Ho iniziato a scrivere per disperazione,
senz’altro
verso i quattordici anni.
Mi rifugiavo in cantina
per tirare fuori i miei sentimenti inscatolati.
La prima volta che fu una poesia,
c’era un foglio e una penna,
sul tavolo di plastica bianco,
sotto il porticato della terrazza
color verde muschio la villetta
bella col camino, col giardino
ai piedi d’una collina coltivata
in una città del nord-est nebbiosa,
umida fredda, dove io
non volevo vivere,
ma c’era il cielo serale, viola
e c’era al centro del tavolo una piantina di ciclamini.
E c’era che per me soave significa quel viola,
serale. E c’era la malinconia
per un amore interrotto,
sospeso
che ritrovavo in quel cielo
magico e pure
così triste, eterno.
Indissero un concorso al ginnasio,
ma mai, a partire da questo,
sono riuscita a rispettare
le regole dei concorsi:
come fosse un compito in classe, scrissi il
nome sul retro, la prima volta
che fu una poesia.
L'ultima mi parla
" Mamma guarda cosa riesco a fare?"
e si esibisce in capriole, ruote ed arrampicate;
questa come quella la portai in grembo,
ma non l'ho scritta io!
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