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La Calabritudine e il senso del viaggio in Franco Costabille

Argomento: Letteratura

di Grazia Furferi
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Pubblicato il 21/10/2014 18:02:31

 

IL SENSO DEL VIAGGIO IN FRANCO COSTABILE

Grazia Furfei

 

L’emigrazione del popolo calabrese ha arricchito di operosità, creatività ed intelligenze il mondo produttivo dentro e fuori i confini nazionali attivate, come scrive Pasquale Tuscano in “Calabria” - un testo antologico di autori calabresi - dal “lievito della calabresità”, quella misteriosa alchimia per la quale il calabrese, una volta fuori della sua terra, si spoglia della pelle di uomo rassegnato ad un fatale immobilismo e si riscopre operoso, inventivo e combattivo.

Il sempre più diffuso uso, a volte anche burlesco, del termine “calabrese della diaspora” per identificare la conterraneità, risponde al più stretto senso antropologico del termine, in quanto è evidente, nel comportamento delle comunità calabresi fuori confine, la rispondenza al concetto di diaspora dell’antropologa Barbara Tedlock riportato nel suo scritto Diasporas (Enciclopedya of Cultural Anthropology, 1996) come la “…consapevolezza, da parte di comunità e popolazioni immigrate, di possedere (e di volere preservare) un’identità distinta da quella del luogo di residenza e legata in qualche modo al luogo di origine…”. Ciò implica la coscienza da parte dell’emigrato residente in un certo territorio di appartenere anche ad un luogo di origine lontano e diverso da quello nel quale risiede. Questa consapevolezza è riconoscibile nella necessità di aggregazione che forma le varie associazioni di calabresi emigrati ma anche nel piccolo delle riunioni familiari volte a mantenere vivi gli usi e le tradizioni, per non dimenticare e ricostruire “altrove” la cultura d’appartenenza.

Il viaggio è una costante nella calabritudine di molti letterati calabresi, pensiamo al senso del “viaggio” nella prosa e nella poetica di Corrado Alvaro e ancora a Gente in viaggio (1966) di Saverio Strati, per qualche verso vicino alla configurazione che Costabile presenta della Calabria, quando riferisce una terra la cui gente è succube di una condizione di vita emarginante alla quale si ribella con frasi smorzate e rabbia non svelata e che trasferisce nel viaggio, qualunque esso sia - di guerra, di confino, di lavoro - tutte le speranze che possano avverare un riscatto economico e sociale.

Quello verso “l’oltre” la propria terra di molti emigrati è stato in altri tempi e forse lo è ancora per le nuove migrazioni, un viaggio dove la meta è spesso intuita, conosciuta attraverso il racconto di esperienze personali altre e dunque dove tutto è da vedere, da riscontrare: un salto nel buio, un miraggio che a volte svanisce al primo impatto con una realtà territoriale nella quale spesso non è possibile integrarsi, identificarsi. Una problematica che investe le categorie di emigrazione-immigrazione di ogni tempo e che Sayad, antropologo algerino, ha esplorato, studiato e riportato nel suo scritto La doppia assenza. Dalle illusioni dell’emigrato alle sofferenze dell’immigrato, (2002),  puntando l’indice sulle condizioni di crisi che stimolano l’emigrazione (in questo caso algerina), considerata da chi parte, quasi sempre, un ripiego provvisorio che crea un’assenza momentanea dal proprio gruppo d’appartenenza – il ritorno è sempre contemplato- e giustifica e regge il disagio di adattamento nella società d’accoglienza. Ma quando la permanenza nella nuova sede, scrive Sayad “...ha una grande possibilità di diventare definitiva o di estendersi alla vita attiva...” si verifica  il paradosso emarginante del “provvisorio che dura” e intrappola l’emigrato nella doppia assenza e cioè: essere parzialmente assenti da dove si manca – la famiglia, il gruppo, la terra d’origine – e non essere del tutto presente nel luogo dove si è presenti. È quello che succede a Babe L’uomo nel labirinto (1926) di Alvaro, sperso in una città che non comprende, con la quale non riesce a comunicare, non ne capisce i comportamenti, gli odori, dove l’unica relazione umana degna di questo concetto è il saluto con una donna vicina di casa della quale non conosce nemmeno il nome. E finisce a guardare il mondo che l’ha accolto dalla finestra, in un rassegnato confronto con quello della sua origine che con esercizio quotidiano tiene sempre vivo dentro di sé: cosciente delle proprie delusioni e caparbiamente attaccato alla speranza del miracolo e della fortuna che prima o poi deve arrivare.

La caparbietà di lottare, la pazienza di aspettare, il senso di abnegazione e il talento naturale del filosofare per accettare le iniquità del proprio mondo, aspettando il messianico arrivo di un altro più equo e giusto, sono le virtù che Alvaro riconosce nei figli più grandi della Calabria (l’Abate Gioacchino da Fiore, S. Francesco di Paola, Campanella) e le riporta nell’Indole del calabrese, uno scritto che fa parte di Itinerari italiani (1967), insieme alla dedizione assoluta al consorzio familiare nel quale il calabrese di Alvaro come quello di oggi vede realizzato, nonostante tutto, il suo impegno e riconosciuta la sua dignità sociale.

La storia di tante ascensioni dalla vita popolare all’attività civile in Calabria è piena di drammi inauditi, di sacrifici e sforzi eroici.”, scrive Alvaro sempre in Itinerari italiani e continua, mettendo in rilievo come l’emigrazione “aveva rivelato che il calabrese può diventare anche un uomo moderno, attivo, intraprendente, capace di correre il mondo a suo solo rischio.”

La calabritudine di Alvaro ha fondamenta positive poste sulla convinzione che lo studio, la cultura, la conoscenza fatta anche di confronti umani e sociali “altri” sia il modo più degno per elevare e migliorare la propria condizione.

Il viaggio dell’emigrante è allora l’azzardo che serve a “spingersi nella vita”, una pulsione di coraggio, verso una “sorte” ignota fatta, anche, di quelle rinunce alle quali, il calabrese, è per sua natura abituato.

Gli antichi miti e le glorie della storia che hanno fatto “Magna” la Calabria e che Alvaro ancora riconosce nel carattere fiero della sua gente, nonostante se ne fossero appropriati, ai suoi tempi, i pochi notabili che contavano, Costabile li ritrova in quella “…fantasia degli dei…” e nell’operaio emigrato che permette a “…milioni di macchine…” di uscire “…targate Magna Grecia…”.

La sua calabritudine Costabile l’ha incarnata nel disagio del vivere come calabrese fuori dalla Calabria e straniero nella sua Calabria: una marcatura tipica di molti intellettuali meridionali fuoriusciti, che hanno da una parte la dolente consapevolezza delle proprie radici, la malattia dell’animo che i Greci chiamavano “pathos” e dall’altra, in contrapposizione, la costante tensione verso “ l’oltre “, dove più di altri essi devono dare garanzia della propria formazione e cultura per essere riconosciuti e apprezzati al di sopra della loro provenienza. Una tensione presente in tutti i calabresi della diaspora, intellettuali e non, che prendono atto della necessità di accettare le ragioni che, al di sopra di ogni affezione, spingono all’abbandono delle propria terra; ragioni che Costabile ha interpretato nei versi della poesia Noi dobbiamo deciderci

 

Ecco

io e te, Meridione

dobbiamo parlarci una volta,

ragionare davvero con calma,

da soli,

senza raccontarci fantasie

sulle nostre contrade.

Noi dobbiamo deciderci

con questo cuore troppo cantastorie.

 

Ragionare sulla possibilità d’intraprendere altre strade per risolvere le più elementari aspettative di decorosa sopravvivenza è il dettato che ad un certo punto della loro esistenza molti calabresi si sono imposti.

Ragionare e decidersi a seguire la ragione in un viaggio oltre i confini del cuore verso “La grande città”; un viaggio per il quale il biglietto da pagare è una dichiarazione di ribellione e accusa verso quella Calabria-disperazione che Costabile sente generosa e nobile ma che, sottoposta all’incuria, all’egoismo degli uomini e tormentata dalla natura, spinge verso la fuga i propri figli.

Nel Canto dei nuovi emigranti Costabile esprime, con i suoi versi incalzanti fatti di elenchi di paesi e nomi, l’esasperazione dell’andare via da un sistema sociale ingrato, generato in una terra amata e riconosciuta illustre per bellezza e storia, costruendo un quadro antropologico di grande efficacia.

Il viaggio, la fuga, rappresentano allora la ricerca di un mondo accogliente che possa guarire i mali del disagio, dell’oppressione e della delusione del vivere e sono necessari perché l’uomo calabrese possa “…Solo/ma leale/ servizievole…” sentirsi “...un po’ civile,/uguale a ogni altro uomo..”; ma per fare questo bisogna avere il coraggio di chiamare “infame” la propria terra madre e mettere in valigia accanto alla rabbia tutto quello che serve per non dimenticare l’appartenenza quando “..sentirai risuonarti/ bassitalia…”. Andare fuori della propria “casa” è un viaggio di andata sostenuto dalla certezza del ritorno; un ritorno, se non sempre fisico, di sicuro sentimentale in quanto l’emigrante di Costabile non si stacca mai definitivamente dalla sua Calabria “lunga e silenziosa” la porta dentro come una “Terra di Mezzo”  di tolkiana memoria, costruita con i ricordi sognati e immaginati e dove in La via degli ulivi Costabile sa che

 

Per altri sentieri

torneremo alla piana

celeste di ulivi.

Saremo

dove si leva

l’infanzia dei profumi;

dove l’acqua

non si fa nera

ma vacilla di luna;

dove i passi

avranno memorie di solchi

e le dita di melograni;

dove ti piace dormire

e ti piace amare.

Sono questi gli orti,

i confini per ricordarci.

 

Costabile conosce i sentimenti del calabrese emigrante ed emigrato e la conflittualità che genera la decisione di partire e scrive “Il bracciante la sera/ si guarda nella bettola/il manifesto del piroscafo/e degli uccelli bianchi./Lui e il suo cuore non vanno d’accordo.”.

Lo stesso disaccordo tra cuore e ragione che tormenta l’emigrato del romanzo Milano non esiste, di Dante Maffia. Il viaggio della ragione porta il protagonista a vivere in una città che non gli appartiene per un lavoro pagato ma non gratificante; una ragione, la sua, sottoposta ad un patto condizionato: costruire al paese la casa del suo riscatto economico dove tornare. Per scoprire poi che il suo paese, quello che con caparbietà ha conservato dentro il suo immaginario, ha lasciato il posto ad un mondo estraneo nel quale niente riesce a colmare affetti e sogni disattesi.

Ogni viaggio, anche quello non necessariamente oltremare, era per il calabrese in tempi non molto lontani un distacco biblico non voluto ma imposto dal destino e dalla malasorte che regnava nella propria terra. Egli si portava dietro una sensazione di ripudio e, rispetto a chi restava, l’onere di dimostrare che il suo andare via era la scelta giusta per sollevarsi da ogni oppressione economica e sociale. Una aspettativa di nuova ricchezza, che per contro, era pretesa dalla famiglia come risarcimento per l’abbandono.

Nella Calabria di Costabile l’uomo non si rassegna alla sua condizione di dipendenza, prima da un potere baronale, poi, da una vana promessa di rinnovamento distribuita a grandi mani dalla classe politica del dopoguerra: la promessa di quella Calabria-California che non arriva e dove ancora “Ce n’è /di di lettere di parroci/ per Roma/ di passaporti/ sogni americani.”

La sfiducia in un rinnovamento annunciato, che possa in qualche modo salvare la dignità del calabrese subalterno in patria, è forte in Costabile. Resta pertanto, per molti, la via di fuga verso altre terre dove non sempre il sogno si realizza e molto spesso bisogna fare i conti ancora una volta con un padrone da servire, pietosi marciapiedi e vetrine non accessibili da guardare e dove ancora molti emigrati emarginati restano, spesso, impastoiati e sottomessi per la loro sopravvivenza alla stessa legge “onorata” che partendo pensavano di evadere.

Fortunato Seminara, nel suo racconto Emigranti (1957), ne riporta le conseguenze di disperazione e lutto attraverso la figura di Clementina, vedova di un emigrato in America, e prende spunto per denunciare ogni tipo d’emigrazione che ha, come controparte ad un benessere economico, la dissoluzione degli affetti, lo sfruttamento e anche la morte.

Ma se si è fortunati, scrive Costabile “Di pelle scura non crescerà tuo figlio/giocherà forse a baseball,/sarà padrone di una drogheria…”, consapevoli che “… siamo/le braccia/le unghie d’Europa/il sudore Diesel./Siamo il disonore/la vergogna dei governi…” ma non da meno le braccia necessarie a far  muovere le economie industriali di molti paesi.

La calabritudine di Costabile è fatta dunque di viaggio: quello del padre, insofferente alla vita paesana, in Tunisia, risolto con la cesura delle radici familiari; l’altro viaggio, il suo non risolto, alla ricerca di una dimensione di sollievo dalle proprie angosce, non trova la meta e resta sospeso tra la nostalgia di una culla perduta e la frantumazione di sogni e aspettative promesse da un altra “sistemazione”. La dissoluzione degli affetti paterni, cercati e negati, e il fallimento dei rapporti affettivi familiari, lasciano nel poeta un segno di impotenza che lo tiene intrappolato in un mondo lacerato dalle contraddizioni, costretto a trascorrere la vita spossessato da ogni radice e ricoperto - come scrive Sayad - “... da un tappeto immobile fatto di tristezza, di angoscia e di sofferenza.”. Egli soffre il male dello “stranìato”, com’è chiamato in Calabria, colui che vaga senza meta, uno che è sempre “fuori luogo”.

Il senso dell’abbandono della propria terra e della perdita degli affetti è profondo e struggente in Costabile e li ha condensati in una poesia del ciclo Lamenti

 

Negli anonimi spazi

della città

non ho più nulla

degli anni perduti:

Ed a quest’ora

nella vecchia casa

un topo di soffitta

si nutre del cartone

d’un cavallo a dondolo.

 

Egli sente il disagio che proviene dalla perdita irrimediabile di un mondo giovanile; simile a quello che prova l’emigrato per il paese, ormai lontano, nel tempo e nella distanza, del quale egli vecchio ma con “...l’orologio d’oro,” nescorderà “...i vicoli bevendo birra a Daisy Street.”

L’integrazione dell’immigrato nel territorio d’accoglienza comporta un allontanamento psicologico, non del tutto risolto, dal suo luogo di provenienza.

La perdita di contatti esclude dai mutamenti che avvengono nel territorio originario e si viene a creare, a volte, quella figura di emigrato – tanto comune nei tempi passati - la cui percezione della parentela e dei paesani lasciati era sempre quella di esseri bisognosi e reietti, per la cui sopravvivenza era doveroso contribuire con l’invio di soldi o altri doni non sempre adeguati. La rincorsa di una stabilità economica e produttiva capace di risolvere i problemi di sopravvivenza in Calabria non ha mai raggiunto il suo obiettivo e resta fino ad oggi uno dei punti di sofferenza per i suoi residenti. Questa precarietà non intacca però il senso di dignità e orgoglio d’appartenenza che contraddistingue il calabrese e che Costabile in Ultima uva trasferisce nel rimprovero di quella Calabria-madre sfruttata che “…ha veduto i suoi figli …,/ partire da emigranti,/ ...” e chiede loro ”…così lontani/ma del suo stesso sangue/della sua stessa razza accanita…” di non essere mortificata “…con quel dollaro spaccone/in una busta/con quel pacco di vestiti usati…” e soprattutto che la smettano di tormentarla con le nostalgie.

Costabile la sua nostalgia la raccoglie e la sistema nella poesia La rosa nel bicchiere offrendo un affresco reale della Calabria dei suoi tempi con i colori, le dolcezze del paesaggio e i traumi sociali che l’affliggono; traumi ai quali sembra aprire uno spiraglio di sollievo e speranza con “…Un arancio/il tuo cuore,/succo d’aurora…”, annullato poi antiteticamente in quella “rosa nel bicchiere”, un fiore reciso che per natura subisce una violenza ed è destinato a morire e, nonostante appena colto abbia ancora apparenza di fragranza e freschezza, l’acqua del bicchiere non sarà sufficiente a fermare il suo processo di putrefazione e morte.

Si può azzardare che quella rosa nel bicchiere sia lo stesso Costabile intrappolato in quel “provvisorio che dura” della vita fino a quando errante “...con passo/da soldato sconfitto” e stranìato sa che è giunto il momento di dire “Addio, terra./Salutiamoci, è ora.”

Facendo suo l’Epitaffio di quell’emigrante che

Aveva

Una vigna

In collina

Ma

È morto

A Milwaukee

Non qui.

 

 

 


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