Anche dei giganti che non poggiano su piedi d'argilla possono avere periodi in cui avanzano con difficoltà. Sta succedendo a due colossi come McDonald's e CocaCola. La più grande catena di fast food del mondo ha visto il valore delle sue azioni scendere di circa il 2% dall'inizio di quest'anno; calo simile ha riguardato le vendite di bottiglie e lattine di CocaCola nel corso del 2013, un trend che non cambia da nove anni. Cosa succede? Il Wall Street Journal , che alla défaillance di McDonald ha dedicato un lungo articolo, lo attribuisce a un cambio epocale nelle abitudini alimentari dei ventenni e trentenni di oggi. Con un ragionamento applicabile anche alla CocaCola. Perché la debolezza di entrambe le multinazionali passa per un concetto: il salutismo.
È passata la sbronza edonista dei baby boomers, quei nati tra fine anni '40 e inizio anni '60, abituati ad avere tutto e subito, quelli per cui hamburger e Coca Cola erano sintomi di una vita facile, gustosa e appagante. Quella stagione è durata fino agli anni '80, ora è tramontata. I Millennials , quelli che tra il 1980 e l'inizio del nuovo millennio sono nati, sono cresciuti bombardati da tv e riviste che spiegano che siamo quello che mangiamo. In un doppio senso: il modo in cui ci alimentiamo incide sulla nostra immagine, e ne è anche manifestazione. E allora ecco che il panino con l'hamburger, le patatine e la CocaCola non sono più cool , in pausa pranzo si beve il centrifugato, si cerca il bistrot «macrobiotico», o almeno «biologico», si fanno cene tra vegani dove il vegetariano è già un po' sopra le righe. Bisogna essere come i Beckham, mica come i Robinson.
McDonald ha subito più contraccolpi da questo lento cambiamento culturale che dalla psicosi da mucca pazza, e il recente «embargo» russo - Mosca ha risposto alle sanzioni occidentali per la crisi in Ucraina facendo chiudere alcuni ristoranti nei suoi confini, adducendo «motivazioni sanitarie» - è solo un bruscolino nell'occhio. Hai voglia a inserire nel menu insalate, panini con ingredienti mediterranei e Made in Italy, persino il vecchio piatto di pastasciutta: è inutile, nel nostro immaginario McDonald's uguale junk food . E la stessa convinzione vale ancora di più per la CocaCola, la bevanda la cui formula rimane segreta ma quello che è certo è che è piena di zuccheri, così come quella dietetica contiene l'aspartame. A poco è servito il lancio - un anno fa nel mercato sudamericano, ma dovrebbe arrivare proprio in questi giorni anche in Europa - della versione «Life»: etichetta verde (che vuol dire: «sano») e una pubblicità (bella e furba, infatti ha già fatto il giro del mondo) che sottolinea che la bevanda, a metà strada tra la versione classica e quella «zero», è fatta con dolcificanti naturali.
La nuova versione conterrà una quantità di zucchero tre volte inferiore alla versione tradizionale. Un'idea per fronteggiare il grande tallone d'achille del regno delle bevande gassate, di cui CocaCola è sovrana: favoriscono obesità e diabete, due problemi che negli Stati Uniti sono assai sensibili, e che da oltre un decennio il Center for science in the public interest denuncia, puntando il dito proprio contro CocaCola.
Sul simbolo si fondava un'altra campagna dell'azienda che ha avuto successo, perché ha fatto tanto parlare (anche male, ma nel marketing vale il vecchio motto del «bene o male, purché se ne parli»): la lattina con il proprio nome, nel classico carattere bianco su fondo rosso. La trovata ha spopolato, negli Usa come in Europa.
Ma non basta un prodotto nuovo, non bastano brillanti campagne, per cambiare una convinzione consolidata. E forse persino fondata, se è vero, come ha scritto il settimanale Bloomberg Businessweek, che persino Sandy Douglas, il presidente di CocaCola North America, beve una sola bottiglia al giorno, da 33 cl. Se per caso gli capita di berne un'altra, allora sarà una «zero», in modo da non esagerare con le calorie.
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