Pubblicato il 27/06/2019 21:23:39
Avevo compiuto sedici anni il 24 di gennaio e luoghi così caratteristici non ne avevo mai visti. Tra la valle romagnola del Montone scendendo a San Godenzo, le case a differenza delle nostre costruzioni sul mare mi apparivano misere e tristi. Una ragione a questa mia impressione c'era, eccome. I venti sembrano scatenare la loro furia e le case hanno finestre così piccole che pare non passi neppure l’ossigeno. Lungo la strada e per un tratto di alcuni metri ci sta un muraglione massiccio con un’ iscrizione che spiega il perché l’ ultimo granduca avesse fatto costruire quel muro di pietra affinché il vento non travolgesse più le carrozze, i cavalli e i viandanti nei burroni che fiancheggiavano la vallata. L’ ultima delle minuscole case che stanno sul valico è l’osteria della gioventù, dove arrivammo all'imbrunire. Ai Poggi, poco lontano, c’ era stata in quei giorni una fiera e la strada, davanti all'osteria, erano affollate. Notai con mio stupore una bella ragazza che poteva avere all'incirca la mia età buttarsi a capofitto nella rissa che si stava scatenando, mi accorsi istantaneamente che era intervenuta in quel modo così veemente per difendere il fratello, che nella concitazione del momento chiamava per nome “ Giuseppe” per strapparlo dalla mischia. Il nostro arrivo forse incuriosì e sortì l’ effetto di calmare la burrasca che si era scatenata. Volemmo sapere quale era la causa scatenante della rissa anche per evitare senza proposito di scatenare noi stessi una zuffa visto il nostro carattere estremamente goliardico. Fu inutile il nostro tentativo. Nessuno, nemmeno i più accaniti, seppero spiegare il perché della rissa. Non rimase che dar la colpa al vino. Consigliammo di far portare nuovi fiaschi e la nostra ricetta si rivelò azzeccata. Noi, che avevamo sulle gambe qualche decina di chilometri di strada montana e dovevamo alzarci alle due del mattino per salire la Falterona e scendere a Stia in Casentino,decidemmo di abbandonare quella inusuale e inattesa compagnia ritirandoci nelle nostre camere. Avevamo appena chiusi gli occhi, che il capo gita venne a bussare urlando che era tempo di partire. A malincuore, lasciammo il letto. L’ aria della notte si faceva sentire e ci intirizziva le ossa; il capo gita armato di torcia elettrica come tutti noi cominciò ad inerpicarsi per la cresta sassosa del monte dei Tramiti e a raggiungere in fretta la schiena dell’ Alpe di San Benedetto. Questi sono i chilometri più antipatici in una escursione. Vengono delle tentazioni di tornare indietro, che non sono altro che ribellioni della pigrizia contro la volontà. Alcune nostre irritazioni nervose che sembrano figlie dell’ energia in realtà sono dello scoraggiamento. Non c’è che un rimedio: passo lento e non fermarsi se non per un sorso di cognac. I passi risuonano sulle rocce nude e nel silenzio; poi si cammina sull'erba soffice, sui muschi che paiono velluto, senza alcun rumore. Ci si accorge di voltare, di salire, di scendere, e qualche volta si percepisce di passare vicino ad un albero o ad uno scoglio, senza vederlo. Il mistero non ci abbandona mai, stimola l’ attenzione, affina i sensi. All’alba giungemmo ad una casa di pastori, proprio sotto al giogo della Falterona. Una donna col fischio chiamò le capre e munse il latte caldo e spumante che noi tutti bevemmo con gran piacere. Il monte stava davanti a noi con le sue coste chiazzate di prati verdi e di abetaie quasi nere. Salire dritti alla cima non è facile. Quindi direzione verso levante per avvicinarci alla punta di Modina e dal Pian delle Fontanelle guadagnare la vetta. A 1280 metri di altitudine mangiammo lamponi cogliendoli sul margine del sentiero; a 1650 metri perdemmo la parola davanti ad uno spettacolo immenso. Eravamo sull’ ultima vetta della Falterona, e sotto di noi, per quanto l’ occhio poteva, non vedevamo che un mare di monti! Tutto l’ Appennino centrale dal Sasso della Verna al Cimone di Fanano era sotto i nostri piedi, e più lontano, sfumate nell'azzurro, facevano capolino vette più alte. L’ Adriatico luccicava a levante, e a mezzogiorno, verde, ridente quasi ci tendesse le braccia. Si apriva ai nostri occhi il Casentino fino ad Arezzo. Si può vivere cent’anni ma quell’istante non si può più dimenticare. Arriva un momento, nel silenzio solenne della montagna, che il sublime ci sgomenta e ci si sente costretti a chiudere gli occhi per la vertigine dell’ immenso. La vita ha poche ore così piene, così grandi. Scendere è un dolore. In ogni caso scendemmo e intorno alla sorgente dell’ Arno bevemmo tutti l’ acqua limpida e gelata del fiume che nasce in Falterona. Poi, procedemmo ancora più a valle, tra le chine sassose e le ginestre dai fiori gialli, sui sentieri arsi e bianchi che portano a Stia. Una frazione del comune di Prato vecchio. Entrati nella piccola frazione la gente ci guardava con molta curiosità, quando un giovane ci venne incontro chiedendoci se fossimo soci del Club Alpino. Rispondemmo di sì e precisammo che la nostra sede era a Chiavari una ridente cittadina della riviera ligure. Era socio pure lui del club alpino e subito si stabilì un rapporto di fraterna amicizia. Il collante era la passione per la montagna. Arturo, questo il nome del giovane, ci indicò un posto dove cenare e passare la notte a un prezzo di assoluto favore. Il mattino seguente si presentò alla locanda dove avevamo alloggiato per la notte e fece una abbondante colazione assieme a noi poi, ci accompagnò per un buon tratto di via nella nostra salita per l’eremo. Eravamo diretti alle sorgenti del Tevere. Questa però è un’ altra storia con gli stessi personaggi che mi onoro di citare; Vittorio, Carletto, Giuseppe, Francesco, Mauro, e il grande balla, il nostro capo gita.
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