Scrive la Prefatrice al testo, Katia Debora Melis: “L’autrice percorre, scandagliandole, frammentarie tessere di mosaico scomposto, attraverso le vicende delle protagoniste, tutte le età della vita, movendosi disinvoltamente tra i mutamenti del corpo e della coscienza, deus ex machina che tutto può e sa, rivalsa su ogni non senso e banalità o illusoria normalità”.
Questa asserzione, presa alla lettera, appare come un’affermazione di “senso comune”. In verità ciò non è possibile. Un percorso esistenziale non si può ripercorrere. È dato una volta e basta. Si vive una sola volta.
In verità – a ben considerare – si percorre soltanto il linguaggio di un certo tempo della vita. Cioè quel che è rimasto, più o meno vivo, nel nostro pensiero (più o meno profondo) come linguaggio.
Non è un caso che la psicanalisi – scienza e prassi del nostro ripercorrere il passato – sia fondata, appunto, sul linguaggio. Freud insegna. Tu, Bianca Mannu, l’hai capito benissimo, e l’hai posto a fondamento del tuo narrare di una “materia di orme cancellate” (P: Bigongiari)
Il narrare (o ricordare) è un ripercorrere in assenza (come tu sai bene). E ciò si compie attraverso uno o più codici (verbale, musicale, figurativo, ecc. a predilezione) che l’uomo utilizza o può utilizzare. Quindi non si ripercorrono le età della vita. Si ripercorrono – o si inventano i linguaggi della vita. Quando si è fortunati. Altro non si può.
E tu, per quanto posso capire – l’ hai ben chiaro – consapevolmente – nel corso della tua scrittura.
Per esempio, il contrasto fra l’io e il mondo è, in realtà, tra il tuo linguaggio (di Fiela, poniamo) e quello del dottor Erdas,(come altro nel tuo). È il linguaggio che evoca e crea. E fa pur sì che le vicende siano fantasmi di luce, vita di parole. E il linguaggio è il mare magnum in cui e con cui vive il nostro essere, si crea, si manifesta. Non a caso, consapevolmente o no, il linguaggio ti permette di ritrovare ciò che quell’essere è stato nei vari periodi della vita, e mentre l’essere stesso si formava e si appropriava o forgiava il suo linguaggio, che è l’unica cosa che può registrare quel che si è e/o si diventa.
L’essere reale del vivente è sempre il corpo e, con esso, il linguaggio che permette di essere e sussistere, di mutare o no. E tu lo sai meglio di me, come dimostra quest’operetta. E di tale consapevolezza ti sei servita per raccontare, rappreentare – o anche semplicemente ricordare – quel passare, nel corso della vita, da una fase all’altra.
Più si è “bravi “ nel servirsi della propria lingua in ogni fase, più sarà reale, credibile, il nostro esser, linguisticamente, “veri”. E tu, mi pare, lo hai capito perfettamente. E potrei aggiungere che è proprio “questo” linguaggio che può consentire, in una certa misura, la comprensione di soggettività differenti e all’apparenza opposte. Il linguaggio (in questo caso la parola) rivela ciò che l’evidenza fisica come tale cela o svia o confonde; la parola chiama e fa sussistere l’incorporeo annidato nella nostra fluida corporeità.
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