Nel bianco è la distanza
dell’uomo dalla polvere, della
polvere dal cielo, che si offre
capovolto e gigantesco:
se l’ombra la preghiera, allora il sole
è la tana del verme che dispone
e ordina: trama
il cammino della sabbia e delle terre.
Probabilmente la mia genesi disperse
le membra masticate dal cilicio; la
comunione delle allodole nefaste e
le tracce della sillaba, la colpa.
Certi cani sorseggiano alle pozze
di sangue di massaia; altri
azzannano la doppia identità
di cui è composto l’angelo:
l’esattezza del mio verso è necessaria
a che un giorno si disvelino, a che
tutto torni luce e si catturi
il colpevole dei verbi.
Vi prego, orinate
sul tempo in avvenire; sulla sorte
degli uomini giunti al fianco
di mille fiori orrendi;
vi prego, tossite
sul mio sangue malaticcio; sulle orme
appartenute allo strano arrembaggio
che ha il nome di nascere.
Perfino la tua ombra lontanissima
ha solcato i mondi e le miserie,
e non ha piede: la parola dell’aedo
è preghiera inespugnabile.
Il dubbio è sempre muto, la domanda
è nell’animo dismesso: ammirate
un profeta decaduto. (Il decaduto
è l’anarchia del seme condannato).
Verranno sette lingue per bruciarmi,
sette teste cave inghiottiranno
il membro arcano dell’agnello. Quale
sciagura in questo frenulo posticcio!
Dal baratro accade che lo scettro
sia impugnato da un bambino: il circo del custode
è tra il globo e la parola.
Un veggente quale fui è lo scherzo
del martirio della genesi; rendetemi
la distanza che separa con lo strazio
il verme, il cuore e quest’azzurro…
Vi prego, orinate
sulle scorie dell’Impero; masticate
la scorza che accrebbe
certe disfatte nerissime;
vi prego, tossite
per passire i rami all’inverno; chiedete
che la grazia del bosco adeschi
la libertà delle cose e che corrompa.
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