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Il muschio grigio arde

Romanzo

Thor Vilhjamsson
Iperborea

Recensione di Nicola Lo Bianco
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Pubblicato il 31/05/2011 12:00:00

“Il muschio grigio arde”: un’immagine paradossale, discordante, il muschio tra acque e geli che cova lingue di fuoco, sopra e sotto la terra, fuochi interiori tra vasti silenzi e penetranti solitudini, un simbolo dell’Islanda, quest’isola favolosa, ai confini col circolo polare artico, così lontana ai nostri occhi.

Così vicina in questo poliedrico romanzo di Thor Vilhjàlmsson che assurge a metafora della vita.

Ciò che muove e trama la narrazione è lo “scandalo”: un caso di incesto, un fratello ed una sorella, Saemundur e Solveig, due giovani derelitti, figli della stessa madre, che casualmente si ritrovano e scoprono di amarsi in una passione irrefrenabile, che sfocia nell’infanticidio e nel suicidio di Solveig.

Asmundur, giovane magistrato e poeta, è chiamato a giudicare il crimine, a intraprendere, ed è la prima volta, una missione di giustizia, alla quale è riluttante, perché la sente come una missione odiosa, un cuneo che si infigge tra le sue due nature: quella del dovere, dell’inflessibilità della legge, ereditata dal padre, anch’egli giudice, e quella del poeta con il dovere di capire tutto ciò che si affanna a vivere.

E’ l’inizio di un lungo viaggio, a cavallo (siamo nell’Ottocento) ed in compagnia del fedele consigliere Thòrdur, fino agli estremi confini del mondo, attraverso un paesaggio rude, monotono all’apparenza e arido, per chi non sa guardare, ma interlocutorio, magico, vivificante, per chi vi sa scoprire i segni arcani della presenza di tutto un popolo, per chi vi sa ascoltare le voci fascinose e catturanti delle antiche saghe, dei racconti popolari, degli eroi leggendari, fantasmi del passato che si intrecciano, in una sorta di muto dialogo, alle figure dei viandanti.

Il viaggio, perciò, si configura come una “trasmigrazione dell’anima”: dal teatro della vita cittadina con le sue baldorie e dissolutezze, all’ascoltazione di se stesso e della natura; dalla “civiltà”, apparenza e nevrosi, agli archetipi della vita che fondano il senso e il destino degli uomini: l’amore, la morte, la sfida quotidiana per non soccombere, la giustizia, umana e divina, in un crogiuolo di irriducibili passioni che conducono ad una perenne verità, a costatare cioè che la vita è crudeltà: …La ferocia, ovunque c’è ferocia. Vale per tutto. Non puoi negare che la ferocia sia una forza al servizio della vita. Non puoi.

Quella legge, che Asmundur giudice è incaricato di applicare per il benessere degli uomini, si rivela monca, meschina, lascia un ampio margine di ingiustizia, pone ad Asmundur poeta un interrogativo anch’esso crudele: come conciliare il giudice con il poeta?

Non c’è risposta, naturalmente, perché la vita non include tagli netti, ma l’immagine e le parole che chiudono il romanzo si offrono con un forte valore simbolico.

Abbandonata la missione, deciso a partire, alla stazione, di notte, solo, viene aggredito da un energumeno con il coltello tra le mani, che vuole i soldi, i soldi; Asmundur riesce ad atterrarlo ed a metterlo in fuga con un urlo che risuonò nel vuoto…Il poeta rimase con le braccia in aria, le dita aperte verso il cielo, e il suo urlo esplose nella notte.

E’ l’eco dell’urlo lacerante di Solveig, la sorella amante, nell’atto di togliersi la vita, di gridare a Dio e al mondo il diritto alla vita e all’amore, contro la falsa giustizia che non sa indagare il bene e il male, che si accanisce sui diseredati (adolescente era stata, ripetutamente e impunemente, violentata dal padrone).

Il poeta, non il giudice, può raccogliere, raccoglie, quest’urlo, lo fa suo, e lo trasmette come un potente incantesimo, capace di ricacciare l’incubo…nella sua oscurità e nel suo vuoto.

L’urlo finale di Asmundur poeta è anche la chiave interpretativa della scelta narrativa e stilistica di questo che riduttivamente si potrebbe definire romanzo.

E’ piuttosto un’opera di poesia, una prosa lirica che si specchia nella tradizione delle saghe islandesi, e Asmundur, nel suo peregrinare, è lo “skald”, il cantore, moderno e al tempo stesso antico, capace di far risorgere, vive e presenti, quelle voci che legano indissolubilmente l’uomo alla sua terra.

Non a caso la narrazione, con i suoi periodi brevi, con l’uso estensivo del discorso indiretto libero, mima l’andamento strofico, il ritmo da épos, richiama nomi, luoghi ed episodi dell’epopea skaldica.

L’impianto narrativo epico non esclude, tuttavia, ed è l’impronta di una letteratura modernissima, una scrittura trasparente, limpida, una stupefacente abilità descrittiva, attenta ai particolari, ai colori, ai mutamenti anche minimi  del paesaggio, sicché alla fine il profilo paesaggistico si offre alla nostra immaginazione come un grande affresco pittorico, un vivido splendente mosaico, un assoluto, che si innalza come a compensare le ineluttabili storture della storia.

Questa compenetrazione di antico e moderno, gli atti di violenza che aprono e chiudono il racconto, in una sorta di circolarità degli eventi, sono anche il segno di una dimensione atemporale, di un tempo circolare, dal quale storicamente non si esce, se non con la sublimazione del canto del poeta.



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