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Il Re cremato

di Stefano Ficagna
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Pubblicato il 18/05/2018 18:50:45

Nessun uomo è un’isola, ma io sono il mare. Immenso, delirante e quieto, il vuoto ultimo e la pienezza del tutto. Quando mi sono perso, qui? Mi sono smarrito? Non ricordo, la mente vaga e non c’è voce amica che abbia più cercato di riportarmi alla terra da tanto, troppo tempo. Per restar fermo dovrei ancorarmi talmente in basso, nelle stigee profondità abissali, che non mi basta l’ossigeno nei polmoni per respirare il coraggio necessario. Chiederei le branchie ai pesci ma loro, muti, mi insegnano la rassegnazione, la legge del branco che segue la corrente, l’ineluttabile destino a cui mi porta l’immane piovra degli abissi: brancicandomi, stringendomi, contorcendo la mia volontà al punto che ne temo il tocco.
Ella sa dove andrò, al contrario di me. Io ignoro i momenti futuri, e lascio quelli passati perché ella possa pasteggiare con ciò che ero per vomitare ciò che sarò, un atto tanto iniquo che non m’è di consolazione viver nella pienezza dell’adesso. Ma la piovra sa, riconosce questo mio tremore al cospetto della sua natura: mi blandisce allora con illusioni, portando a me altri che hanno smarrito la via, che non sono più, affinché possa anche io nutrirmi e renderla più gonfia, molliccia, vasta nel suo tentacolare aggrapparsi ad ogni cosa conosciuta. Ella si concretizza nel suo essere e non nell’apparire, astratta e concreta si fonde con la spuma delle onde di quell’acqua che è come liquido amniotico, in cui sono nato e ritorno, cullato e respinto da racconti intellegibili che mi arrivano come sensazioni, estrema sinestesi che confonde tutto per renderlo chiaro. E’ questo caleidoscopio di sensazioni terribili e beatifiche la mia nuova casa, che dimora non è.
Una zattera nera, pezzi di legno anneriti legati insieme solo da una volontà che sfida il vento e le maree, ecco il mio pasto di oggi. La cenere vortica attorno ad essa, rimembrando l’incenso di antichi riti ed attimi puri, momenti in cui seguire volontariamente sembrava un sentiero meno torbido delle acque da cui mi lascio ora trasportare: momenti in cui avere un sé era un lusso che potevo concedermi pienamente, mentre ora che bramo un trasporto meno ansioso non riesco a disciogliermi nelle acque senza che queste si infettino. Respiro, alla ricerca di purezza, quel pulviscolo che rotea attorno alla zattera, ma non vi trovo che un’immagine di Dio, terrea più che terrena, esangue per lo sforzo d’apparire enorme come una volta era, gonfia di mille cuori e cervelli che si rivelano illusori quanto la sua esistenza attuale: ora, al culmine e termine del proprio viaggio, deve ammettere che tutto quel liquido scarlatto si è disperso per alimentare non arti ed organi, ma solo un misero ego. E odo, tanto con le orecchie che con l’epidermide, attraverso il canto delle onde come tramite l’odore della salsedine, avvicinandomi ad un fuoco che ruggisce attraverso la rappresentazione della sua furia carbonizzante, la storia di un Re.
I tentacoli della piovra sanno arrivare sulla terraferma, attraversano pozzanghere e liquidi organici, torcono dall’interno ogni ridicolo automa sperso in orizzonti dai colori sempre cangianti. Ella fa sì che qualcuno sia terrore ed altri succubi della sua malia, non lascia spazio che a poche menti sfuggenti di intravedere l’illusione di ruoli roteanti quanto l’acqua in un tifone, mentre vittime e carnefici agiscono senza capire se il regnante goda o soffra del suo potere e della sua responsabilità. I tentacoli fanno sì che un piccolo virgulto venga guidato più dal dovere che dall’amore, che si avvinghi per crescere a rami tanto storti e nodosi, intrecciati malignamente in foggia di trappola, che corrompa la sua natura torcendosi in una tagliola d’emozioni rinnovante il dolore a piè sospinto: sfiancato, non gli rimane che quell’acqua stagnante e mefitica, in cui la piovra immonda si palesa, per trovare nutrimento. Ma è un liquido velenoso quello, dal quale ricava forza solo annegandovi i cuori di cui finge di curarsi, incapace d’esser cerusico con mani tremolanti ormai distorte in orribili artigli retrattili: armi improprie dotate di volontà propria, cosicché l’anima si quieti nell’ignoranza della sua corporalità. Alle porte del giovane, ormai infetto, si affollano infermi dello spirito, pazienti in attesa di una panacea tanto irreale da necessitare un abbandono completo di sé per potervi confidare. Essi vivono negli abissi di una volontà meschina, illusi che la soluzione sia in mano ad anime terrorizzate quanto le loro ma, in maniera simile ed opposta, troppo pressate dagli strati d’acqua del proprio destino per potersi scrollare e tornare a galla, per sfuggire ai tentacoli ed alle loro promesse.
Giustizia, onori, responsabilità, ricchezza, lealtà, guerra, le lusinghe si confondono coi patemi dell’animo mentre il giovane Re cresce e disseziona la marea umana alla ricerca dell’amore che ancora brama, di ciò che gli è stato negato in nome di un obiettivo scintillante. Egli nutre il suo branco blandendolo e scagliando l’arpione altrove, laddove vede balene, squali e piranha farsi incontro, minacciando un regno che egli non vede essere una ben misera palude. Ai suoi occhi, come nelle fiabe, si stagliano i castelli dorati dove immagina le genti acclamarlo signore, protettore, Dio persino, e perso in queste fantasie non s’avvede degli angoli bui dove qualcuno mormora, congiura affinché si ripeta la storia secondo capricciose trame tentacolari: ‘Ricordati, Cesare, che anche tu sei mortale.’
E’ quando il sogno si spezza che al Re si mostrano gli arpioni scagliati per quello che sono, brani di carne squassata che cozzano laddove il suono non dovrebbe disturbare le orecchie, sacrifici ben poco dionisiaci innalzati per un ideale che non li vale. Ma il ribollire del sangue ai confini del regno non lo getta nella realtà, lo confonde vieppiù, e roteando gli occhi attorno a sé vede che le balene, gli squali ed i piranha sono ovunque, non capisce l’errore di aver scambiato i propri figli per armi, l’istinto di protezione con la frenesia di una carneficina che sa di primordiale. Ora il Re si scaglia ovunque, cieco, con corde tese per appendere a marcire coloro che ritiene ormai avariati, solo perché non ha usato ghiaccio per conservare ma per farsi freddo, arido e spoglio dentro. Ormai si spezza lentamente l’immagine cristallizzata della creatura con mille cuori e mille cervelli che voleva essere, che doveva essere, e mentre si frange il suo spirito egli cerca dentro di sé almeno i propri organi, mostrandoli palpitanti e viscidi ed immondi, per impietosire le folla che lo assedia al di fuori delle fredde mura della sua fortezza: ma quelli, in un oasi di lucidità, vedono solo uno squamoso ed orrido tritone, non il tridente nella mano ma la forca.
Ed arrivano, infine, come quegli infidi tentacoli che hanno ordito tutto, le mani scivolose, le voci litanianti infamanti accuse, la giustizia del branco che elegge una nuova guida. Destinano all’oblio quella vecchia, affinché si perdano negli abissi del tempo gli errori e gli orrori invece di farne tesoro, nascosti in una grotta sotterranea dove possono esser solo rimirati come ninnoli preziosi, per quanto stillanti sangue, in quanto stillanti sangue! Ma è una marea di desolazione e dimenticanza questa ennesima ribellione, pregna solo della volontà di purificare col fuoco quel virgulto ormai avvizzito in ironica e scempia parodia di pianta, affidandolo alle correnti vincolato da funi e dal proprio destino, stretto ad un palo che, questo sì ritto e torreggiante, arde finché non si consuma e lo consuma. Ed ecco ciò che ha resistito, folle reminescenza che non vuole essere dimenticata prima dell’ultimo atto, che mi si pone di fronte non per un giudizio ma solo perché io possa, afferrandola e divorandola, nutrire a mia volta l’immonda piovra.
“Costretto a vagare per mare, come essenza di una mancanza. Sei niente, sei un ricordo, sei l’ultima memoria di te stesso al mondo. E ti racconti alle onde.”
Così parlo, in una lingua inesistente, composta di suoni primordiali intessuti in un etereo vocabolario intriso di pace. Quindi mi getto su di esso, bramoso, e lo assorbo spandendolo nell’aria: lo invidio, mentre mi nutro, giacché non è più schiavo ma abitante di un mondo ove nulla è tutto.

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