I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.
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Poesie da ’Fiori estinti’
Autunno È da un po’ che le foglie sono incerte, che il cielo non sprofonda nelle loro vene scure, dove il sangue aggrovigliato gira e cade.
Stamattina un passero di ronda annunciava la catastrofe cantando. *
La stanza Si ammala la parola, le mie vertebre si curvano in silenzio. Non piove che acqua sporca, e questa stanza è troppo bianca: morirò nel singhiozzo delle allodole.
* Vigilia d’inverno Ho offerto i miei voti all’inverno, alla rosa sbaragliata da una neve che non cade, non vacilla, ma soltanto che attendiamo e ci rinnega. Da domani i bambini torneranno a inventare nuove storie e nuovi fiori. * Un salmo usurato Comando che il tuo cuore tossisca timido, tra le mani degli angeli. Poiché non fui che un salmo usurato; il profeta dei morti e il fanciullo che invoca perdono dai fiori, chiedo in questa veglia la parola che ci salvi dall’inverno e faccia casa. *
Vorrei guardare il cielo Vorrei guardare il cielo, ma le stelle mi aprono il sangue e disturbano i versi in bocca ai morti:
stanotte mia madre non partecipa al pane che si spezza, non consente né risate né preghiere, capovolge tutti i nomi e li scavalca;
stanotte mio padre non ricorda quante volte ha indovinato, quante volte la parola gli ha mozzato la parola.
Stanotte prendo l’ago e cucio i miei occhi agli occhi di mia madre, prendo un piccolo coltello e svuoto le mie ossa nelle ossa di mio padre.
Vorrei guardare il cielo, ma le stelle le ho tra i denti e fanno male. *
da Fiori estinti (Terra d'ulivi, 2019) 
Id: 61079 Data: 25/11/2020 01:01:04
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Luce
C’è l’acqua, c’è la pietra, e tu potresti sprofondare nei miei versi non salvando che una rondine corrotta: troppa luce squarcia l’ala, troppa luce squarcia il nero e lo redime. Prenderemo Roma con i nostri nervi curvi in cui collassa il cielo; non avremo che una voce malaticcia a rivelare ciò che tramano le sillabe: questa luce è lo starnuto di ogni angelo perverso.
Id: 49499 Data: 29/06/2018 15:07:33
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Il dolore della pietra
I morti non conoscono la lingua del mio urlo, non hanno che angeli malati. Orfanello e scalzo, stringo il dolore della pietra: marcissero le croci avrei salvezza.
Id: 49082 Data: 31/05/2018 11:12:21
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Dell’acqua e della bocca
Crepaccio del mio verbo la distanza tra parola e precipizio: all'assalto delle rose crolla il dente che azzannò la prima pietra. Alla notte che fu crepa di radici la mia
carne si fa carne di adunanza. Siano danze a benedire questa pioggia negra a capofitto nel gerundio. Eppure la parola mi rimette
a un'acqua che marcisce nelle vene; a un'acqua di salvezza senza mano che la strappi o la passisca: farfalle orrende del crepaccio, qui tentate
il principio delle cose e fu la zuffa. Zuffa d'uovo a minacciare nel colore ogni icona che sta al templio e sputa rose. E fu guinzaglio dal melo alla serpe,
la parola su ogni erba e terra di padrone, demone giallo caduto al sole col sorriso grande e disgraziato. Sapeva dei seni e dell’acqua piaciuta, diede al fulmine le mani, agli occhi il sale, e fu da sempre notte, rumore di pietre morte. Fu il vento a stordire le facce
di chi arrossiva nudo a luci rotte. Dal silenzio che venero, lambisco il disagio dell'errante, un muro aperto in fronte. Separatemi le acque della bocca gli orgogli e la saliva, come se avessi terre a seppellire, un nome che biascica. Dal sangue del mio sangue
lamento di scoglio, si indossano flagelli, tutti gli ori del Santo lenzuola ancora umide. Eppure dall'acqua della mia acqua il fiore beato, muto, poggiato a un morso d'aria. Accadesse nel dominio della croce
questo canto che non strazia, e più domanda più disperde l'avvenire della quercia: corteccia che fu nervo, nervo
grezzo a sconquassare la ragione. Nell'ultima parola venne a Giobbe il cielo sulla lingua, e cose basse che tramano l'insidia della serpe.
Dolore degli angeli la sorte segreta del mio primo osso: battesimi e olocausti crolleranno
all'inverno d'ogni nome. --- Mattia Tarantino e Salvatore Leone 
Id: 48310 Data: 05/04/2018 16:55:33
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La pietra sul sangue
Primavera intatta che non cede al bambino squarciato, allo squarcio tracciato dall'angelo su ogni radice. C’è mio padre e nei suoi occhi una luce bianchissima:
pietà del fanciullo scagliare la pietra sul sangue.
Id: 48037 Data: 20/03/2018 17:27:14
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Ginnasio (I-II-III-IV-V)
I
Ginnasio che fu crepa le altissime gole della veglia, dimorando ogni sorte di ogni lume. Lume,
bianco, fuoco e sfera custodiscono la soglia della sillaba remota, traccia della genesi, distanza dal martirio irreversibile.
Se prendessi tra le mani queste stelle palliducce e ne varcassi la soglia che annuncia la sfera, vedreste quanto l’angelo mi penda nel nome:
non c’è verbo che trattenga il dio che ho perduto quando ho perso la lira; non c’è bosco in cui non gridi di una fredda e disgraziata libertà.
E indovinando, indovinando quale sorte mi precipita, ritorno a ordinare tutti i fiori, finalmente.
II
La sfera che gettai bambino ancora non crolla, crolla invece il ventre di mia madre.
Il cappio stringe il dente mentre il dente ancora strazia: ginnasio, da quale stirpe d’alfabeti
uscisti a mescolare fronde e vecchie polveri? quale grido ti cucirà nel verbo che separa?
Rondinella dei sepolcri, cantami questa luce che accede dal grano e tutto coglie.
III
Vengo al canto quale bimbo d’alluccata: ho memoria dell’ustione che il mio grembo ebbe a prima acqua; ho memoria
del ginnasio che sventrò radice e sfera: non v’è cielo che dimori nell’angelo impiccato.
IV
Ginnasio che è sventura e fa distico del sangue.
V
Cantai, cantai, cantai e mai che venne la parola:
quando indicai, esiliando, l’angelo che giace nella foglia, accadde un ginnasio che fu crepa, e nella crepa quest’azzurro irreversibile.
Troncatemi nell’ultima sillaba che qui mi sventra e mi violenta.
Id: 47314 Data: 17/02/2018 19:23:21
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Tra la polvere e la genesi
Nel bianco è la distanza dell’uomo dalla polvere, della polvere dal cielo, che si offre capovolto e gigantesco: se l’ombra la preghiera, allora il sole è la tana del verme che dispone e ordina: trama il cammino della sabbia e delle terre. Probabilmente la mia genesi disperse le membra masticate dal cilicio; la comunione delle allodole nefaste e le tracce della sillaba, la colpa. Certi cani sorseggiano alle pozze di sangue di massaia; altri azzannano la doppia identità di cui è composto l’angelo: l’esattezza del mio verso è necessaria a che un giorno si disvelino, a che tutto torni luce e si catturi il colpevole dei verbi. Vi prego, orinate sul tempo in avvenire; sulla sorte degli uomini giunti al fianco di mille fiori orrendi; vi prego, tossite sul mio sangue malaticcio; sulle orme appartenute allo strano arrembaggio che ha il nome di nascere. Perfino la tua ombra lontanissima ha solcato i mondi e le miserie, e non ha piede: la parola dell’aedo è preghiera inespugnabile. Il dubbio è sempre muto, la domanda è nell’animo dismesso: ammirate un profeta decaduto. (Il decaduto è l’anarchia del seme condannato). Verranno sette lingue per bruciarmi, sette teste cave inghiottiranno il membro arcano dell’agnello. Quale sciagura in questo frenulo posticcio! Dal baratro accade che lo scettro sia impugnato da un bambino: il circo del custode è tra il globo e la parola. Un veggente quale fui è lo scherzo del martirio della genesi; rendetemi la distanza che separa con lo strazio il verme, il cuore e quest’azzurro… Vi prego, orinate sulle scorie dell’Impero; masticate la scorza che accrebbe certe disfatte nerissime; vi prego, tossite per passire i rami all’inverno; chiedete che la grazia del bosco adeschi la libertà delle cose e che corrompa.
Id: 45770 Data: 17/12/2017 10:26:32
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All’orfano
Mio figlio avrà nome Enoja, recherà nel ventre l’ultimo avverbio di un dolore da seme: soffrirà la stessa sciagura bianca, della atroce maestà dell’acqua malata. Noi, umiltà e arcano, invochiamo l’eterno scolaro, l’eterna gioia dell’esca: il cilicio mortifica il verme e trapassa la carne dell’astro. Se il verso, la parola è nell’ordine dell’angelo, è lo strascicare della lingua sulla forma. Prima che Enoja avvenga, sia una pioggia nera sul cuore della madre; sia l’ingenuità del passero ferino: meraviglia dell’orefice è l’ancora vergine cerchio e la mano: v’è davvero una frottola bianca al principio del tutto? v’è davvero la bizzarria d’una luce corrusca? La legge è la parola, la parola è la legge, la legge annienta, mastica, ed è polvere dell’uomo e della carne. Fiore ostinato d’autunno, rendi lo stupore allo stupore; avvieni nel dominio della gioia capovolta: vorrei una farfalla altrettanto ostinata morirmi sulla lingua, l’audacia di mio figlio orfanello; vorrei l’oro e l’argento della prima creazione, della menzogna il cui nome è celato nel libro. Eppure so che il verso è la memoria: prima che io bussassi ed entrasse la carne* già fummo Enoja, già fummo l’albero barbaro e il nulla alla radice del punto. Auspico, da una carne segreta, un nuovo olocausto che sia l’assalto dell’uomo al giardino.
*D. Thomas
Id: 44766 Data: 24/10/2017 15:37:21
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La terra del verme
Allora donatemi il cerchio e la croce. Non temete questa parola che nasce in altri mondi, dove nerissimi gigli affliggono e azzannano. Amate anche il canto finale del passero; le astuzie che nutrono i morti. Altrove è la terra del verme, ma solo al di qua puo’ regnare col cuore. Prima che carne nient’altro che carne nutrì il fiore ossuto. Prima che acqua nient’altro che acqua devastò la mancanza di forma: tutta loro è la colpa. Ecco, amate ostinati la grazia, le impervie vie della sorte e mai, mai la sciagura dello stare.
Id: 43854 Data: 19/08/2017 10:19:21
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Grande canto della Redenzione
Eppure la memoria non trattenne che l’immagine e la torre nera, come nera fu la fiamma rivelata: cosa disciplina il verso? la distanza antica da un’antica corruzione? Fu la notte onnipotente a domandare oltre la soglia del senario. Il mio aborto è il mio profeta, non è altro che la sillaba mai stata. Altrove mi appartenne la vocale, quella prima del giardino in cui a tutto diede nome Adamo, stabilendo la misura del medesimo e dell’altro. Ma la stirpe scorre nei letti del tradimento Impervio è il passo dell’amore sconfessa i cerimoniali della devozione Nessun torace scalfì un cesello nell’industria litica del tempo se non per l’amaro zoccolo di Giuda se non scuotendo i calzari acerbi d’eresia gramigna dalle sacra ceneri della dimora dello stipite Così, questa vicenda si fa tra i bardi tenuta insieme con spago di fortuna e viticci di nenie aromatiche e rampicanti. Solo l’ipogeo del sogno dipana i mangroviali sciogliendo la porpora aborigena su rotoli di pergamene intraducibili: qualora la tosse appassisse i boschi d’Arcadia, diremmo che il padre del padre del poeta ha perduto il talento del seme. Ma il corvo, il bisonte e l’ariete nel misfatto la carne dell’astro divorano, e no, non è scempio: la luce di Sirio è la morte del grano, è la fiamma e l’olocausto romano. Necem ovium, canorum et maestum vinum habemus. Clipei nobis, alalà! Scongiuriamo la dozzina smaltata l’Apollo svenduto all’ingrosso delle rune Le transumanze celate dal drappo belano l’alterne fortune del bivacco Siedi presso la vora che conduce l’acqua ai sotterranei del tufo miliare Concedi l’inguine al morso del ragno che conosce i rari nomi del primitivo veleno E cedi intatto al dedalo storto del patto omeopatico Ca ci nu trùei lu filu ci nu trùei lu filu alla taranta alla taranta alla taranta nu ci balla e rideremo della colpa, quando ordineremo la sillaba segreta tra l’amore e la miseria, l’altro segno a manifesto del mio angelo: donatemi la danza, il flauto antico, intonate la parola nella lingua che è dell’Ellade e rivela quel che ignora questo verso. Dite: “non conobbe mai la neve”, e sia questo l’epicedio. --- Gli autori di questo testo sono Mattia Tarantino e Luca Crastolla
Id: 43620 Data: 25/07/2017 16:15:18
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Il fiore stremato
Vi confido il manifesto dell'angelo, l'appello alla rovina del cielo: vennero tre gazze, offrendo l'antico stupore del volo e non fu che il precipizio alla fine dell'erba, ad accoglierle. A un tratto una stella segreta è primavera se dal sangue spunta un fiore stremato.
Id: 43392 Data: 04/07/2017 13:01:11
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Ciò che è prima
Nominare, ecco, non il nome voglio; rivelare tutto ciò che è prima: carne, e polvere e miseria e cerchio conoscere. Indovinare dall’oblio della memoria quale astro e quando, concepì la nostra immagine; disperdere la grazia di quel che fu un angelo, e il suo nerissimo talento: tutto, tutto e tutto
affinché l’oro sia comune come la malasorte.
Id: 43259 Data: 21/06/2017 09:40:39
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Non perdonerò
Non perdonerò il diniego del tempio, né la dama che governa, nella sua maestà spettrale la deriva. Non perdonerò la voce al precipizio della carne, né mai la sorte beffarda della luce. Nasciamo nel canto assurdo del dolore, non siamo che polvere di pena; ma l’amore non disperderlo nella sua promessa eterna: l’avvenire non ha tempo, l’avvenire non assolve.
Id: 42782 Data: 12/05/2017 15:36:15
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L’origine
I Avresti pensato la carogna dell'angelo rivoltare la luce devota alla resa dei martiri, tra reclami di morte? Mi avresti stupito all'enigma del canto; a vocali d'avvento con grida bambine, rimetti. Avresti mai, in una lingua notturna, accolto la distanza dal cielo nelle sillabe arrese, o in miscugli di sangue fraterno e veleno? Mi avresti reciso nel nudo tentativo d'origine; quale corona di ossa e di petali, laddove nel metro si schianti la morte all'altare di Orfeo. II Collocassi il principio del demone alla notte dei fiori, che avrei tratto da una luce meschina? Invadessi il dominio del nulla, sospeso che arranca tra i sette cieli di Babilonia e le cinque concubine di un'Eva dannata? E se prima perdessi la genesi rimessa a mio padre, che nero profeta di ossa mi assolve, allora leverei il regno a febbraio e il sigillo alla sorte: accoglimi, strazio assoluto dell'avvenire aborrito!
Id: 42234 Data: 03/04/2017 15:05:04
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Eucaria
"Μαθοῦσα δὲ αἴνιγμα παρὰ Μουσῶν τοῦτο προύτεινε Θεβαίοιs." Pretendo l'esilio da Eucaria, l'accesso alla soglia del lutto: maledetto è il terreno del pesco dove la luce assolve la gioia capovolta nell'angelo; dove sono morte le cose che siamo. Certi dell'eterno al confine tra l'erba e la luna rechiamo alla notte il dominio dell'iride. Colei che ha risolto l'enigma si è rivelata. Ha il tuo nome: poiché fu la donna di Laio, nello sterco del trìpede a dare la misura alla vita quel giorno; poiché fui antimercio del cuore, perdonasti queste sillabe marce. Separasti la mia carne dal tempo! Mi dissero gamella di malacqua e profeta; mi rendesti nel nome vacillante alla soglia. Ecco, è nella carne che ti offro quest'ultimo bacio d'avvento: divenire, alla fonte del verbo, marmorei di luce e di pianto.
Id: 41770 Data: 01/03/2017 19:59:06
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Le confessioni della cenere
Volevo battezzarti nella luce inviolabile del monte, rimediare un nome antico a queste onde. Volevo avere acqua tra le dita e una lingua per cantarla ballerina e tua; ma non fui voce. O non t’ebbi, e fui parola dell’umano, o non fosti che una carne palliduccia e persa, un dimorare della soglia. Quella soglia invalicabile del labbro maledetto e ciliegino, quel rifugio di follia nell’abbandono. Ma dammi vita e vieni a offrirmi, misera, le confessioni della cenere…
Id: 41655 Data: 23/02/2017 12:07:02
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Innominata
Non si rivela, madre, il sacrificio: patto muto è il sangue. Hai confessato la menzogna della carne, hai reso ai miscugli dell'eterno questo nome rovino della metrica. Parlasti e convenisti che febbraio mi ospitò e ne fui disgrazia. Non posso che redimere d'oscuro questi versi: tributarli, madre, alla mia morte. Predica! Predica la messa ultima a Medea: la inghiottisti nei precordi dei suoi figli; la dicesti benedetta in ventre, e supplicasti la sua assenza a cerimonia del mio nacqui. Maledici, madre, questa lingua che ti assolve. Maledici! Fai dolore a questo figlio che non è se non inverno.
Id: 41471 Data: 10/02/2017 18:48:27
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Questa luce
E, allora, non lo so quante vocali mi hai raccolto e fisse; quando cerca, il ramo, un nome al suo ripiego. Non conosco, nei miei versi, le possibilità di una parola: la vedo, è qui che arranca, ma l’accento non lo dice mai dov’é che pende. Venisti in un inverno sconosciuto, come tanti forse ovvio nel suo freddo irreversibile. È caduta l’obbedienza. Non la vedi? Potrai trovarla nelle dita in fondo all’erba, ché a stupire i fiori li ho passiti. Potrai cantarla a qualche nudo uccello tra la neve che fa tardi a impressionarmi; potrai semplicemente domandarmi quanto è dura questa luce: poi mi gridi.
Id: 41043 Data: 15/01/2017 13:56:49
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Chiacchiericcio d’astri
Potessi dare nome all'avvenire della luce tra gli aranci; potessi dire che è un esilio di cimare la pecca al passo; (Ma chiacchiericcio d'astri è tutto quello che mi sei. Oh misera...)
M. Tarantino e D. Žerovnik
Id: 40895 Data: 08/01/2017 10:02:53
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Preghiera (I-II-III)
I E poi dovresti procurarmi luce, dare nome alle cose e praticare il nonostante, farmi dove. Che si recida il verso, la poesia tutta e quasi ogni scrittura. Cadano i simboli e i templi; che anche la croce sanguini sulla pelle sbiadita di Cristo! E invece mi lasci bruciare le falene, dismettere l'animo, possedere muti forse e due identità circa. Preghiera: così lo dicono oggi il canto, il miserere e perfino l'ombra tua lontana oppure qui; ma sai mi taccio. II Questi versi che non sanno mi tramandi e la parola in precipizio non risponde a nome alcuno o vanità di suono. Il misfatto della sillaba, la tragedia dell'accento e il canticchiare assorto della strofa; lasciate che la voce vi disabiti e la terzina sia sospesa tra il parlato e l'antico profanare della lingua. Mi rimetto al disaccordo sulla nostra caducità che si dissemina, l'aspersione dell'abisso e del delirio. Dove luce lieve lieve e demoniaca ti assopisci, mi è straniero l'edificio della norma e più non sono: arranco altrove. III Andai infine disponendo luce come potevo in questa lingua dare somma al colore, o conferire lecito assentarsi alla pupilla? E poi a queste mura venne l'alba, l'abisso mi corrose, e dopo il forse. Lasciai al solo canto il precipizio e Bisanzio apparve in sogno sprofondando.
Id: 40246 Data: 15/11/2016 14:41:46
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Tacere alla pronuncia
Custodire il verso ricercando la soglia del parlare e poi tacere la parola alla pronuncia e al suo principio. Che silenzio il mio giardino quando è sera e i suoi germogli inseguono la luce nella notte persa, e tra le erbe i semi a custodire gli astri e il suono.
Id: 39874 Data: 20/10/2016 17:11:25
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Orvieto vista da pietra campana
A Federica Trarre luce affine e circondante al limite d’ulivi, e risalire lo sguardo al colle, dove immobile d’altre distanze viene e giace; trattenere la memoria della pietra nuda in precipizio d’alte fronde, che rimette all’avvenire tra i miei versi e alla sorte della luce cui si appiglia.
Id: 39345 Data: 12/09/2016 22:19:26
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