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Raccolta di testi in prosa di Francesco Rossi
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

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Nel mio libero pensiero.

Chi ha dimestichezza con la montagna, sa quali effetti ottici procura la nebbia.
Si sale lentamente e la vista non va più in là di pochi passi.
Questo vapore umido è palpabile e si muove con estrema lentezza.
Non sono altro che piccole gocce che rifrangono la luce solare, dando al fenomeno atmosferico una colorazione opaca. Una particolarità che desidero rendere evidente è l’alito che diventa visibile come d’inverno; l’erba, le pietraie, i tronchi degli alberi, sono impregnati di una fredda umidità che ci attornia e penetra nelle ossa nonostante l’equipaggiamento
Sempre in tema di percezioni, la mia è quella di un bosco che sembra assonnato, quasi non voglia risvegliarsi e il silenzio rigenerante che si respira e si palpa in quei momenti diventa per chi si trova in quelle condizioni un affinarsi di sensibilità percettiva, olfattiva, sensoriale. Dico questo perché in più di un’ occasione trovandomi in queste particolari condizioni salgo in alto senza che la visuale si apra ai miei occhi.
E’ una piacevolissima sensazione pure in quelle condizioni ostili, per me, una piccola sfida nel mezzo della natura quasi selvaggia, a volte deserta, altre, rude.
Per chi non ha il senso dell’ apprensione e della paura, pure una salita intorno ai mille metri di altitudine, nel bel mezzo di una nube densamente bianca ha il suo fascino.
Sulla cima, là dove l’ occhio avrebbe il piacere di ammirare una distesa di monti, quel velo di nebbia s’ interpone come un telo bianco tra me e lo scenario. Spesso uso la parola “sensazione” e c’è un motivo:
la mutevolezza che può avvenire in poco tempo e che determina cambiamento di veduta e stato d’ animo.
Un senso di disagio provo sempre di fronte a quel lenzuolo bianco che mi toglie la visuale d’intorno e sottostante, ma se un soffio di vento spazza via la nebbia,
scopro all'improvviso lo splendido spettacolo, perché di questo si tratta, e qui la sensazione esce dal novero dell’ordinario ed entra a pieno titolo in quella del singolare
e del magnifico.
Io che amo la montagna e la natura in tutte le sue molteplici particolarità mi sono trovato spesso in questa situazione particolare, e tutte le volte mi sono fermato a pensare.
Pure in questa mattinata sono stato gratificato dello spettacolo della nebbia che si leva dal basso e si ritrae quasi per magia e per una stranissima associazione d’idee mi sono fermato a pensare alle impressioni che proverebbe san Tommaso d’Aquino se ai suoi occhi scoprisse il nostro mondo. Ve lo immaginate?
Voglio forzare questa immaginazione. Milleduecentoventiquattro.
La città di Aquino in cui Tommaso nacque era al centro di una vasta contea e di cui facevano parte tutti i paesi che oggi la circondano.
A capo di questa contea era il padre di Tommaso; il conte Landolfo.
La famiglia era una delle più importanti dell’ Italia meridionale e il conte era continuamente in guerra, prestando aiuto a Federico II, il grande imperatore di Germania e di Sicilia, che fu per molto tempo in lotta contro il Papa. Un fatto è certo, non furono le sue imprese di guerra, né la sua potenza, tanto meno la sua ricchezza che diede fama a Landolfo. Fu, invece, la santità e la sapienza di uno dei suoi tanti figli a consegnare alla storia e quindi il ricordo ai posteri, il nome suo e quello della sua famiglia.
Fatta questa breve ma doverosa divagazione, tenendo conto dell’epoca e del periodo storico provate a pensare a quale sorpresa si troverebbe sotto gli occhi, il Santo Tommaso.
Siamo puramente nell'immaginario, quindi fate conto che viva e cercate di entrare nella sua testa e di mettere insieme con l’inventiva e la fantasia tutta la sua sorpresa tenendo di conto che si viaggia a ritroso nel tempo di circa otto secoli e di quanta strada cementificata dalle fatiche umane é stata costruita dall'uomo nel corso dei secoli che si sono susseguite.
Penso che la sorpresa del povero Tommaso sarebbe grandissima da farlo morire un'altra volta e, questa per un infarto fulminante.
Nel periodo storico cui faccio riferimento la lingua parlata e scritta era il latino. Un'altra mia considerazione: Tommaso aveva lasciato il mondo con l'aureola sperando che con le sue opere il mondo abbia compreso il disegno divino, in modo particolare la struttura di quello che è immateriale e quello che al contrario è materia inanimata per dare un giusto peso e uguale misura alla sua veduta filosofica sulla creazione e in modo particolare su Dio e lo ritroverebbe per certi versi come ai suoi tempi o, forse peggio.
Se Tommaso fosse resuscitato e catapultato nel mondo contemporaneo io, credo che sarebbe stato proposto da qualche insigne prelato ad assistere a una seduta parlamentare
alla Camera dei Deputati. Pensate a quale sorpresa si troverebbero i suoi occhi; una donna con un’alta carica istituzionale.
Provate a pensare al filosofo tomista in quale confusione cadrebbe.
Se poi lavoriamo con la fantasia, proviamo a immaginarlo come spettatore di una di quelle assemblee parlamentari, dove non si sentono che parole, diventate a pieno titolo vocaboli parlamentari, asino, coglione, porco, ladro, vigliacco.
Il povero Tommaso rimarrebbe inebetito di fronte alla scarsa attitudine all'intelletto dei parlamentari italiani.
Di certo Tommaso il filosofo non comprenderebbe l'uso della tecnologia e rimarrebbe di sasso come un romano vissuto all'epoca di Cesare vedendo un concittadino dell'epoca vittoriana accendersi la pipa con un fiammifero.
Forse il gioco d'azzardo, lo sperpero di risorse per tentare
un’ improbabile fortuna colpirebbe in questo caso la sua fantasia come le missioni nello spazio di cui non intenderebbe la natura e l'utilità.
Se poi riuscisse a comprendere le argomentazioni umanitarie che i governanti del nostro mondo sviluppano nei consessi internazionali per affrontare le problematiche che si riferiscono alla fame nel mondo per dare risposte alle nuove e crescenti povertà.
Si domanderebbe certamente se si parla come Cicerone o si agisce come Verre. Gaio Licino Verre (Gaius Licinus Verres') politico romano del primo secolo, propretore della Sicilia, dove si rese protagonista di concussione e ruberie. Subì un celebre processo nel quale Cicerone pronunciò contro di esso le orazioni denominate Verrine.
Ruberie alle quali non è mai stata data una soluzione positiva nel corso dei secoli. Provate a mettervi nei panni del povero santo e ditemi se egli vivesse ai nostri giorni se riuscirebbe a comprendere questo malaffare che imperversa nella società contemporanea.
Oltretutto un costume consolidato. Basta pensare per essere in sintonia con il contemporaneo di chi ha avuto dall'Unione Europea per esempio, denaro che non poteva ottenere per aprire attività fittizie, chi ancor oggi ha fatto la cresta sui dazi doganali.
Chi ha dato il via libera a richieste che erano fuori dalla legge.
In molti casi scopriamo attraverso i media che sono proprio le autorità degli stati membri dell’ unione a frenare, a trovare cavilli per non far procedere le indagini nonostante la marea d’ informazioni raccolte. Penso che al santo gli verrebbe spontaneo domandarsi: a che cosa è servita la mia sapienza donatami dal divino se nel corso dei secoli nonostante tante cose che non riesco a comprendere siamo giunti a questo? Io credo che proverebbe ancora maggiore meraviglia se entrasse in un ministero, uno dei tanti, e osservare che per il restauro di una casa ci vuole una procedura complicatissima, nonostante la richiesta fosse semplicissima.
Permessi, controlli di capi divisione, capi sezione, ecc…, fino ad arrivare al protocollo; sì,perché nell'era della digitazione bisogna protocollare, timbrare, accertarsi e poi lasciare che le cose prendano il loro verso sperando nella fortuna.
Così tra una truffa, una guerra, una catastrofe naturale, le ruberie
l’uomo nonostante tutto ha portato la comodità dove prima non esisteva. Ha fornito prova di un grandissimo ingegno nel servirsi e appropriarsi di tutti i mezzi che gli ha dato e offerto la natura e, nel superare le forze inerti a lui contrarie con il prodigio della tecnologia ha modificato pure il corso della natura contribuendo al cambiamento climatico del pianeta.
Da questa cima dove mi sono fermato e dove ora il panorama si allarga a perdita d’ occhio dopo il diradarsi della condensa in compagnia con questi pensieri, ho il privilegio di osservare uno dei più splendidi spettacoli della natura che essa regala a chi ama camminare per i monti e a chi ama veleggiare nei mari. Ecco, su questo regalo che mi regala la natura testimonio, il mio sbalordimento, ogni volta che mi si presenta l’ occasione.
Solo la natura riesce a farmi da guida e non mi disperdo in nessun tipo di congetture di carattere politico, non ne vale la pena.
Proviamo a pensare se a Tommaso gli facessero leggere un accozzo di articoli circa il cambiamento delle regole costituzionali che hanno retto la Repubblica fino ad oggi e che in modo sostanziale vogliono essere la legge o la regola per tutta la nazione, e aggiungiamo pure il condimento in varie salse a secondo il partito che governa.
Io penso che il santo direbbe che il cambiamento che si vuole operare offenderebbe i padri della Costituzione Italiana.
Accostatevi con la vostra fantasia al santo come faccio io dall’alto della cima e domandategli in confidenza che cosa pensa di tutto questo.
E’ santo, è dottore della chiesa, quindi presumibilmente loquace, lo dirà.
In buona sostanza statene certi che il suo dire verso la positività dei progressi meccanici e scientifici che tanto l’ hanno meravigliato, troverebbe la sua benedizione.
In tutto il resto forse siamo più indietro di quel che si fosse ai suoi tempi. Ed io aggiungo dall'alto del monte che morale, governo e religione sono i pilastri su cui si poggia un mondo che non apprezza la natura, la libertà, lo spirito libero.
E il mio libero pensiero, dalla cima lo getto a valle.

Id: 4617 Data: 09/07/2019 20:08:26

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In quel 1974. L’inizio

Avevo compiuto sedici anni il 24 di gennaio e luoghi così caratteristici non ne avevo mai visti. Tra la valle romagnola del Montone scendendo a San Godenzo, le case a differenza delle nostre costruzioni sul mare mi apparivano misere e tristi. Una ragione a questa mia impressione c'era, eccome.
I venti sembrano scatenare la loro furia e le case hanno finestre così piccole che pare non passi neppure l’ossigeno.
Lungo la strada e per un tratto di alcuni metri ci sta un muraglione massiccio con un’ iscrizione che spiega il perché l’ ultimo granduca avesse fatto costruire quel muro di pietra affinché il vento non travolgesse più le carrozze, i cavalli e i viandanti nei burroni che fiancheggiavano la vallata.
L’ ultima delle minuscole case che stanno sul valico è l’osteria della gioventù, dove arrivammo all'imbrunire. Ai Poggi, poco lontano, c’ era stata in quei giorni una fiera e la strada, davanti all'osteria, erano affollate.
Notai con mio stupore una bella ragazza che poteva avere all'incirca la mia età buttarsi a capofitto nella rissa che si stava scatenando, mi accorsi istantaneamente che era intervenuta in quel modo così veemente per difendere il fratello, che nella concitazione del momento chiamava per nome “ Giuseppe” per strapparlo dalla mischia.
Il nostro arrivo forse incuriosì e sortì l’ effetto di calmare la burrasca che si era scatenata. Volemmo sapere quale era la causa scatenante della rissa anche per evitare senza proposito di scatenare noi stessi una zuffa visto il nostro carattere estremamente goliardico.
Fu inutile il nostro tentativo. Nessuno, nemmeno i più accaniti, seppero spiegare il perché della rissa. Non rimase che dar la colpa al vino. Consigliammo di far portare nuovi fiaschi e la nostra ricetta si rivelò azzeccata. Noi, che avevamo sulle gambe qualche decina di chilometri di strada montana e dovevamo alzarci alle due del mattino per salire la Falterona e scendere a Stia in Casentino,decidemmo di abbandonare quella inusuale e inattesa compagnia ritirandoci nelle nostre camere.
Avevamo appena chiusi gli occhi, che il capo gita venne a bussare urlando che era tempo di partire. A malincuore, lasciammo il letto.
L’ aria della notte si faceva sentire e ci intirizziva le ossa; il capo gita armato di torcia elettrica come tutti noi cominciò ad inerpicarsi per la cresta sassosa del monte dei Tramiti e a raggiungere in fretta la schiena dell’ Alpe di San Benedetto.
Questi sono i chilometri più antipatici in una escursione. Vengono delle tentazioni di tornare indietro, che non sono altro che ribellioni della pigrizia contro la volontà. Alcune nostre irritazioni nervose che sembrano figlie dell’ energia in realtà sono dello scoraggiamento. Non c’è che un rimedio: passo lento e non fermarsi se non per un sorso di cognac. I passi risuonano sulle rocce nude e nel silenzio; poi si cammina sull'erba soffice, sui muschi che paiono velluto, senza alcun rumore. Ci si accorge di voltare, di salire, di scendere, e qualche volta si percepisce di passare vicino ad un albero o ad uno scoglio, senza vederlo.
Il mistero non ci abbandona mai, stimola l’ attenzione, affina i sensi. All’alba giungemmo ad una casa di pastori, proprio sotto al giogo della Falterona.
Una donna col fischio chiamò le capre e munse il latte caldo e spumante che noi tutti bevemmo con gran piacere. Il monte stava davanti a noi con le sue coste chiazzate di prati verdi e di abetaie quasi nere. Salire dritti alla cima non è facile. Quindi direzione verso levante per avvicinarci alla punta di Modina e dal Pian delle Fontanelle guadagnare la vetta.
A 1280 metri di altitudine mangiammo lamponi cogliendoli sul margine del sentiero; a 1650 metri perdemmo la parola davanti ad uno spettacolo immenso. Eravamo sull’ ultima vetta della Falterona, e sotto di noi, per quanto l’ occhio poteva, non vedevamo che un mare di monti! Tutto l’ Appennino centrale dal Sasso della Verna al Cimone di Fanano era sotto i nostri piedi, e più lontano, sfumate nell'azzurro, facevano capolino vette più alte.
L’ Adriatico luccicava a levante, e a mezzogiorno, verde, ridente quasi ci tendesse le braccia. Si apriva ai nostri occhi il Casentino fino ad Arezzo.
Si può vivere cent’anni ma quell’istante non si può più dimenticare.
Arriva un momento, nel silenzio solenne della montagna, che il sublime ci sgomenta e ci si sente costretti a chiudere gli occhi per la vertigine dell’ immenso.
La vita ha poche ore così piene, così grandi. Scendere è un dolore.
In ogni caso scendemmo e intorno alla sorgente dell’ Arno bevemmo tutti l’ acqua limpida e gelata del fiume che nasce in Falterona. Poi, procedemmo ancora più a valle, tra le chine sassose e le ginestre dai fiori gialli, sui sentieri arsi e bianchi che portano a Stia. Una frazione del comune di Prato vecchio. Entrati nella piccola frazione la gente ci guardava con molta curiosità, quando un giovane ci venne incontro chiedendoci se fossimo soci del Club Alpino.
Rispondemmo di sì e precisammo che la nostra sede era a Chiavari una ridente cittadina della riviera ligure. Era socio pure lui del club alpino e subito si stabilì un rapporto di fraterna amicizia. Il collante era la passione per la montagna.
Arturo, questo il nome del giovane, ci indicò un posto dove cenare e passare la notte a un prezzo di assoluto favore. Il mattino seguente si presentò alla locanda dove avevamo alloggiato per la notte e fece una abbondante colazione assieme a noi poi, ci accompagnò per un buon tratto di via nella nostra salita per l’eremo. Eravamo diretti alle sorgenti del Tevere. Questa però è un’ altra storia con gli stessi personaggi che mi onoro di citare; Vittorio, Carletto, Giuseppe, Francesco, Mauro, e il grande balla,
il nostro capo gita.

Id: 4605 Data: 27/06/2019 21:23:39