ovviamente, della classica pornografia a cui il nostro pensiero troppo facilmente ci rimanda, ma dell’ostentazione di un’oscena corporeità, seppur santa, che denunciava un’immaturità spirituale gravissima, anche se condivisa da migliaia di rispettabilissime persone. La gente aveva bisogno di vedere e la filosofia mediatica (per non dire televisiva) che stava alla base di questo bisogno collettivo, era la stessa che alimentava tutti gli altri campi dell’umana comunicazione commerciale: il santo come un detersivo, né più né meno. Togliere macchie, peccati o tumori: la differenza non importava quasi a nessuno. «Buongiorno Eminenza, è tutto pronto!» Disse il capo del programma quando vide entrare il vescovo nella sala. «Potete procedere, allora». Rispose il prelato sedendosi su una delle poltrone appositamente preparate per l’occasione. «Circuiti preliminari?» «Pronti!» «Percentuale di elaborazione dati positronici?» «98%!» «Bene… Procediamo con l’invio dei primi schemi mentali». «…3 …2 …1: invio in corso!» Per alcuni secondi non accadde nulla di interessante, poi all’improvviso il robot positronico cominciò a muovere le dita della mano destra e alzò il braccio di quel lato fino all’altezza del viso come a volersi rendere conto di sé stesso, della propria “esistenza”, come a voler registrare accuratamente il dato “mano”. Gli schemi mentali di Padre Pio erano stati preparati da un attento gruppo di agiografi e di psicologi comportamentali sulla base di una vasta gamma di informazioni culturali e biografiche che andavano dal 1887, anno di nascita del santo, fino al 1968, anno della sua morte. Schemi che avevano lo scopo di riprodurre, tramite il simulacro robotizzato, la maggior parte dei gesti e delle reazioni tipiche del frate, quando questo era realmente vivo in Puglia e gli scorreva del sangue vero nelle vene. Insieme a me, tra il “pubblico” selezionato, vi erano infatti molti anziani testimoni che avevano avuto la fortuna di conoscere personalmente Padre Pio all’epoca della sua prima vita organica e avrebbero potuto così suggellare, con la loro presenza e il loro consenso, il successo o meno dell’esperimento. «Sta benedicendo!» Esclamò in maniera concitata uno di loro in direzione del capo programma. «È un miracolo…» incalzò il capo programma visibilmente esaltato «…della scienza!» Si affrettò a concludere. Il santo robot si alzò lentamente dallo scranno su cui era seduto e compì i suoi primi incerti passi nella cripta. Il cervello positronico stava registrando minuziosamente tutte le caratteristiche dell’ambiente e presto i dati raccolti avrebbero permesso alla macchina di muoversi autonomamente senza più bisogno di ricevere ulteriori dati dalla sala controllo. «Mandiamogli un bambino» disse risoluto il vescovo. «Fate entrare il bambino!» comandò un tecnico da un microfono della consolle. Si aprì una porta e comparve timidamente un “fortunato” bambino scelto per estrazione tra i tanti concorrenti della parrocchia di San Giovanni Rotondo. «Fatti più avanti, Luigino!» intimò il tecnico dall’altoparlante. «E tu chi sì?» chiese tra lo stupore generale il santo robot, pronunciando le sue prime parole. «Mi chiamo Luigino e questo fiore è per te!» Il bambino preventivamente addomesticato era entrato nella cripta con un giglio in mano. «Grazie guagliò! La vuoi na caramella?» «Sì!» Il vescovo, strappandosi quasi le vesti di dosso, si alzò in piedi ed esclamò: «Funziona!» E tutti, tranne io, si inginocchiarono per pregare. La prova generale del “Padre Pio Show” procedeva ormai da più di un’ora: avevano mandato nell’arena, oltre il bambino, una madre anziana, una giovane ragazza con il fidanzato, un carabiniere, un parroco diocesano, un contadino, un medico, un hippy, un neonato, un veterinario, un tetraplegico, un ragazzo affetto dalla sindrome di Down, un ex alcolizzato, un ex galeotto, un sosia di padre Agostino Gemelli, un tossicodipendente di una vicina comunità e un gatto nero… Gli schemi mentali erano stati quasi tutti caricati nel cervello positronico del santo e le prove sembravano procedere per il meglio: le reazioni erano più o meno uguali a quelle del vero frate Pio. Vi fu anche un momento di generale ilarità quando il frate positronico ordinò all’hippy: «Guagliò, vatti a lavare e tagliati sti capill! Sinnò nun t’ facc trasì cchiù!» Era proprio lui: il burberamente dolce frate cappuccino era “tornato” per continuare a operare il bene tra i suoi amati fedeli. Il vescovo sembrava volesse gridare al mondo intero: “Santi positronici di tutto il mondo, unitevi!” Ma l’entusiasmo generale sarebbe stato di lì a poco ridimensionato. «Registro un preoccupante aumento dell’energia positronica nel lobo frontale!» Avvertì nervosamente uno dei tecnici rivolgendosi al capo programma che da dieci minuti gongolava in compagnia del vescovo discutendo degli sviluppi futuri della prova. «Dammi sul monitor un grafico dello schema mentale generale». Ordinò il capo programma rientrando bruscamente dalla gioia prematura. «Ecco… Sembrerebbe tutto a posto, ma nonostante questi dati non riesco a spiegarmi l’aumento…» «Diminuiamo del 5% il flusso di dati mentali positronici e controlliamo il buffer overflow!» «Siamo già all’87%, ma mancano ancora i dati mentali relativi agli anni Sessanta…» «Tu non ti preoccupare: diminuisci il flusso come ti ho detto e tieni sotto controllo l’energia». «Va bene». Ma ormai era troppo tardi: il sovraccarico positronico aveva già destabilizzato la griglia motoria del robot e dalla sala controllo, da quell’istante in poi, avrebbero potuto solo assistere passivamente alle follie robotiche del marchingegno andato in tilt. «I’m singing in the rain just singing in the rain!» La versione robotizzata di Padre Pio da Pietrelcina cominciò a cantare improvvisamente, tra lo stupore generale, imitando addirittura i passi di danza di Gene Kelly nel celeberrimo film Cantando sotto la pioggia. «Interrompi l’energia!» sbraitò il capo programma. «Fatto… Non succede niente!» rispose il tecnico osservando la faccia terrorizzata del capo. «Il sovraccarico positronico sta gestendo in maniera autonoma l’immane quantità di dati che abbiamo già introdotto nella memoria positronica…» «E ora cosa facciamo?» «Bisognerebbe entrare nella cripta e togliere direttamente dalla testa del robot il chip mnemonico…» «La vedo difficile, capo!» «Lo so: se entriamo lì dentro, quello sarebbe capace di prenderci a calci in culo fino a domani mattina!» Intanto il frate positronico, imitando Gassman, continuava indisturbato la sua inaspettata performance teatrale «Essere o non essere, questo è il problema: se sia più nobile d’animo sopportare gli oltraggi, i sassi e i dardi dell’iniqua fortuna, o prender l’armi contro un mare di triboli e combattendo disperderli?» «Fermatelo, per carità!» Guaiva il vescovo ormai in preda a una vera e propria crisi isterica. «Ci stiamo provando!» Cercò di rassicurarlo senza troppa convinzione il capo programma. «Con ventiquattromila baci… così frenetico è l’amore… in questo giorno di follia… ogni minuto è tutto mio!» Tirando in ballo persino il Molleggiato, il robot s’era messo a cantare un motivo sempreverde del 1961 di Adriano Celentano; segno evidente che, almeno fino a quell’anno, i dati mnemonici erano stati incamerati. La sala era ormai in preda a un comprensibile trambusto: frati cappuccini che correvano da tutte le parti, suore con in mano i sali per il vescovo svenuto, tecnici disperati e assolutamente impotenti che guardavano il cybercappuccino attraverso il vetro a specchio mentre cantava un vecchio successo di Frank Sinatra «But more, much more than this, I did it my way!» Non c’era più traccia in me del freddo cronista scientifico in giacca e cravatta; ero disteso da più di due minuti sulla sedia e avevo le mani premute sulla pancia per cercare di trattenere il dolore derivante dalle forti risate a cui m’ero abbandonato. Mentre tutti intorno a me fuggivano e si strappavano i capelli, io ero forse l’unico a non aver perso la testa. L’unico ancora capace di ridere della vita, delle follie del mondo: per non prendere quella buffonata pseudo-religiosa troppo seriamente. L’esperimento malriuscito, poi, aveva rappresentato il massimo della stupidità umana: gli individui della mia specie erano capaci di atti assolutamente esilaranti e la comicità derivante da questi fatti aumentava progressivamente in relazione alla grandiosità e all’austerità che li accompagnava. «Proprio strana la specie umana!» pensai tra me e me mentre mi apprestavo a lasciare la sala controllo. Avevo guadagnato ormai l’uscita della cripta e mi dirigevo verso il sagrato della chiesa, all’aria aperta, sotto il sole cocente di Puglia. Non ridevo più e respiravo decisamente meglio. Non sapevo ancora cosa avrei scritto nel mio articolo, ma di una cosa ero fermamente convinto: non capivo il trambusto dei frati e la disperazione scaturita dagli eventi a cui avevo appena assistito. In fin dei conti, e malgrado tutto, il “Padre Pio Show” c’era stato e, almeno io, m’ero divertito come non mi succedeva ormai da anni.
Nota: P.I.O.: acronimo di “Positronic Intelligence Ostensory” – Ostensorio a Intelligenza Positronica.
Id: 4770 Data: 09/02/2020 20:26:49
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L’ultimo sorriso di Tony Drastico
E proprio mentre Tony Drastico cominciava a capire qualcosa della vita, ovvero cominciava a capire di non averla capita e che questa verità tutto sommato comoda era stata per lui una grande e sapiente liberazione; proprio mentre tutti i pezzi del mosaico continuavano a restare in dispettoso disordine sul tavolo senza formare alcuna immagine rivelatrice, una di quelle immagini nitide con cui ci si illude di avere il controllo della realtà; proprio mentre accadeva tutto questo, gli capitò di morire. (Lo so che lo scrittore William Forrester nel film “Scoprendo Forrester” sconsiglia caldamente di cominciare una frase con una congiunzione, ma come risponde il suo giovane allievo Jamal, anch’io dico: “Sì… che si può!” E infatti l’ho fatto sopra, all’inizio del racconto… Caspita, l’ho rifatto anche qui, in quest’ultima frase. Niente, è più forte di me. E pazienza! Ancora…?) Gliel’avevano detto più volte a Tony: “Sembra che non sia tu a guidare l’automobile, quanto piuttosto l’auto a pilotare te!”. Ironizzavano gli amici che spesso scarrozzava in giro, su e giù per la provincia, testando birre in pub da poco aperti e ascoltando cover band di storici gruppi rock estinti o in procinto di estinguersi. Però quella notte maledetta non fu la guida casual di Tony Drastico a determinare il suo solitario trapasso verso l’aldilà quanto piuttosto i mal segnalati lavori in corso sulla tangenziale di Salerno: l’impatto violento contro le barriere allestite dalla società autostradale, quasi invisibili sotto la pioggia battente a causa delle luci lampeggianti del cantiere da alcune ore fuori uso, fecero sbalzare la sua auto nella corsia chiusa della strada in manutenzione. Tutto avvenne in un attimo, senza grandi preparativi, come è abitudine della morte per incidenti e non per malattia: dal sorriso compiaciuto e beffardo, a suon di musica proveniente dall’autoradio, di chi è finalmente consapevole che la vita non può essere capita e controllata a una altrettanto incontrollabile e ghignosa morte. Coerente su tutta la linea, fino alla fine. In qualità di voce narrante autorizzata dallo stesso personaggio di Tony Drastico a rilasciare dichiarazioni ufficiali a voi lettori, sono felice di comunicarvi che la leggenda riguardante l’intera vita che scorrerebbe davanti agli occhi del morente è - diciamolo una volta per tutte - una incommensurabile cazzata! Meno grave, decisamente, di quell’altra riguardante la famosa “luce in fondo al tunnel” messa in circolazione da gente comatosa, dedita all’uso di sostanze psicotrope e tornata in piedi al solo scopo di diffondere fandonie neuro-metafisiche grazie alle quali allestire affollati meeting per mettere in comunicazione il pubblico pagante con il mondo dei morti (veri utilizzatori finali di questa presunta luce nel tunnel, solo intravista dai “ritornati”) e pubblicare libri, scritti da ghost writers, riguardanti il tema scottante della vita oltre la morte. E invece sarebbe più utile e onesto parlare della morte durante la vita e come evitarla, se possibile, quando avresti ancora voglia di vivere e di mettere in pratica alcune cosette imparate negli anni precedenti. Ma la vita su questo pianeta, si sa, è tanto meravigliosa quanto bizzarra, e il nostro umile compito è quello di assecondarla durante le sue feroci e capricciose sterzate. Mentre l’auto compiva una rotazione su se stessa, intorno all’asse longitudinale della normalità di noi bipedi evoluti seduti sui motori a scoppio dell’inventiva, facendo diventare sotto il tetto dell’abitacolo e sopra il pavimento del telaio dove non batte mai il sole, tra la grandine di vetri dei finestrini rotti dalla botta sull’asfalto e il levitare caotico dei vari oggetti depositati sul cruscotto, polvere compresa, nel corso degli anni, l’unica immagine che un sorridente Tony Drastico vide comparire nel suo cervello sorpreso ma non stupefatto e stranamente sobrio, fu quella della sua amica giapponese Murasaki Sōseki, conosciuta per caso a Tokyo molti anni prima durante uno dei suoi viaggi da ramingo solitario in cerca di nuovi scenari geografici e umani da dare in pasto alla sua mente e al suo cuore, da sempre in bolletta esistenziale. Murasaki all’epoca del loro primo incontro svolgeva la funzione di location manager nello staff nipponico che assisteva la regista americana Sofia Coppola durante le riprese del fortunato film “Lost in Translation”, girato proprio nella metropoli giapponese. Erano bastati pochi ingredienti per realizzare quel simpatico incontro italo-nipponico tra Tony e Murasaki: la richiesta sfacciata degli autografi di Bill Murray e Scarlett Johansson impegnati sul set; le risatine di lei per l’inglese di Tony, efficace per sopravvivere all’estero ma ancora troppo maccheronico per approfondite discussioni filosofiche e che tanta comica tenerezza suscitava nelle ragazze di Tokyo quando le fermava con la scusa di un’informazione; il dialogo non privo di inconvenienti sulle ragioni esistenziali prima ancora che cinematografiche di quel film in costruzione; un tè bevuto insieme tra una ripresa e l’altra anche se Tony odiava il tè e lo beveva solo per fare colpo su di lei o quand’era influenzato… Un’amicizia nata per caso e alimentata da un’insolita conoscenza delle canzoni di Franco Battiato che nonostante le forti differenze linguistiche aveva attecchito nell’animo di molti giovani del paese del Sol levante, tra i quali quello di Murasaki. Che risate si faceva Tony quando lei tentava di cantare Veni l’autunnu con la sua strana pronuncia siculo nipponica, consapevole che ogni suo tentativo avrebbe suscitato l’ilarità di quell’italiano sperduto nel mondo. Era stata per alcuni mesi in Italia durante gli anni del liceo, grazie a un programma di scambi culturali tra Italia e Giappone, e aveva riportato a casa molti ricordi, anche musicali, di quella sua interessante e giovanile esperienza nella penisola mediterranea. L’insularità del Maestro Battiato riusciva a dialogare, non si sa bene tramite quali occulti canali psicolinguistici, con l’animo insulare dei giapponesi più curiosi e aperti a esperienze esotiche. L’esotismo vissuto al contrario: noi italiani visti come interessanti “orientali” d’occidente… da Oriente. L’incontro tra arcipelago e penisola: nel primo caso l’orgoglio dell’isolamento, nel caso della penisola l’illusione di un punto di contatto con il resto del mondo. Il tutto regolato dalla costante presenza dell’acqua che circonda o quasi, comprime, decide, condiziona, si mescola evaporando al fuoco lavico dei vulcani: che storia il carattere geografico delle persone! Anche agli antipodi le creature cresciute in ambienti simili si annusano e si riconoscono. L’idea bislacca venne a Tony durante una visita in compagnia di Murasaki a un tempio scintoista: “Se un giorno dovessi morire, racconteresti la mia storia, le cose belle e brutte di me che ho condiviso con te, alle persone che non hanno potuto o voluto conoscermi mentre ero vivo?” chiese a bruciapelo Tony. La strana richiesta che sapeva di morte, caduta in terra come un fulmine estivo, aveva un po’ intristito Murasaki, anche se la tipica serietà nipponica e lo spirito servizievole da geisha che albergavano in lei, trasmessi di generazione in generazione da millenni sotto forma di tracce genetiche indelebili, avevano già accettato silenziosamente quell’incarico proiettato nel futuro e da dimenticare sotto la cenere calda dell’esistenza, in attesa del momento giusto. “Lo farò!” la ragazza si era limitata a rassicurare Tony adoperando un laconico sigillo a cui non c’era nient’altro da aggiungere. Un punto di vista lontano ed esotico da proiettare sulle distratte, piccole vite di parenti e amici lasciati a fermentare in Italia, in quella stessa Italia in cui si accingeva a ritornare dopo un viaggio improvvisato e salvifico. Un ritorno obbligatorio ma temporaneo dettato da esigenze burocratiche di permessi di soggiorno in scadenza e da meno onorevoli motivi economici. Però sapeva dentro di se che sarebbe ritornato da Murasaki, anche solo per guardarla negli occhi un’ultima volta e per finire di raccontarle cosa avrebbe dovuto dire agli “italioti” all’indomani di una sua ipotetica dipartita da questo pianeta. Non era questo, non era il rapporto tra tempo e conoscenza o tra spazio e conoscenza che preoccupava Tony: da sempre sapeva che tutti noi viviamo intere esistenze accanto a persone che credono di conoscerci e che invece alla fine sopravvivono giorno dopo giorno solo grazie all’idea conveniente che hanno di noi, senza sforzo, senza dubbio, senza concedersi un altro punto di vista. Sempre tutto etichettato, facile, dogmatico, pulito, stirato, naftalinizzato, conservato nei magazzini immutabili della pigrizia mentale, in attesa di una qualsiasi morte. La nuova angolazione visiva sarebbe giunta dall’estremo oriente, addirittura dal Giappone, scellerato alleato di guerre sbagliate lungo assi improbabili, e ora muto confidente per racconti post mortem grazie a quella ragazza minuta ma vulcanica e tenace, dolce e ferrea, muta ascoltatrice e all’occorrenza tsunami di parole. Quando l’andarono a prendere all’aeroporto di Roma in vista delle esequie, che erano state appositamente rimandate, previa “climatizzazione” della salma, a causa dell’improrogabile disposizione testamentaria che lo stesso Tony, nonostante la sua età relativamente giovane, aveva con piglio pronostico racchiuso in una busta sigillata dinanzi al notaio di famiglia e posta in bella vista su un ripiano della sua amata libreria, a casa dell’anziana madre, la videro scendere lentamente, con passi millimetrici, dal volo internazionale proveniente da Tokyo e fasciata dal kimono che Tony le aveva regalato durante uno dei suoi ultimi viaggi in Giappone. Murasaki, bella e semplice come una pietra levigata dalla vita, ritornava in Italia dopo molti anni per il suo amico Tony. Tutto era stato scritto nel testamento e programmato fin nei minimi particolari, e Murasaki, onorata per quello strano incarico e forse anche impercettibilmente divertita dalla fantasia di Tony, aveva assecondato le sue ultime bizzarre volontà. Per rispettare la seriosa autoironia di quella insolita richiesta, fatta anni addietro nel tempio scintoista, aveva intitolato il suo affettuoso e contraddittorio coccodrillo per Tony: “La verità, tutta la verità, tutt’altro che la verità”… La frase finale “nient’altro che la verità” le era sembrata troppo invadente e impegnativa, da sostituire, e anche se aveva giurato a Tony che avrebbe soddisfatto il suo desiderio di pubblica riabilitazione, aveva fin da subito chiarito che le parti più belle, intime, preziose della loro umana amicizia le avrebbe conservate per sempre dentro di se e non le avrebbe sbandierate in una chiesa affollata di gente che non vedeva l’ora di ritornare a casa per la cena. Quando il prete, dopo una breve omelia, fece cenno a Murasaki di avvicinarsi al microfono per condividere la sua testimonianza con parenti e amici, non si sarebbe mai aspettato quell’incipit. La donna, ormai non più giovane come ai tempi delle spensierate gite alle pendici del monte Fuji in compagnia del suo amico italiano ma dotata di quel fascino che solo il tempo può regalare alle persone sagge e pazienti, esordì leggendo dal foglio in un italiano stentato: “Lo conobbi quando fuori sembrava giovane mentre dentro era vecchio e stanco, ci lasciammo entrambi adulti e insieme eravamo tornati finalmente bambini…”
Id: 4764 Data: 05/02/2020 16:03:16
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Laddio - Ilia e Decker
Al di là del campo di forza usato in sostituzione dell’antico materiale chiamato vetro, Giove appariva enorme, paterno, costante come un pensiero silenzioso ma prepotente. Testimone gassoso e muto di migliaia di vite sospese nel vuoto. I colori crema e marrone della sua atmosfera, impegnata in bizzarre formazioni cicloniche e anticicloniche, inducevano alla meditazione.
Il “Belvedere”, come era stato ribattezzato il ponte di osservazione della stazione orbitante adoperando un termine d’antan ripescato dagli archivi linguistici, era il luogo preferito dagli abitanti della Jupiter IV, frequentato dai civili e dall’equipaggio in libera uscita.
Ilia e Decker, seduti su una plexi-panchina attendevano, come erano soliti fare durante i momenti di pausa dai loro rispettivi lavori, la comparsa della Grande Macchia Rossa sull’orizzonte gioviano. Senza dire una parola e rispettando le esigenze rotatorie del grande pianeta, fissavano fiduciosi lo spazio siderale.
“Eccola!” – Ilia interruppe il silenzio con l’entusiasmo di chi osserva per la prima volta un nuovo fenomeno. La Grande Macchia Rossa apparve lentamente: una tempesta di metano e ammoniaca nell’atmosfera di Giove che in passato aveva fatto da leit motiv afono ai baci appassionati dei due giovani amanti, nonostante i divieti di prossimità in luogo pubblico vigenti nella stazione. Ma non in quella occasione. Quella volta non c’era spazio per l’intimità, ma solo per una controllata disperazione.
“Sei proprio decisa?” – domandò per l’ennesima volta Decker continuando a far finta di osservare la Grande Macchia Rossa che intanto era completamente riemersa dall’orizzonte.
“Sì. Conosci le mie intenzioni… E vorrei sentirti vicino in questo momento, anche se si tratta di una prova dolorosa per te.”
“Ilia, non puoi chiedermi di approvare la tua partenza! Lo sai che già mi manchi?”
“Decker, è una grande prova anche per me.”
“Allora resta!”
Ilia non rispose ma alzandosi dalla plexi-panchina si avvicinò al campo di forza che la separava dal baratro siderale, come se quei pochi metri le permettessero di vedere meglio la Grande Macchia Rossa distante milioni di chilometri. Decker, poggiando i gomiti sulle ginocchia, aveva imprigionato la testa tra le mani come a voler impedire che esplodesse.
Una folta scolaresca del primo stadio educativo, accompagnata da un androide insegnante della serie alfa-3, transitava in una fila ordinata per due, proprio alle spalle di Ilia che continuava imperterrita a cercare tra le nubi vermiglie del dio pianeta una valida risposta al suo dolore.
“… Giove possiede una vasta atmosfera e un mantello di idrogeno metallico che esercitano altissime pressioni sul nucleo di natura rocciosa…” – spiegava la voce innaturale dell’androide.
Ilia era una ragazza forte ma in quel momento il pesante silenzio di Decker opprimeva in maniera impietosa il suo animo determinato. Si girò di scatto, ripercorse il breve tragitto che la separava da Decker e utilizzando una riscoperta freddezza disse: “Devo andare Decker! È quello che desidero… Hanno bisogno di me”.
Decker liberò la testa dalla morsa organizzata dalle sue stesse mani e si mise in piedi come se un manovratore occulto avesse tirato dei fili invisibili collegati al suo corpo.
“Anche qui c’è bisogno di te.”
“Lo sai che non è la stessa cosa.”
“Questa città orbitante ha bisogno di gente come te e me. Puoi assistere le migliaia di abitanti di questo mondo artificiale con la stessa competenza che regaleresti laggiù…”
“Non è lo stesso…”
“… le tue conoscenze sarebbero sprecate in quei posti…”
“… non sarebbero sprecate…”
“… gli androidi farebbero il tuo lavoro senza sacrificare amore, affetti, progetti condivisi… Senza stancarsi, senza il bisogno di alimentarsi o di dormire, senza soffrire... Senza il rischio di morire.”
“Gli androidi sono efficienti ma non possono riprodurre e offrire alla gente di quei mondi una cosa che ho imparato anche grazie a te, Decker.”
“Cosa?”
“L’amore.”
Ilia aveva scelto un amore più grande: voleva essere una missionaria nelle colonie umane sui Pianeti Esterni scoperti nel ventitreesimo secolo, durante la Grande Era dell’Esplorazione Extrasolare. Un tipo di amore che richiedeva abnegazione e lunghi viaggi in sospensione criogenica, e dall’esito incerto.
Decker tentò di prendere le mani di Ilia ma lei si ritrasse con delicatezza e diede il colpo di grazia a un legame ormai dissolto: “Ieri ho depositato il mio atto di castità nell’elaboratore della Grande Anima”.
Decker si lasciò cadere sulla plexi-panchina come se si fosse arreso dinanzi a una forza invincibile di natura superiore. Era davvero finita.
Non aveva capito niente: aveva pensato o forse aveva costretto la propria mente a pensare che quello di Ilia fosse solo un passeggero interesse umanitario, esplorativo e scientifico. Nei giorni precedenti aveva rifiutato l’idea inconscia ma reale che Ilia potesse concedersi totalmente alla Grande Anima. Per sempre.
Tutta la passione, la vita condivisa, le intense emozioni provate insieme a quella ragazza che non riconosceva più e i sentimenti coltivati per anni, si volatilizzavano su quel ponte di osservazione come gas industriali liberati in un giorno di vento forte sulla Terra. Per un istante aveva desiderato che un’avaria del sistema di mantenimento vitale della stazione disattivasse i campi di forza, facendo risucchiare nel vuoto cosmico quella realtà artificiale divenuta insopportabile, insieme ai suoi pazienti attori inquadrati e felici.
“Questa sera prima della partenza ci sarà la cerimonia della vestizione.” – aggiunse Ilia, infierendo sul corpo e sulla mente di Decker. “Vorrei che tu partecipassi: sarebbe importante per me.”
“Ci sarò. Se è questo che vuoi.” – rispose con rassegnazione Decker.
La città orbitante Jupiter IV proseguiva il suo cammino gravitazionale intorno al quinto pianeta del Sistema Solare e la Grande Macchia Rossa era ormai quasi del tutto scomparsa dietro l’ennesimo orizzonte. Tra qualche giorno sarebbe riapparsa.
Ilia, invece, no.
Id: 1861 Data: 14/05/2013 16:23:48
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Vite parallele
“Credo nella reincarnazione in quel lungo percorso che fa vivere vite in quantità ma temo sempre l’oblio la dimenticanza… E già qui vivo vite parallele…”
da “Vite parallele” – Sgalambro/Battiato
Gli anni che precedettero il viaggio a Vienna furono duri. Certe velleità artistiche possono spingere l’essere umano lontano, molto lontano. E la capitale austriaca rappresentava, agli occhi del giovane disegnatore, la “terra promessa” in cui poter realizzare il sogno da sempre coltivato: diventare un artista di successo. Oltre alla cartellina contenente i disegni e l’astuccio con i lapis già consumati, il bagaglio del giovane consisteva in una semplice valigia ricolma di rabbia, frustrazione, intolleranza e tanta voglia di cambiare le cose… La miseria e la promiscuità del quartiere che l’ospitava non avrebbero migliorato, certo, il suo stato d’animo già tetro e diffidente. Ma i sogni richiedono sacrificio e, tutto sommato, era finalmente giunto a Vienna dove, non importava se tra settimane o mesi, avrebbe avuto i primi contatti con il vero obiettivo del suo viaggio: l’Accademia di Belle Arti. L’adolescenza costellata di insuccessi e il superbo isolamento su cui s’adagiò avevano sviluppato in lui la solipsistica certezza che il gusto per il bello non poteva appartenere a tutti gli esseri umani: solo alcuni sparuti eletti, forgiati nel dolore e nella consapevolezza di dover ricercare una presunta purezza smarrita, potevano avvicinarsi alla comprensione di certe forme anatomiche e all’apprezzamento di quei paesaggi naturali che richiamavano alla memoria la responsabilità e l’onore nell’essere teutonici. I primi dischi di Wagner sul grammofono di casa e la commozione dinanzi all’impenetrabile barriera verde scuro della Foresta Nera; la dolce armonia delle vette innevate e la calma sorprendente dei laghi di montagna; la gelida agitazione del Mare del Nord e i ricordi infantili nella Selva bavarese; la bellezza della sua gente e l’orgoglio per la storia di un paese che nascondeva le sue nobili origini sotto una coltre di vergogna storica… Tutti questi aspetti trasparivano dai tratti nostalgici dei suoi disegni e le scene rappresentate in essi non testimoniavano la Germania del presente, ma sembravano piuttosto i promemoria di chi attende il ritorno di un’epoca arcaica mai vissuta e soltanto letta o sognata. La bolgia umana che ritrovò a Vienna confermava ancor di più le sue paure nei confronti di una minaccia che presto avrebbe assunto i connotati di un gruppo di responsabili da combattere con veemenza e ossessionante paranoia. E la ricerca di una “fonte pura” presso cui attingere l’acqua di un nuovo ordine divenne il subdolo imperativo del giovane artista. Sicuramente l’arte e la ricerca insita nel processo artistico lo avrebbero aiutato in questa sua missione ed era per questo che doveva assolutamente essere ammesso all’Accademia. Si trattava di un passaggio fondamentale che avrebbe dato un senso a quella sua vita precaria e raminga trascorsa nei vicoli notturni del quartiere ebraico tra birre solitarie e osservazioni sociologiche arrotate su una pietra scintillante d’odio. O almeno avrebbe, in un certo qual modo, compensato le ingiustizie finora subite.
L’esistenza non è una strada rinchiusa tra due invalicabili muri di pietra: spesso il cammino dell’uomo è interrotto da sottopassaggi, sopraelevate, incroci custoditi, piccole stradine a fondo cieco e bivi. Non ne comprendiamo la funzione fino a quando non ci viene presentata la necessità di cambiare direzione e quando ciò accade pensiamo ancora di percorrere il tragitto che noi crediamo di aver deciso di percorrere. Ma non è così. La presunzione umana si sviluppa contemporaneamente all’inconsapevolezza che ne caratterizza le gesta. Anche l’uomo più determinato nella sua follia e ideologicamente appassionato è sottoposto a tale regola; anzi, la pressione evolutiva che accompagna le decisioni di tali uomini è maggiore che in altri e ha un effetto coadiuvante su quegli storici cambiamenti di rotta che non conosceremo mai. Perché tali personaggi pensano di essere loro stessi i demiurghi delle variazioni di percorso e non il caso o chissà che… Poveri illusi: vittime della stessa vana gloria di un granello di sabbia che vaga sospinto tra le onde dell’oceano, illudendosi di nuotare.
La mattina del primo colloquio con i docenti dell’Accademia possedeva tutte le caratteristiche dell’animo oscuro e minaccioso del disegnatore: dapprima un cielo plumbeo e in seguito una pioggia incessante, preannunciavano una serata fredda fatta apposta per rintanarsi in una fumosa birreria del centro. Salendo lungo le scalinate dell’Accademia il pensiero dell’artista andava incessantemente a rivalutare le opere che avrebbe di lì a poco presentato alla commissione: “… andranno bene? … piaceranno?” – chiedeva in modo ossessivo una voce interiore che lo tormentava da anni, costringendolo a oscillare rovinosamente tra le onde vorticose della disistima di sé, sempre in agguato, e i porti sicuri dell’autoerotismo artistico. Aveva atteso quel momento per molti mesi e aveva sopportato la vicinanza di tanti esseri inutili e abietti nella squallida pensione in cui alloggiava: non poteva tirarsi indietro proprio ora che era a due passi dalla verità. Una verità che avrebbe aperto le porte del suo futuro in quella città e non solo… Era attratto dalle adunanze e dalla vita politica, anche se non poteva dire di possedere degli “amici” in ambito sociale. Una sorta di condizione schizofrenica lo induceva a un’eterna transumanza tra un amore viscerale per la propria terra e il rifiuto di ogni coinvolgimento sentimentale nei confronti della gente comune che incontrava tutti i giorni. Allo stesso modo, proprio in virtù di questa contraddizione interiore, sentiva crescere dentro di sé la necessità di dedicare la propria esistenza totalmente all’arte e in modo particolare al disegno, alla pittura… Sapeva di sicuro che la vita politica appena in parte avrebbe potuto colmare i vuoti lasciati dai rancori e dalle sconfitte della sua esistenza e che solo la rappresentazione artistica era in grado di ricreare gli scenari ideali di un mondo ormai scomparso. La bruttezza e l’ingiustizia che incontrava per le strade di Vienna sarebbero state sostituite dal suo personale ideale di bellezza. Ideale a cui, sperava, si sarebbero ispirate le generazioni future sempre più stanche e avvilite, ma bisognose di ritrovare forza e orgoglio per combattere le nuove minacce. “Venga più avanti giovanotto…! Ci faccia dare un’occhiata!” – disse il docente con tono autoritario mentre, da sopra gli occhialini in bilico sulla punta del naso e circondato dai colleghi attenti e silenziosi, osservava l’indigenza portata con dignità dal giovane artista. “Vediamo, vediamo…!” “Questi sono i miei disegni preferiti: alcuni rappresentano i paesaggi naturali della regione da cui provengo; questi altri sono nudi ritratti a Linz la scorsa estate…” – illustrava alla commissione i suoi disegni con fierezza e passione. “Bene, bravo…! Devo dire che c’è del talento in lei, mio giovane artista. Certo, un talento che va smussato ed educato… Ma credo che si possano gettare le basi per una discreta carriera artistica. Tutto, naturalmente, dipenderà dal suo impegno e dalla sua tenacia: questa Accademia è conosciuta per il suo rigore e non sono ammesse licenze artistiche che abbiano la pretesa di minare il metodo d’insegnamento da noi perseguito.” “Sono d’accordo!” – rispose convinto e felice di aver trovato nella disciplina dell’Accademia quella dimensione esistenziale che tanto aveva cercato invano tra le masse cittadine. E aggiunse speranzoso: “… quindi, accettate la mia richiesta di iscrizione all’Accademia?” “Certamente! Ma dovrà votarsi completamente all’arte, senza alcuna condizione o distrazione… Niente più birrerie, cortei, adunanze, riunioni politiche - lo sappiamo in che modo perdete il tempo voi giovani! Siete tutti uguali… - o quant’altro che possa distrarla dal suo obiettivo primario e cioè diventare un artista degno di questa Accademia. Non mi fraintenda: questa non è una prigione… Potrà e dovrà sicuramente girare per la città alla ricerca di soggetti umani e scorci cittadini da ritrarre; ma le sue energie, d’ora in poi, appartengono all’Accademia e se uno dei nostri studenti viene sorpreso in attività del tutto superflue e finalizzate alla dispersione degli obiettivi artistici prefissati, quello studente può ritenersi fuori dall’Accademia. Mi sono spiegato?” E continuando con un tono più rilassato: “… forse poco le importerà sapere, mio giovane artista, che io sono ebreo e noi ebrei siamo noti, oltre che per le nostre capacità commerciali, anche per il parlar chiaro!” “E’ stato chiaro e, ripeto, sono d’accordo con lei, Signor Professore!” “Bene, sono contento che lei condivida gli scopi di questa scuola e sono sicuro che riuscirà a integrarsi perfettamente… Buona fortuna!” “Grazie, Signor Professore: ne sono sicuro anch’ io…!” “Tuttavia, mi scusi se la trattengo ancora: ci sono alcuni aspetti della sua matita che mi lasciano perplesso…” – riprese all’improvviso il canuto docente. “Nei suoi disegni noto molta nostalgia e al tempo stesso rabbia repressa per una perfezione non raggiunta… Vede, ad esempio, il paesaggio di questo suo disegno? Non è un paesaggio reale, ma rappresenta piuttosto l’idealizzazione di un mondo scomparso e che lei vorrebbe ricreare nella sua arte… L’introduzione di elementi che si riferiscono alla morte contrasta con la bellezza del paesaggio da lei scelto come se ci fossero degli eventi nella sua esistenza capaci di interrompere una piena e totale accettazione della semplice gioia umana dinanzi alla natura… Forse mi sbaglio?… E questi nudi: non esistono esseri così perfetti… E le posso assicurare che qui all’Accademia di nudi ne vediamo tantissimi durante le lezioni di disegno; ma tutti i nostri modelli e le nostre modelle posseggono, come tutti noi d’altronde, quei piccoli difetti anatomici e di postura che rendono intrigante il soggetto da ritrarre… Lei, invece, sembra escludere la presenza di difetti e idealizza un corpo quasi sovrumano, divino, ultraterreno, arcaico…” “Ha ragione, Signor Professore: ma se all’arte venisse tolta la prerogativa di poter creare un mondo alternativo, mi scusi, non sarebbe più arte… E’ vero, la rappresentazione artistica puramente concepita dovrebbe riprodurre fedelmente la realtà utilizzando gli strumenti che ha a disposizione, ma cosa diventerebbe l’essere umano se non avesse più la possibilità di pensare e sognare un mondo differente riproducendolo nelle sue poesie, nei suoi romanzi, nei suoi quadri…?” “Io non contesto la sua personale ricerca artistica o i singoli elementi da cui sono costituiti i suoi disegni… Mi preoccupa, o meglio, m’incuriosisce soprattutto la spinta emotiva e ideologica che si nasconde dietro i soggetti e gli oggetti che rappresenta… Comunque avremo modo di affrontare questi argomenti durante le future lezioni a cui parteciperà!” “La mia infanzia non è stata facile, Signore, e non le nascondo che sono stato sempre circondato da individui incapaci di sviluppare un discorso costruttivo riguardante le mie doti artistiche… Sono stato sempre sbeffeggiato e umiliato, deriso e sottovalutato, isolato e castigato… Con lei, forse, è la prima volta che parlo di tali cose… Lei capirà che non potevo non creare un mondo alternativo a misura delle mie esigenze, oserei dire, spirituali ! Per salvarmi da una realtà opprimente e denigrante... Io dovevo disegnare in questo modo: per sopravvivere, per fuggire via e volare verso un mondo che tutti continuavano a negarmi senza speranza… Ecco perché sono qui, Signor Professore, ecco perché sono venuto a Vienna!” “Capisco, mio giovane artista… Vada pure in segreteria a perfezionare la sua iscrizione e, ancora,… buona fortuna!” “Grazie!”
Uscendo dalla sala colloqui, il disegnatore di Linz sentì all’improvviso che la vita non sembrava tanto spinosa come le era sempre apparsa fino ad allora, ma a tratti riusciva a stupirlo manifestando timide sorgenti di balsamico ottimismo da cui prelevare vigore e speranza. Avvertì la mobilitazione di un’incontenibile riserva di felicità mai utilizzata e di immense possibilità nel risultato positivo dell’incontro, per troppi giorni immaginato e temuto. Era stato accettato all’Accademia e la sua gioia, improvvisamente, si ritrovò a competere con la rabbia coltivata negli anni precedenti. Non era abituato a tali soddisfazioni personali e per un attimo aveva creduto di non poter gestire una situazione così ambigua ma al tempo stesso piacevole e sconosciuta. La cultura del sospetto cominciava inesorabilmente a perdere colpi dinanzi ai nuovi orizzonti artistici che finalmente si dispiegavano dopo anni d’attesa. “Il suo nome, prego…” – il segretario interruppe la pensierosa distrazione del giovane mentre attendeva la risposta con la penna già intinta nell’inchiostro e pronta a entrare in azione su di un enorme registro aperto. “Adolf… Adolf Hitler.” “Nato a …?” “Braunau am Inn” “Il…?” “Il 20 Aprile 1889”
Il lato oscuro della forza aveva ceduto il passo alla speranza. Uscendo sulle gradinate dell’Accademia per dirigersi verso la pensione, il giovane artista si accorse che aveva appena smesso di piovere e un timido raggio di sole tentava a spintoni, tra le nuvole grigie, di guadagnarsi un dignitoso posto sulla terra. Forse ci sarebbe riuscito o forse avrebbe ripreso a piovere più violentemente di prima. Ma ciò non interessava al disegnatore perché nella sua mente una sola piacevole ossessione stava prendendo il sopravvento: disegnare, dipingere e ancora disegnare… Fino alla fine dei suoi giorni. Era l’unica cosa che veramente gli importava e non riusciva a immaginare un altro modo per donare gloria e splendore alla nazione che tanto amava nonostante tutto. I rancori e gli anni bui si sarebbero dileguati sulla tavolozza dei colori… La sua vita sarebbe stata perfetta così.
Id: 934 Data: 08/04/2011 23:56:53
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L’uomo che non sapeva leggere
(Il blocco del lettore)
“I libri non sono la vita” (Il comandante dei vigili del fuoco; dal film “Fahrenheit 451” di François Truffaut)
Da anni comprava libri, senza leggerli. Non si trattava di una diramazione della ben più nota “patologia” che colpisce chi scrive – il blocco dello scrittore – dal momento che non aveva mai avuto alcuna intenzione di farlo. Di scrivere… Questa volta la paura non sorgeva dinanzi alla ignota e famigerata pagina bianca: terrore degli scribacchini esordienti e degli scrittori affermati, tormento esorcizzato dagli aspiranti premi Nobel per la letteratura a suon di pagine scritte di notte, brivido oscuro dei romanzieri, precipizio apnoico degli editorialisti. La pagina, in questo caso, era piena: riempita da Altri, da persone sfiorate nelle biografie e mai realmente conosciute, da scrittori che avevano sacrificato meravigliose giornate di sole e di svago in nome dell’eternità. E che giacevano, chi da secoli, chi da pochi anni, in qualche famoso cimitero, sotto una lapide a sua volta ricoperta da una rinsecchita corona di fiori gentilmente deposta dai membri dell’associazione bibliofili durante il giorno dei morti.
L’ebbrezza elettrica che lo sorprendeva in libreria, mentre sfiorava la copertina di quegli oggetti stampati, era scientificamente indefinibile ma reale negli effetti! Lui amava veramente i libri: li bramava, li pedinava, li inseguiva sui cataloghi e sulle bancarelle dei rigattieri, a volte si abbandonava a pratiche di autoerotismo intellettuale mentre li toccava morbosamente o mentre leggeva le note in quarta di copertina. Li osservava in lontananza mentre venivano manipolati da occhi stranieri… I suoi libri. In alcune occasioni aveva fatto finta di non essere interessato a un titolo ed era uscito dalla libreria a mani vuote, contento per quella strana dimostrazione di resistenza data a sé stesso. Resistenza che la maggior parte delle volte non durava per più di ventiquattro ore: il giorno dopo, quasi alla stessa ora, si precipitava in maniera agitata nel luogo del misfatto per cercare nuovamente, con il volto sudato e visibilmente provato, il tomo snobbato. Puri giochi! Masochistiche simulazioni tra innamorati dispettosi. Non poche volte era successo che, avendo trovato lo spazio nello scaffale del negozio, fino al giorno prima occupato dal libro agognato, terribilmente vuoto a causa di un acquisto fatto da qualche indegno lettore di passaggio, aveva diretto i propri passi disperati verso una libreria di ripiego alla ricerca del volume perduto. Figlio disperso e nuovamente desiderato da un padre disattento e sciocco. Isterici capricci da collezionista, avrebbe detto qualcuno. O, forse, un osservatore più malizioso avrebbe potuto parlare di carenze esistenziali compensate dalla cultura. Una cultura libresca e autogestita che, a quanto sembrava, da anni non riusciva più a vicariare una consistente perdita di vita.
“Leggere, o non leggere; questo è il problema: se sia più nobile d'animo sopportare gli oltraggi, i sassi e i dardi dell'iniqua fortuna, o prender libri contro un mare di triboli e, leggendo, disperderli.”
L’entusiasmo provocato dall’acquisto, tuttavia, durava solo pochi minuti. Dopo aver riposto la carta di credito nel portafogli ed essere uscito dal luogo pubblico dove consumava i suoi ripetuti stupri culturali, i passi dell’uomo, già meno entusiasti rispetto a quelli con cui era entrato in libreria, si dirigevano verso un’abitazione che ormai conservava appena lo spazio sufficiente per soddisfare le basilari azioni del vivere civile: dormire, cucinare, lavarsi… Tutti gli altri spazi incolti, non utilizzati da mogli esigenti e figli invadenti, erano stati nel corso degli anni rielaborati e ripensati in funzione di quegli eterni e muti compagni di strada: i libri. Geometrie angolari e librerie sopraelevate concepite per sfruttare anche le restanti porzioni di volume: zone che, al di sopra delle teste degli inquilini, il più delle volte sono “terra di nessuno”. Mensole coltivate come i giardini pensili di Babilonia sfidavano una quieta gravità addomesticata; titanici scaffali a muro ricolmi di quelle leccornie letterarie, che avevano pettinato dolcemente i pomeriggi del suo passato da lettore accanito, mostravano con orgoglio di aver raggiunto un equilibrato compromesso con l’universo circostante. Le leggi riguardanti il baricentro erano diventate dicerie e la perfetta disposizione dei pesi libreschi in quella casa era destinata a riscrivere certe presuntuose pagine nei manuali di statica adottati dagli studenti. I passi attutiti dell’uomo, che trascinava la propria solitudine domestica tra il corridoio tappezzato di edizioni introvabili e il celibe talamo quasi poggiato su colonne di volumi cartacei, giungevano alle sue stesse orecchie come tintinnii abortiti di cristalli avvolti nella carta di giornale durante i furtivi traslochi dell’anima con cui si evita la Vita.
Da anni non leggeva più. Da anni, uscendo dalle librerie, ripeteva a se stesso la solita frase d’ufficio con cui tentava miserevolmente di autoconvincersi: “Comincerò a leggerlo domani!” Agglomerati di pensieri scritti e mai letti, si ergevano lenti e muti come stalagmiti di carta negli angoli dell’esistenza. La giovanile sete di quelle parole che aiutano a capire, aveva lasciato il posto ad un più sfacciato e inesorabile disincanto. La vita degli Altri, magistralmente raccontata e stampata in pregevoli pubblicazioni, non compensava la mancanza di una vita propria, come invece gli succedeva facilmente in passato, quando ancora riusciva a credere in un futuro clemente. L’uomo sapeva bene che non era la paura a causare quella sua strana inibizione nei confronti dell’amata lettura. Non erano gli abissi profondi e oscuri che gli si aprivano dinanzi mentre tentava di andare oltre gli innumerevoli incipit affrontati in quegli anni, a causare l’“impotenza letteraria” da cui era affetto. Le indescrivibili e un tempo meravigliose possibilità esistenziali offerte dalla lettura non erano confortate dalla presenza di una “controesistenza reale” con cui paragonarle. Ecco quale era la causa del suo blocco. “Chi non ama, chi non vive e ama la vita non può apprezzare veramente la lettura che è la più pregiata finestra aperta sulla vita stessa, non può penetrare con vitalità il tessuto della storia raccontata e di conseguenza non può sostenere con passione ed energia le numerose ore di lettura, abbandonandosi all’abbraccio materno di pagine amate, sì, ma mai totalmente e intimamente comprese!” – elaborò nella sua mente e dopo un improduttivo tergiversare durato anni un primo vero pensiero doloroso ma realistico. L’ammirevole determinazione con cui cominciava le letture veniva minata da prepotenti voci interiori che puntualmente distraevano l’uomo dal suo obiettivo. Le amate pagine si allontanavano dal cuore prima che dagli occhi e un’insistente coscienza batteva i suoi duri colpi sul portone del tempo. La giostra della distrazione prendeva ogni volta il sopravvento e spesso il lettore ormai sfinito si ritrovava con il libro aperto tra le mani nel tentativo estremo di vincersi e lo sguardo perso tra gli altri orfani di carta che attendevano invano l’arrivo di un occhio curioso e vorace. Ma non quella sera. Non avrebbe tentato, anche quella sera, di leggere uno dei testimoni impolverati che attendevano da mesi e anni di essere consultati: eppure non sembrava una serata diversa dalle altre, non possedeva caratteristiche speciali. L’uomo si distese semplicemente sul letto e accese una sigaretta. E lo fece con un gusto riscoperto e inatteso. La stanza da letto che non conosceva il tocco profumato e femminile dell’altra metà del cielo, conservava antichi strati di libri e fumo ristagnato. Segni evidenti delle numerose e lontane notti trascorse a leggere, quando ancora la fiamma della lettura era accesa, e a tentare di leggere quando quella stessa fiamma aveva cominciato a diminuire in maniera irreversibile.
Nessuno fu in grado di ricostruire con precisione cosa avvenne quella notte nella stanza da letto dell’uomo, nemmeno i tecnici del Comando Provinciale dei Vigili del Fuoco dopo i primi sopralluoghi nell’appartamento carbonizzato. Forse un corto circuito o molto più probabilmente una scintilla ribelle e di origini sconosciute che s’era avventata sull’acculturata materia cartacea lasciata a pascolare allo stato semi-brado nell’appartamento dell’uomo… O, ancora, la sigaretta dell’uomo che non sapeva più leggere era scivolata dalle sue dita proprio durante quella serata in cui aveva deciso di non aprire alcun libro. Quante volte i telegiornali riportavano la notizia drammatica di persone arse vive per disattenzioni casalinghe o a causa di cicche di sigarette incustodite che avevano dato vita a roghi involontari e mortali. E chi può dire, invece, se non sia stato proprio l’ex lettore rassegnato a lanciare volontariamente nel cestino delle carte o a lasciar cadere la sigaretta fumata solo per metà vicino a una delle tante pile di libri accatastate nella stanza con la speranza nutrita, tra il dormiveglia e il sonno vero, di un liberatorio incendio? L’uomo non mosse neanche un muscolo mentre le prime fiamme, svegliandolo, cominciarono ad alzarsi lentamente ma con voracità tra alcuni poemi latini in edizione tascabile e i romanzi del migliore noir americano: l’incendio forse era cominciato proprio tra quei due generi letterari. Chissà… Le alte lingue di fuoco lambivano prepotentemente il soffitto della stanza e non trovando sfogo verso l’alto ritornavano vorticosamente accelerate verso il basso e il centro della camera da letto, incontrando altro materiale libresco non ancora combusto e letto. Mentre la temperatura all’interno della stanza aumentava in maniera vertiginosa, l’uomo sentì che una profonda e salvifica gioia s’impadroniva finalmente della sua mente stanca e spenta da troppo tempo. Le pagine ripiene di parole e frasi pensate da Altri, pagine che in fondo l’avevano annoiato durante quegli ultimi sterili anni da pseudolettore, cominciarono, grazie all’effetto purificatore del fuoco, ad assumere un aspetto omogeneo. Quelle stesse pagine ora riaffioravano nella mente dell’uomo bianche e libere, lavate dall’inchiostro e pronte ad essere riscritte da avide penne infuocate. La tomba di carta ardeva vivacemente, accogliendo in un ultimo abbraccio rovente il suo solitario costruttore. A causa del forte calore alcune finestre dell’appartamento, esplodendo, lasciarono uscire all’esterno con violenza tutta l’energia fino a quel momento accumulata, sotto forma di fiamme selvagge e vampate di calore che furono avvertite anche dagli inquilini dei palazzi più vicini, affacciati sui balconi per osservare il terribile spettacolo. Non si sa bene se fu a causa dello spavento provato dai curiosi presenti che si trovavano per strada al momento dell’incendio o se si trattò semplicemente di un effetto ottico provocato dalle fiammate che illuminavano la fredda notte della città, ma alcuni di quei testimoni metropolitani avrebbero poi confidato ai vigili del fuoco intervenuti di aver visto “cose strane” quella notte durante l’incendio: leggeri pezzi di cenere infuocata a forma di lettere dell’alfabeto fuoriuscivano dalle finestre insieme alle fiamme e al fumo, trasportate dalla brezza verso sconosciuti limbi letterari… Ma il fumo, si sa, quando raggiunge gli occhi è capace di giocare dei brutti e lacrimosi scherzi. Oppure si era trattato di un fenomeno surreale che sarebbe stato meglio non condividere con gli altri e in particolar modo con la stampa. Le parole non lette e tenute prigioniere per anni negli scaffali impolverati avevano ritrovato, indispettite, la strada per ritornare nel ciclo infinito e arcano delle idee. Lì dove, probabilmente, sarebbero state rispettate e trattate in maniera degna, prima di concedersi a nuove penne e a nuovi occhi. Il fuoco, uno dei peggiori nemici della carta, aveva svolto, in quel caso, un’importante operazione di liberazione e la sua azione apparentemente distruttrice avrebbe permesso la nascita di altri libri e la crescita umana e culturale di nuovi appassionati e instancabili lettori.
Id: 929 Data: 02/04/2011 15:30:16
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