L’affabulazione monologante è l’indubbia cifra del poemetto China, nel quale Maria Pia Quintavalla riesce con abilità di demiurgo della parola a condensare in lingua o logos i fumi di un’esistenza che evapora e si allontana insieme al trapasso di una madre, col rischio di nascondere tutto, col rischio che tutto finisca. Demiurgo il poeta, in quanto, lavorando con la parola di ogni giorno, demotica, pop, recuperata dal nascondimento del possibile oblio, dà vita all’altrimenti della stessa vita. E ne stabilizza la vivacità nella presenza di un’assenza a cui dona tutta la tonalità possibile di vita attraverso un repêchage nella memoria, attraverso la rammemorazione di un passato che rischia di essere un vuoto, che invece la poesia riempie nel fermo immagine dei versi a dar luogo ad un incancellabile pieno. In qualche modo siamo di fronte ad una morte esorcizzata dal nulla attraverso una presentificazione di un vissuto che la poetessa vivifica attraverso la narrazione di quel che è stato, di quel che è, ma soprattutto di quel che resta e resterà per sempre, una volta affidato questo vissuto alla poesia, che rende immortale, o almeno ci prova, a riabitare pianura e città come Parma e Milano, ma soprattutto gli spazi dell’anima. Maria Pia Quintavalla parte dalla scomparsa della madre, ovvero da un’assenza, per riempire non solo il foglio bianco, ma il suo vissuto, di una vera e reale presenza. E lo fa narrando, raccontando, creando, poetando, quasi cantando, con interruzioni di pianto, che crepano in qualche modo l’ordito grammaticale, lo rompono, lo spezzettano, dando luogo alla voce della madre, dei parenti, più o meno lontani, che entrano nel monologo con i loro interventi, le loro parole, le frasi, di allora come di adesso, in una sequenza di immagini color seppia, più o meno sfumate, di un album che si fa piano piano uscendo dal sottobosco della memoria per trovare la luce della radura della parola e dell’eternità. Il dettato poetico della Quintavalla si prende cura, heideggerianamente parlando, della parola, come il buon pastore si prende cura delle pecorelle, ma nella parola c’è l’essere e pertanto il poeta anche in questo caso è pastore dell’essere. Il registro linguistico è, piuttosto che basso, piano e volutamente fluido come la lingua normale; non c’è impostazione letteraria e ancor meno retorica, visto l’argomento trattato, e il dettato è quello che scaturisce dalla realtà della quotidianità e dalla normalità del popolo parlante, dalla normalità di un “lessico famigliare”. Come sono normali le scene di vita ritagliate in cornici di quotidianità tratte da musiche, canzoni, trasmissioni televisive, un coro di personaggi del mondo del cinema, dello sport, della televisione, che volenti o nolenti hanno abitato e abitano le nostre vite, i nostri immaginari e in qualche modo determinano col loro imprinting nel bambino e nell’adolescente quello che saranno da adulti, a scanso di tante arcadie e mellifluità che troviamo oggi nella poesia fuori-tempo. Parlando della madre, Gina, o come veniva soprannominata China, la Quintavalla parla anche di sé e volendo o non volendo andare in deroga all’anti-lirica e alla de-territorializzazione dell’io propri della post- modernità poetica squarcia il velo degli io, l’io materno e il suo io, per ricostruirli in unità attraverso una modellizzazione del soggetto che va in deroga al solipsismo e si connatura in quello che dovrebbe essere una persona, nella misura in cui aprendosi all’altro rivede nel volto dell’altro il proprio volto e si determina proprio nell’alterità. In questo caso la madre non è scomparsa, nonostante la sua assenza, perché è presente nella figlia. Questo è un esempio di poesia personalista, che tanto auspico ai giorni nostrim nella quale l’individuo cede il passo alla persona. Sembrerebbe che il linguaggio poetico di China sia caratterizzato da un pedale basso, anti-lirico, nel quale non c’è il soggetto, non c’è l’individuo. Perché la poesia di China è piena di cose elencate tutte nella loro fisica matericità. Sembrerebbe. Perché, come dicevo, nella poesia di Quintavalla troviamo soprattutto un popolo di persone vive e vegete che abitano nella persona narrante, nel poeta, che si fa carico dell’onticità del linguaggio per aprire ad una nuova lirica caratterizzata da una realtà che sa farsi anche se non soprattutto metafisica, donando vita e vitalità anche nell’assenza.