Com’è ben noto a tutti quelli che s’ interessano di letteratura latina, Tibullo, poeta sensibile e schivo, era tutt’altro che un guerriero, e anzi più volte fece ben capire la sua avversione per la guerra. Legato al circolo del potente Messalla Corvino, l’unica volta che il suo “patron” lo voleva far scomodare da Roma per una campagna contro gli Aquitani, Tibullo la prese subito a male, indirizzando al suo protettore i famosi versi “Ibitis, sine me, Messalla per undas”, che, fuori di metafora, significa semplicemente che Tibullo stava benissimo dov’era (a Roma), invitando gentilmente il potentissimo patron a sorbirsele lui le fatiche per mare (“per undas”) e le successive scomodità legate ad una campagna militare contro gli Aquitani.
Tuttavia, pur amante della pace e delle delizie di Roma, Tibullo ebbe una vita amorosa tutt’altro che tranquilla, perché la “guerra” gliela portarono in casa le sue donne, in particolare la bionda e procace Delia, che gliene fece passare di tutti i colori. In vita e anche “post mortem”. Sì, perché uno dei passi filologicamente più travagliati del complesso “Corpus Tibullianum” che la tradizione ci ha lasciato riguarda proprio Delia, che non era, come si suol dire, uno “specchio” di fedeltà.
Un giorno (un brutto giorno per il nostro poeta elegiaco), Tibullo si era accorto che la bionda Delia si era portata a casa l’amante. La cosa fu scoperta e ne nacque un putiferio, con Tibullo che affidò i propri tormenti ad un’elegia (la settima), che, ancora oggi, costituisce motivo di “tormento” non tanto per il nostro poeta, quanto per i suoi esegeti che, sin dai tempi più remoti, non sono riusciti a digerire un’espressione per vari versi ritenuta dai più assolutamente “impoetica”:
“Illa quidem TAM MULTA negat, sed credere durum est …”.
Traducendo: lei, la bionda Delia, “negò il fatto (di aver portato in casa di Tibullo l’amante) un sacco di volte (“tam multa”), ma credere alle sue parole è davvero duro”, avrebbe cantato Tibullo.
Ora, la faccenda “stilistica” costituita dall’espressione “tam multa” non è mai stata accettata a cuor leggero dagli esegeti di Tibullo, i quali si sono dannati l’anima per tentare di ripristinare il testo autentico. Così, sottolinea M. Pace-Pieri, “ Il tràdito ‘multa’ fu ritenuto più volte sospetto e variamente emendato […] Gli ultimi editori preferiscono mantenere, pur con esegesi non unanime, il testo tràdito: Putnam interpreta avverbialmente il verso ‘tam multa’ (‘e così spesso, così tante volte’), come più comunemente (Smith, André, Namia ecc.), mentre Della Corte intende sottinteso un ‘facta’, traducendo: ‘eppure lo nega più volte’). Pur essendo grammaticalmente possibili, queste esegesi non soddisfano a pieno” (1). La stessa M. Pace-Pieri propone di sostituire “magna” (grandi) a “multa” perché, secondo la studiosa, “più chiaro [risulterebbe] il senso del verso, poiché il reato che Tibullo rimprovera alla sua donna è grande, grave, ma uno solo, non molti” (2).
Bene, ma, parlando di “sospetto”, mi sovviene il dubbio, nonché il “sospetto”, che le cose non stessero nei termini forse un po’ troppo idillici preconizzati dalla dotta studiosa di Tibullo. La soluzione (“magna”=un evento solo e talmente grande) proposta dalla studiosa andrebbe benissimo: peccato che non si abbiano le prove provate che la Delia si fosse portata in casa l’amante “una volta soltanto”. Mi viene altresì il “sospetto” che il tanto contestato “tam multa” possa semplicemente essere un classico errore del copista, o amanuense che dir si voglia. Come ben sappiamo, i copisti facevano molti errori di copiatura e, spesso, quando non riuscivano a dare un senso ad un termine, “interpretavano”, secondo il loro livello di cultura. I copisti più bravi, in genere, erano, per paradosso, quelli di media cultura, che non se la sentivano di “intervenire” sul testo, per cui lo copiavano “così com’era”. Altri invece, che, a torto o a ragione, presumevano di essere a livelli “più alti”, “intervenivano”, snaturando spesso il testo con soluzioni poi difficili da sanare.
Concludiamo. Sappiamo che i testi copiati dagli amanuensi erano stracolmi di abbreviazioni. Per ragioni di spazio le parole latine erano per la maggior parte abbreviate. In questo “esercizio” non mi allontanerei dal testo tràdito, operando soltanto leggere variazioni, del resto ampiamente previste dalla lingua, ed evitando “divinazioni” che, talvolta, risultano estremamente brillanti, ma al tempo stesso sempre e comunque dubbie (3).
Proviamo ad immaginare ciò che potrebbe essere successo nel caso in esame, e supponiamo che l’amanuense si fosse trovato di fronte ad un verso di Tibullo così scritto, dove
“ Illaquidem Tam[en]M[ultis]negatsedcrederedurumest”, cioè “ Illa-quidem-tam[en]-multis–negat-sed-credere-durum-est”, dove “TAM” è la semplice variante di “TAMEN” (tuttavia, purtuttavia), spesso interscambiabili. “Multa”, invece, potrebbe stare per “MULTIS”, sottinteso “modis”, “rationibus”, “argumentis”. Nelle abbreviazioni, la differenza tra “multum”, “multa” e “Multis” è poca, ed è sufficiente una semplice distrazione per scrivere una cosa per un’altra. Come si può evincere dall’immagine allegata, a parte “multitudine”, la differenza tra “Multis”, “Multum” e “multa” è sottile e facilmente scambiabile l’una con l’altra (4).
In realtà Tibullo potrebbe aver semplicemente voluto dire : “Illa quidem TAM MULTIS [modis] negat sed credere durum est”.
Ovvero:
“Lei, la Delia, TUTTAVIA (tamen) nega la cosa in tutte le maniere [MULTIS (modis)], ma è un po’ duro crederle”.
Il senso c’è, e scorre via abbastanza bene. L’espressione “negare … multis modis” oppure “rationibus ” è abbastanza comune e ben attestata negli scrittori latini. In sostanza, l’amanuense , più che altro, confuse “mult-is” con “mult-a”, oppure “ semplificò” la cosa a modo suo, scegliendo “multa” di proposito fra le possibili soluzioni. Siccome anche il nostro dotto amanuense probabilmente sapeva benissimo che Tibullo ne aveva passate “tante e poi tante” (=”tam multa”) con la Delia, gli potrebbe esser venuto “spontaneo” scegliere “multa” al posto di “multis”, oppure, più facilmente ancora, fu forse anch’egli vittima, come tutti i suoi colleghi, di una svista.
Non so se questa estemporanea “congettura” possa accogliere i favori degli specialisti di Tibullo, ma una cosa è certa: che sarebbe anche ora di mettere un definitivo quanto liberatorio (T-) AMEN su uno dei (molti) “tormentati” passi che ancora affliggono la tradizione del testo del nostro grande poeta elegiaco.
Note
1) M. Pace-Pieri, “Il testo di Tibullo nella critica dell’ultimo decennio”, in “Cultura e Scuola”, 1984, n. 89, pp. 37-38.
2) Ivi, p. 38.
3) Più recentemente, R. Perelli osserva : “ ‘Tam multa’: questa la lezione dei codici che fa riferimento all'alto numero di indizi che concorrono a svelare il nuovo amore di Delia. Ma 1, 6 è ricordata più volte nel corso nella lunga elegia ovidiana che costituisce, da sola, il secondo libro dei ‘Tristia’ […] Ovidio così ricorda il verso 7 dell’elegia tibulliana: ‘credere iuranti durum putat esse Tibullum’ [“Tibullo dice che è duro credere a colei che giura e spergiura”]. Muovendo da queste parole, Heyne congetturò ‘iurata’ al posto di ‘tam multa’ […] Ma anche se Ovidio è una fonte di grande autorevolezza per l’interpretazione dell’elegia […], mi pare davvero eccessivo aspettarsi un rispecchiamento parola per parola del testo tibulliano”. Cfr. R. Perelli, “Commento a Tibullo, Elegie”, Rubbettino, 2002, Vol. I, p. 193, V. 7, “Tam multa”.
4) A. Cappelli, “Dizionario di abbreviature latine ed italiane”, Milano, Hoepli, sesta Edizione anastatica, 1973, p. 221.
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