Pubblicato il 03/10/2009 17:11:15
Non lo facevo più da quando avevo nove anni. Era rimasto un pensiero affondato nei ricordi come una caramella avvolta in un sacchetto al profumo di frutta e liquirizia. Il medico ha parlato chiaro:per guarire dalla mia “malattia”, occorre ripercorrere le tracce del passato e riconnettersi con l'infanzia, ritrovare memorie rimosse e prendersi cura del bambino che è in noi. Entro nell'androne buio di quest'albergo inospitale e il tanfo di muffa e grasso di macchina si sovrappone alle percezioni olfattive del mio corpo che da mesi mi ossessionano. Riconosco il corrimano della scala elicoidale e ricostruisco mentalmente il sonoro di una scena di gemiti e subito dopo di urla lontane in un coro tragico proveniente dall’attico. E il suono di una sirena che spalanca le porte di una serenità domestica, relegando in un angolo buio la mia infanzia e la dimora avita, per sempre, ad usurai. Ero molto legata a mia nonna, la sua casa aveva rappresentato per un decennio un porto sicuro per tutti i suoi otto figli e i venti nipoti che spesso tutti insieme allietavano la sua tavola. Tra i vapori della cucina e l’odore del pane fresco appena sfornato, il nonno riusciva a mantenere un burbero silenzio tra gli esuberanti nipoti e le querule figlie ma mai era riuscito a sottrarsi al sorriso di quella dolce e paziente moglie. Ed ecco riaffiorare nitido un altro ricordo olfattivo, una ghiotta pietanza che avevo dimenticato e che mi conduceva con immediatezza nei boschi della foresta umbra: le fettuccine al tartufo e funghi nella cui preparazione c’era più che un contributo infantile, visto che collaboravo fattivamente alla raccolta della materia prima, accettando di buon grado le dure sveglie alle prime luci dell’alba. Erano magiche quelle levate, tra le lenzuola dei nonni profumate di lavanda e tabacco, ristorate subito dopo dalle sensazioni stimolate dalla nebbia e dai colori del bosco ancora dormiente. E al ritorno, sul marciapiede del corso principale, in prossimità del portone della casa padronale, c’era sempre un ragazzotto che mi porgeva un mazzetto di gerani selvatici e un foglio di giornale pieno di semini di lupino, sotto lo sguardo poco compiacente di mio nonno, seguito dal ruvido commento a proposito della mia giovane età. Il giovanotto dei fiori era il mio primo spasimante. La nonna mi aspettava nel suo vestito a fiori bianchi e blu e la collana di perle, pronta per andare alla messa ed ero felice di accompagnarla insieme alle sue amiche, disposta a condividere le chiacchiere, nel torpore del sonno. Lo stesso torpore, luogo non luogo di totale annullamento delle sensazioni, che mi accolse all’arrivo della barella, quel pomeriggio, in quell’androne che sapeva di fumo di pipa e di sughi buoni, di beatitudine e di armonia. La radio trasmetteva la notizia della morte di papa Giovanni XXIII e forse non fu solo una fantasia infantile l’immagine del papa buono mano per mano con mia nonna in volo verso il paradiso. Paradise, il nome di questo albergo pidocchioso in cui mi addentro ora per dare un nome alla mia ossessione: questa mattina ho avuto l’impressione che la mia pelle morta, nonostante la ricca doccia e l’aspersione esagerata di profumo, emanasse un odore anche peggiore del solito. Porcherie maleodoranti si insinuano sotto pelle, senza che possa farci nulla. Solo io ne avverto la sensazione sgradevole, sono stata contaminata in qualche modo ma nessun medico è interessato a curare le malattie non visibili né riconoscibili, malattie…orfane, così le chiamano i testi scientifici. Forse è plausibile che siano le mie narici le responsabili di ingannevoli percezioni ma perchè solo su di me? Inizio a salire gli scalcagnati gradini e il senso di rancido e di vecchio sembra come scollarsi dalle pareti fino a cadere ai miei piedi, sotto forma di fuliggine e poi di cenere e polvere bianca e un colpo di vento, infilatosi all’improvviso attraverso il portone e per la tromba delle scale, spazza via in un vortice il tanfo estraneo alla memoria di questa amata casa. Mi annuso, istintivamente, il mio odore è sempre lì! Maledico il mio medico, ma del resto, cosa mi aspettavo? Un miracolo? Non mi sono rivolta mica ad un mago o un santone. Inforco la bici e mi immergo nel traffico cittadino ma già al primo semaforo, ho una prima sensazione di “riappropriazione”: c’è una bancarella, all’angolo della strada che vende lupini, castagne, frutta secca e…funghi. Mi fermo inaspettatamente per acquistare un cartoccio di frutta secca e un chilo di cardoncelli e mi riavvio pedalando con il naso colmo di profumi della terra. Marco mi aspetta a casa per pranzo, spero che non abbia cucinato la solita orata all’acqua pazza. Mi accoglie invece un’ondata di vapori di incenso indiano e una fitta nebbia comincia a diradarsi attraverso il corridoio fino alla stanza da bagno. “ Amore, ti ho preparato un bel bagno con dei sali al sandalo che mi ha consigliato l’erborista”. Poso sul tavolo gli involucri della spesa e per la prima volta dopo mesi lo abbraccio senza esitazione, e soprattutto senza chiedergli rassicurazione sull’odore della mia pelle. Lo spingo con risolutezza verso la cucina e mentre lavo con cura i funghi, rispondo alle sue domande sull’esito del mio “esperimento”.
“Senti quest’odore di terra? Ecco, il mio profumo è lì, lo avevo perso, e nei pori della sua assenza avevano preso posto tutte le scorie degli altri, che non mi appartengono e che non posso riconoscere che sotto forma di cattivo odore. Ho ritrovato le mie radici, Marco, sono guarita, senti come profuma la mia pelle”.
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