I
E poi dovresti procurarmi luce,
dare nome alle cose e praticare
il nonostante, farmi dove.
Che si recida il verso, la poesia
tutta e quasi ogni scrittura.
Cadano i simboli e i templi;
che anche la croce sanguini
sulla pelle sbiadita di Cristo!
E invece mi lasci bruciare le falene,
dismettere l'animo, possedere
muti forse e due identità circa.
Preghiera: così lo dicono
oggi il canto, il miserere
e perfino l'ombra tua lontana
oppure qui; ma sai mi taccio.
II
Questi versi che non sanno mi tramandi
e la parola in precipizio non risponde
a nome alcuno o vanità di suono.
Il misfatto della sillaba, la tragedia
dell'accento e il canticchiare
assorto della strofa;
lasciate che la voce vi disabiti
e la terzina sia sospesa tra il parlato
e l'antico profanare della lingua.
Mi rimetto al disaccordo sulla nostra
caducità che si dissemina, l'aspersione
dell'abisso e del delirio. Dove luce
lieve lieve e demoniaca ti assopisci,
mi è straniero l'edificio della norma
e più non sono: arranco altrove.
III
Andai infine disponendo luce
come potevo in questa lingua
dare somma al colore, o conferire
lecito assentarsi alla pupilla?
E poi a queste mura venne l'alba,
l'abisso mi corrose, e dopo il forse.
Lasciai al solo canto il precipizio
e Bisanzio apparve in sogno sprofondando.
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