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Tutte le volte che è andata male

di Stefano Ficagna
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Pubblicato il 13/02/2018 21:05:02

Sta di fronte alla finestra, intento in una conversazione al cellulare. Guarda fuori ma senza attenzione, ogni tanto fa rapidi cenni di assenso seguiti da mugolii indistinti. Lancia una sola occhiata all’interno, aprendosi in un sorriso quando vede lei che lo osserva.

“Farò un altro tentativo” dice al suo interlocutore prima di interrompere la chiamata, raggiungendo il centro della stanza.

Stanno uno di fronte all’altra ora, avvolti dalla luce del sole che tramonta. Lui è in ginocchio, gli occhi che ne cercano lo sguardo. Lei, diafana nel suo morbido caschetto di capelli biondi, è seduta su una sedia, le mani appoggiate in grembo, la testa reclinata verso il basso. La sua bocca è una striscia orizzontale che solca la parte inferiore del viso, inespressiva.

“Ricordi il weekend che ti ho convinto a passare insieme, vero?” dice lui sorridendo.

“Sì”. Quello di lei è un mormorio indistinto, ma per un attimo gli occhi sembrano voler incontrare i suoi. E’ solo un guizzo, presto tornano a concentrarsi sulle ginocchia.

“Ci siamo incontrati alla stazione, confondendo i binari. Ne abbiamo riso per qualche minuto di quel non riuscire a trovarci in un luogo così semplice, tu sembravi imbarazzata ma ti sei sciolta in fretta”.

“Non sapevo come comportarmi. Non ero sicura che noi…”. Si ferma, lasciando sospesa la frase.

“Abbiamo girato un po’ per il centro, ricordi? La piazza della città ti piaceva così tanto, c’eri già stata ma per te era sempre come vederla la prima volta. La torre del castello, la giostra antiquata nel centro, ti ho chiesto se volevi salire sul cavalluccio bianco e ti sei messa a ridere”.

L’ombra di un sorriso si delinea sul suo viso. “Il cavallo di un principe”, commenta guardandolo per la prima volta. 

“Ti ho baciata la prima volta sugli scalini del teatro, dopo che la folla si era dispersa. Siamo andati a vedere l’Enrico IV, sapevo che Pirandello ti piaceva molto. Avevamo prenotato all’ultimo, i posti erano scomodi e si vedeva male ma noi eravamo contenti comunque. E’ stata quella tua allegria, alla fine della rappresentazione, che mi ha convinto a baciarti”.

“E’ stato bello. E’ stato romantico”.

Lui le prende le mani. Rabbrividisce visibilmente nel farlo, nel portarsele alle labbra sembra quasi nascondere un’espressione di dolore: quando rialza il volto il sorriso è tornato, ineffabile.

“Poi” continua “siamo tornati in centro. C’era una manifestazione del movimento studentesco, le strade vicino all’università erano piene di gente. Suonavano in mezzo ad una via, ma noi volevamo un posto tranquillo dove parlare. Ricordi il pub dove ci siamo infilati? Speravamo di trovare un tavolo, ma siamo finiti a bere birra in piedi all’aperto”.

“Ricordo” dice lei, ma con gli occhi svicola. “La birra non mi era piaciuta”.

“Lo so. Hai dovuto prendere una media, anche se non la volevi. Lì la piccola non c’era, perché…”. Le gira il viso con una mano, delicatamente.

“Perché la piccola…”

“Sì?”

Lei sorride, ora apertamente. “La piccola è immorale”.

“La piccola è immorale” ripete lui. Il suo sorriso si incrina un poco solo quando lei abbassa gli occhi, improvvisamente pensierosa.

“E’ stata una bella serata. Una bella notte. Ma al mattino…”

Lui la incalza, non le lascia tempo per riflettere. “Al mattino ci siamo svegliati coi treni. Io sono scivolato con la lingua fra le tue labbra, poi sono sceso ad incontrare le altre labbra. Mentre mi stringevi la testa fra le cosce ho pensato che sarei morto volentieri così, poi ho alzato la testa e ti ho guardato negli occhi. E ho pensato che sarei potuto morire anche così”. Le mani di lei si stringono un po’ attorno alle sue.

“E’ stato un bel risveglio”.

“Poi abbiamo fatto colazione, velocemente. Non potevamo rimanere molto in città, e tu volevi fare un po’ di shopping. Conoscevi un posto dove vendevano occhiali da sole vintage, ne volevi un paio che ti incorniciassero il volto come fossi una diva”.

Ride. “Ne avrò provato venti tipi diversi. Pensavo che ti saresti arrabbiato a furia di aspettare”.

Lui scuote la testa. “Mi affascinava vedere come eri bella ogni volta in modo diverso”.

"Ma ho comprato quelli che ti piacevano meno”.

“Piacevano a te. E il tuo sorriso era ancora più radioso mentre ti sentivi speciale e a tuo agio”.

Lo guarda teneramente, con una mano gli sfiora il viso. Sembra quasi svegliarsi da un sogno mentre parla con voce più decisa. “Poi siamo andati a mangiare. In un ristorante thailandese, me lo ricordo. Ma era così strano”.

“La musica di David Bowie in sottofondo, l’arredamento come fosse lo scompartimento di un treno. Appena sei entrata hai detto…”

“’Sembra di essere in un film di Wes Anderson’, ecco cosa ho detto. Sembrava tutto così surreale”.

“Sono stati due giorni perfetti. Eravamo perfetti. E” le accarezza le labbra con un dito “lo siamo ancora”. La bacia, sfiorando appena le labbra, protendendosi in avanti da quella scomoda posizione raccolta. Lei chiude gli occhi, ma quando si staccano abbassa di nuovo la testa.

“Ricordo anche il parco” dice senza emozione, la bocca tornata una linea retta.

Lui si irrigidisce, le mani strette a pugno, la mascella contratta. Cerca di sorridere lo stesso, ma non gli riesce di farlo anche con gli occhi.

“Ci ero stato anni prima. Era un posto piccolo, particolare, anche un po’ fatiscente. Pensavo che lo avresti apprezzato, non so perché ne ero convinto. Il cancello era chiuso, stavano facendo lavori di restauro. Ma” dice cercando di farsi vedere da lei, “questo non è riuscito a rovinarci la giornata, perché poi”

Stavolta è lei a non lasciargli tempo. “Ti sbagli” dice meccanicamente, “è lì che ho capito che non era la cosa giusta da fare. Che non avevamo futuro”.

“Non puoi dire sul serio” dice alzandosi, “non puoi focalizzarti su un solo particolare stonato in un quadro bellissimo”. La sua voce è più dura di quanto vorrebbe, come la sua bocca.

“Era un segnale. Come puoi ignorare i segnali?”

“Non lo era anche quel bacio sulla scalinata? Il fischio dei treni che ci ha svegliati, facendoci guardare negli occhi all’unisono? Come ti sei sentita in quel momento, riesci a ricordarlo?”

“Io…”. Scuote la testa, piegandosi verso il petto. “Non ricordo più. So solo che il cancello era chiuso”.

“Amore…”

Lo guarda, ma è come se fissasse qualcosa oltre la sua figura. “Era chiuso. Capisci?”

Lui si allontana di qualche passo, gli occhi serrati, una smorfia di dolore che aleggia sulla faccia. “Ne ho abbastanza” dice, “è un tormento andare avanti così”. Tira fuori il cellulare dalla tasca dei pantaloni, compone in fretta un numero, poi le dà le spalle. Lei continua a fissare davanti a sé, la bocca lievemente aperta, come se avesse una parola sulla punta della lingua ma non sapesse se pronunciarla o meno.

“Resti in attesa” si sente per un attimo cicaleggiare dall’altoparlante, poi qualcuno risponde. La sua voce diventa in un istante un torrente di parole nervose.

“La chiamo per il modello 113. Sì, voglio inoltrare un reclamo. Riguarda l’immagazzinamento della memoria, si è focalizzata sul ricordo sbagliato. Come? Sì, l’immagazzinamento è manuale ma”. Attende un attimo, guardando nervosamente dietro a sé. “Cosa vuol dire ‘non abbiamo un database in sede’? Potrete controllare in qualche maniera no? Io ho scelto un altro ricordo, non quello, e ho schiacciato il tasto ore prima! Non so cosa non ha funzionato, ma dovete trovare un rimedio. E’ colpa vostra, io ho fatto tutto secondo le istruzioni”.

Attende ancora, una mano sulla fronte. Il tono di voce dall’altra parte è basso, profondo, si sente solo qualche parola. ‘Intervento manuale’. ‘Backup di memoria’. Ha appena detto ‘sostituzione gratuita’ quando lui insorge, urlando.

“Sostituzione? Non sa quanto ho pagato per questo prototipo, e mi avevate assicurato che funzionava alla perfezione! Voi…no! Non mi importa niente del fatto che sia normale per un prototipo avere problemi, mi avevate assicurato che non ce ne sarebbero stati! Non potete sostituirla, non capite? Non potete entrargli nella testa come se fosse…Dio!” Si copre gli occhi con una mano, singhiozzando. “Ma non capite? Non ne voglio una nuova, io voglio…”

Abbassa il braccio, afflosciandosi con tutto il corpo. La voce profonda continua a parlare dall’altra parte, ma lui non ascolta più.

“Lei era tutte” mormora. “Questa volta sembrava reale. Per una volta sembrava possibile”.

“Il cancello era chiuso” ripete lei guardando nel vuoto, come persa in un sogno.


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