Nel corso degli anni, mi sono occupato spesso di Moravia, anche se essenzialmente da un punto di vista filologico e linguistico. In questa sede però il “focus” dell’indagine si sposta verso il Moravia per certi aspetti “profeta” e precorritore dei tempi moderni, dei “nostri” tempi. Potrebbe sembrare strano evocare la “geometria” a proposito di Moravia, ma il fatto è che fu lui a parlarne per primo, e in relazione agli eventi umani, dell’uomo e della donna. Moravia amava ragionare “more geometrico”, e anzi questa è una caratteristica saliente dello scrittore, spesso sottolineata da lui stesso nonché, ovviamente, dalla critica:
“Era inverosimile, era assurdo: Emilia non poteva assolutamente avere qualche motivo per non amarmi più […] Per un momento riflettei smarrito […] Finalmente , come si fa con certi problemi di geometria, mi dissi: ‘Pensiamo per assurdo che un motivo ci sia’” (1).
“Per Moravia la prigione dell’esistenza va rilevata con criteri di sommaria geometria piana, una linearità da utilizzare tanto in orizzontale che in verticale” (2).
Perché soffermarsi sulle “geometrie” di Moravia tra gli anni ’60 e ’70? Il motivo di fondo è dato dalle “cronache” dei nostri giorni, stracolme di strane quanto pericolose debolezze psicologiche e interiori. Come spesso accade, la letteratura “anticipa” la realtà e, a rileggere Moravia anni ’60-’70, sembra di intravvedere “qualcosa”, qualche “anticipazione” dei nostri tempi.
Per farla breve, Moravia in quegli anni disegnò delle ben strane “geometrie immaginarie”, che poi in realtà sembrano in qualche modo inverarsi nella società attuale. A Moravia pareva di raccontare cose molto importanti sulla società italiana che si stava avviando verso l’industrializzazione e la “modernità”, mentre, per converso, egli si accorgeva che la critica del suo tempo lo snobbava letteralmente:
“Ricordo che fin dalla pubblicazione del mie primo romanzo ‘ Gli indifferenti’, io provai, leggendo le numerose recensioni un senso profondo di delusione. Mi colpivano le loro superficialità, provinciali, esteriorità e meschinità, pur sotto la vernice presuntuosa e brillante della cosiddetta critica estetica [...] Questo senso di delusione si ripeté poi puntualmente ogni volta che facevo uscire un libro. E si ripeté egualmente la sensazione della parzialità e manchevolezza dell'esame, tanto più misteriose in quanto ormai non potevano imputarsi alla novità della mia opera. Alla fine, dopo molte riflessioni, sono venuto alla conclusione che la mia insoddisfazione era originata da un fatto molto semplice: io ero e sono tuttora convinto che certi aspetti della mia opera andassero presi in seria considerazione” (3).
“Geometria Prima”: la noia e il “vuoto di senso”
Gli anni ’60 si aprono con il Moravia de “La Noia”, un romanzo che lo avrebbe fatto conoscere a livello internazionale, e che “superò”, e di molto, la realtà evocata ne “Gli Indifferenti”, del 1929. Se lì il mondo borghese si “avvicinava” alla rovina pressoché completa, nella “Noia” esso tocca ormai il fondo. I personaggi sono tutti “fuori registro”, e, per sopraccarico, agiscono e si muovono in un mondo privo di senso e significato, dove una qualsiasi verità appare del tutto impossibile a raggiungersi:
“ L'uomo del neocapitalismo, scriveva Moravia, con tutti i suoi frigoriferi, i suoi supermarket, le sue automobili utilitarie, i suoi missili e i suoi set televisivi è tanto esangue, sfiduciato, devitalizzato e nevrotico da giustificare coloro che vorrebbero accettarne lo scadimento quasi fosse un fatto positivo e ridurlo a oggetto tra gli oggetti (4).
Come sempre, in tutti i libri di Moravia, il denaro è il “primum movens immobile” dell’universo, non solo borghese. Il denaro, agli occhi del protagonista, assume i contorni dell’ “arcano onnipotente”:
“Arrivai a concludere che forse mi annoiavo perché ero ricco e che se fossi stato povero non mi sarei annoiato. Quest'idea non era così chiara nella mia mente, allora, come adesso sulla carta; più che di un'idea, si trattava del sospetto quasi ossessivo che vi fosse un nesso indubitabile tra la noia e il denaro […] Io non ero che un uomo ricco il quale avrebbe voluto non esserlo; potevo benissimo indossare stracci, mangiare tozzi di pane, vivere in un tugurio; ma il denaro di cui disponevo trasformava in vestiti eleganti i miei stracci, in manicaretti raffinati i miei tozzi di pane, in palazzo il mio tugurio ” (5).
La “noia”, nelle “geometrie immaginarie” di Moravia assumeva addirittura i contorni di quello che potremmo definire il “primo motore immobile” di aristotelica memoria. La “noia” è il “primum” da cui muovono tutte le cose del mondo, dell’uomo e della donna, dell’universo tutto:
“In principio, dunque, era la noia, volgarmente chiamata caos. Iddio, annoiandosi della noia, creò la terra, il cielo, l’acqua, gli animali, le piante, Adamo ed Eva; i quali ultimi, annoiandosi a loro volta in paradiso, mangiarono il frutto proibito … E via di seguito” (6).
“Geometria Seconda”: “L’automa” (Milano, Bompiani, 1962).
Anche nei 41 racconti raggruppati in “L’automa” domina il non-senso dell’esistenza, aggravato dall’ “automatismo” dei gesti, compiuti “automaticamente”, e che riflettono la perdita d’identità dei protagonisti:
“ Quindi, stranamente, meccanicamente, lei gli andò a cercare la mano e gliela strinse. Ma anche in questa stretta, Renzo avvertì, come nell’abbraccio, l’assenza di qualsiasi consapevolezza, l’automatismo” (7).
Ora, agire “in automatico” significa semplicemente far agire l’istinto sulla ragione, e, di conseguenza, commettere azioni spesso assolutamente aberranti. E la nostra società, per molti versi, sembra agire “in automatico”: la furia improvvisa, il calcio e il pugno: la violenza, insomma, contro gli altri e verso se stessi. Come quando Guido “vola” con la famiglia e con la sua automobile a velocità pazzesca lungo un precipizio. Mentre la vettura scendeva dalla montagna il protagonista [Guido] scatta improvvisamente in velocità e, al tempo stesso, sente il desiderio “irresistibile” di far precipitare la sua auto, insieme a tutti gli occupanti, in un abisso che si affacciava sul lago. L’istinto di morte lo guiderebbe nell’abisso, ma poi recede dal proposito:
“Anzi gli parve di non averli mai amati come in questo momento in cui desiderava distruggerli. Ma era poi davvero un pensiero oppure una tentazione? Era una tentazione, quasi irresistibile” (8).
Nel caso in questione l’automatismo non era scattato. Tuttavia, la realtà contemporanea ci sottopone “fatti” talmente “incredibili” che è ipotizzabile che l’automatismo oggi abbia raggiunto vertici assolutamente non immaginabili.
“Geometria terza”: “Un’altra vita” (1973).
Oggi si sente spesso l’espressione, fin troppo abusata, “Vorrei rifarmi una vita”. “Rifarsi una vita” è un cliché della modernità contemporanea, adombrato in maniera evidente in “Un’altra vita”:
“Almanaccavo tra me e me una teoria sulla sua condotta: lui, probabilmente, odiava la famiglia; ma per mancanza di vitalità non era capace di farsi una vita diversa” (9).
Ma dove porta questo irrefrenabile desiderio a una “vita diversa”. Moravia l’ha detto più volte, sia nei saggi sia nella narrativa. La “recherche” d’una vita “diversa” comporta la sconfortante scoperta del “nulla”.
“Il mondo moderno, scriveva Moravia nel lontano 1964, rassomiglia assai ad una di quelle scatole cinesi dentro la quale si trova una scatola più piccola, a sua volta involucro ad un’altra ancora più piccola e co sì via [...] L’incubo generale del mondo moderno ne contiene degli altri minori, sempre più ristretti, finché si giunge al risultato ultimo che ogni singolo uomo risente se stesso come un incubo” (10).
E, in “Una cosa è una cosa”, il protagonista sentenziava:
“Ho preso la scatola di lacca nera e d’oro e “meccanicamente” [virgolette mie] l’ho aperta. Dentro la scatola c’era un’altra scatola. Ho aperto questa seconda scatola e ne ho trovata una terza. E poi una quarta, e poi una quinta e poi una sesta. Alla fine ho aperto la settima scatola e non ho trovato più nulla” (11).
La “settima scatola” di Moravia rinvia simbolicamente al “nulla” ed è perfettamente uguale all’apertura del “settimo sigillo” di Bergman, dove “ […] La vita è un inferno […] e la morte il nulla” (12).
La “modernità” comporta dunque “geometrie” venate d’un profondo pessimismo esistenziale:
“Kleist non voleva più vivere perché non sperava più né per se stesso né per la propria patria; ma non escludeva che un giorno, dopo la sua morte, la speranza sarebbe forse tornata sulla terra; Il suo era un suicidio di impazienza. Io, invece, mentre non sopportavo il mondo nel quale mi ero trovato a nascere, non mi facevo illusioni […] perché ero sicuro, assolutamente sicuro, che la speranza in un mondo migliore non poteva che essere inganno o illusione” (13).
La vita ha dunque una sua struttura “geometrico-lineare”, dove tutto nasce dalla noia, “volgarmente chiamata caos”, e il cui risultato ultimo è il “nulla” e, spesso, la “follia”. Il Caos di Moravia è un caos “ordinato” da cui procedono “inesorabilmente” tutte le cose.
Moravia scopriva nelle nostre esistenze qualcosa di “ sciagurato, assurdo, inestetico […] che non appartiene tanto alla modernità, ma alla vita stessa. Nella sua nuda e pura trama. Qualcosa di ‘meccanico’, ma indomabile, di banale eppure stupefacente, il cui risultato è sempre e comunque questo: la nuda e pura trama della vita. Cioè la materia delle favole. Senza lievito e a volte perfino senza volume.
Geometria piana, linee” (14).
Chiaro, no?
“ ‘Soffri molto?’ ‘Eh, sì, qualche volta mi pare di essere diventata pazza sul serio. Cioè di essere peggiorata, di essere chiusa irreparabilmente in una particolare follia.’
‘Che genere di follia?’.
‘Mi pare chiaro, no?
Quella che mi fa credere di essere normali, simili a tutti gli altri’ ” (15).
Note
1) A. Moravia, “Il conformista”, “Il disprezzo”, Milano, Bompiani, 1954, p. 342.
2) A. Moravia, “Romanzi e racconti, 1927-1940”, a cura di E. Siciliano e F. Serra, Milano, Bompiani, 2000, p. IX.
3) A. Moravia, “Risposta a C. Cases, ‘Otto domande sulla critica letteraria in Italia’ ”, in “Nuovi Argomenti”, maggio-agosto 1960, pp. 2-22.
4) A. Moravia, “L’uomo come fine”, Milano, 1964, p. 6.
5) “La Noia”, Milano, Bompiani, 1960, p. 13, 316.
6) A. Moravia, “La Noia”, in "Opere complete: "Il conformista", "Il disprezzo", "La noia", "L'attenzione", Milano, Bompiani, 1976, vol. V, , p. 485.
7) A. Moravia, “Opere complete: “L'automa”, “Una cosa è una cosa”, “Il paradiso”, “Un'altra vita”, “Boh”, Milano, Bompiani, 1976, p. 204.
8) A. Moravia, “Opere complete …”, cit., p. 43.
9) A. Moravia, “Opere complete”, Milano, Bompiani, 1973, p. 144.
10) A. Moravia, “L’Uomo come fine”, in “L’uomo come fine e altri saggi”, Milano, Bompiani, 1964, p. 215.
11) A. Moravia, “Una cosa è una cosa”, in “Opere complete …”, Milano, Bompiani, 1976, cit., p. 321.
12) Cfr. V. Attolini, “Immagini del medioevo nel cinema”, Dedalo, 1993, p. 35.
13) A. Moravia, “1934”, Milano, Bompiani, 1982, p. 144.
14) P. Di Paolo, “Tornare. Luoghi del Viaggio a Roma di Alberto Moravia, in “Nuovi Argomenti”, n. 40 V serie, ottobre-dicembre 2007, pp. 120-121.
15) A. Moravia, “La follia”, in “Opere complete”, Milano, Bompiani, 1973, p. 344.
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