Paul Klee, Paesaggio con uccelli gialli, 1923
C’era un merlo, o così mi pareva, anche se era marrone chiaro,
mentre salivo in macchina. Avevo parcheggiato di fronte al chiosco
dove andiamo tutte le estati, con la mia solita fortuna
dell’ "unico buco libero" rimasto che ti fa sorridere.
Questa particolare coincidenza tra me e uno spazio vuoto
la interpreto come una concessione che mi viene da un altrove
di cui non conosco origine o collocazione - ma che ringrazio.
Anche questo tu sai di me, anche se non te l’ho mai detto.
Ma avevo prenotato per noi fin dal giorno prima
quel tavolo d’angolo libero nel vento,
sul soppalco in legno che ricorda un teatro, con un’aria
da cospiratrice che mi fa sentire ridicola, ma non più di tutto il resto.
Così ti guardavo mentre eri sempre quello di tanti e tanti anni
riuniti apparentemente in una sola immagine sfumata,
cercando di far prevalere l’attimo del sorso o del boccone
sulla confusa pena di saperti non più quello, pur restando.
E così i fiori rossi del vaso accanto a noi, oscillando
non sono mai più quei fiori, ma altro,
e il mare che lo scirocco ricopre di velature bianche -
so le creste sul mare essere sé stesse pur mutando -
così che lo sguardo che contempla è stanco.
C’era quel merlo, ti dicevo, quando abbiamo lasciato il tavolo
più leggeri nell’attesa di essere stati ancora altro -
saperlo è riconciliarsi con un non tempo.
Saltellava tra il marciapiede e il bordo dell’erba.
I suoi occhi colmi di nero mi hanno vista,
ne sono certa, in un largo senza pena o rimpianto.
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