La mia follia porta il tuo nome,
e ho una sola occasione per guarire.
Questa occasione si chiama
distanza: è una roccia issata
al comando di un'antica
ciurma, lisca di nave al
guinzaglio, bestia dal fasciame
asciutto, convessa lingua di
ruminante in apnea.
La mia cura sta in cima
a questo orrido gigante:
occorrono giorni e giorni
di degenza, un'incisione
spropositata quanto l'urlo
delle gambe dopo l'esplusione.
Ecco il piagnucoloso e viscido
fagotto! Nocciolo/ frutto
di una spinta, il colpo in
canna maturato nove mesi,
meglio di un fagiolo nel baccello
arrotondato, lo sputo trionfo
di una grassa fava.
L'infermeria è più o meno
a metà strada: più su stanno
suture e sverminanti.
Credevi fosse una gita
visitarmi, retrocedere con
il piglio distaccato di un'ispezione.
Ma io trattengo indizi!
Colleziono, e tengo la mia parte.
Adesso mi vorresti sana, invece
starnutisco: quando ero ancora
intera, invocavi il taglio.
Il sangue che ti dono
è un pachidermico architrave.
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