Pubblicato il 04/02/2018 00:49:32
Ogni giorno che passava la vita gli diventava sempre più difficile. Alberto, dopo aver smesso di fare il boscaiolo, aveva lavorato sempre alla catena di montaggio con enormi difficoltà per via della sua invalidità. A dire il vero le deformazioni alle dita della mano non erano state dovute ad un infortunio sul lavoro, ma gli erano state procurate molti anni prima, nel corso dell'ultima guerra mondiale, in conseguenza della sua passata attività di antifascista. In fabbrica, nonostante avesse diritto ad un posto meno faticoso, scelse di lavorare alla catena di montaggio, vicino ai suoi compagni di lavoro, visto che l'attività che doveva svolgere poteva eseguirla lo stesso nonostante le mani rovinate. Il compito di guardiano, proprio, non lo riteneva appropriato. Gli sembrava di dover svolgere un ruolo di controllo dei suoi compagni ed immaginarsi che qualcuno avesse potuto appioppargli l'epiteto di spia proprio non gli andava giù. Così con grande spirito di sacrificio, ma con grande ammirazione da parte degli altri addetti alla catena, aveva voluto fare l'identico loro lavoro. Ad ogni cambio di stagione, però, avvertiva tutti i dolori di questo mondo e sovente era costretto a restare a casa in malattia. E questo gli pesava tanto. "Non ti preoccupare - si sentiva ripetere dai colleghi che andavano a fargli visita - l'azienda è grande ed una persona in più o in meno nessuno la nota". Ma ad Alberto non piaceva mangiare a sbafo. Da vecchio compagno stalinista soleva sempre rispondere: "chi non lavora non mangia"; e ce la metteva tutta a recarsi al lavoro quando altri sarebbero rimasti a casa per molto meno. Ma quel giorno se fosse rimasto a casa forse sarebbe stato meglio. La mano gli faceva troppo male: non era concentrato ed in un attimo la pressa fece il resto. Con la mano maciullata fu portato rapidamente in ospedale e si avviò una impossibile ricostruzione di un arto che già aveva subito in passato altre mutilazioni. L'avevano sistemato da solo in una stanza bianca con una finestra dalla quale poteva scorgere la montagna. Era il minimo che si potesse fare per un ex-partigiano insignito con la medaglia d'oro della Resistenza. La solitudine ed i boschi che intravedeva in lontananza gli riportarono ricordi lontani e tutta la sua vita cominciò a scorrere come su uno schermo. Ogni tanto si appisolava, ma il dolore improvviso che l'incidente gli aveva procurato lo svegliava di soprassalto e provava un senso di paura e ti terrore accorgendosi di non essere a casa sua. Il pensiero andava all'ultimo rastrellamento eseguito dai nazi-fascisti sull'appennino tosco-emiliano molti anni indietro. L'avevano beccato come un merlo mentre si dissetava ad una fonte dopo essere riuscito, insieme ad altri compagni, a liberare una diecina di ebrei che erano stati rinchiusi in una scuola in disuso in attesa di essere trasferiti nei campi di sterminio in Germania. Inutilmente cercò di dimostrare di essere un boscaiolo, esibendo un certificato fittizio di lavoro. Fu tutto inutile perché un fascista locale l'aveva riconosciuto e per lui era iniziato il calvario. Quasi subito fu sottoposto ad uno stringente interrogatorio teso ad estorcergli la località dove gli altri suoi compagni erano riparati. Chiaramente Alberto non era disposto a tradire e dovette subire una serie di pestaggi bestiali che gli fecero perdere i sensi. Si era risvegliato in una stanzetta di tre metri per tre. Appena riusciva a muoversi. Sanguinava abbondantemente dalla bocca, dal naso, dalla testa. L'odore del sangue lo stordiva. Ad ogni movimento avvertiva dolori lancinanti in tutto il corpo e poi aveva sete, tanta sete, ed un languore tremendo allo stomaco. Aveva perso la nozione del tempo. Sentiva solo le conversazioni nelle stanze vicine tra i tedeschi ed i fascisti. Conversazioni miste ad imprecazioni e a perentori ordini. Anche per i fascisti non doveva essere un bel momento. Abituati come erano con la loro arroganza e prepotenza ad infierire su chi non la pensava come loro doveva essere umiliante dover subire la strafottenza e gli insulti dei tedeschi circa la inettitudine dei soldati italiani. Alberto aveva già compiuto numerose operazioni. Tre quattro volte si erano concluse con la liberazione di altri ebrei o antifascisti destinati ai campi di concentramento, ma molte altre volte con l'assalto alle caserme dei carabinieri o a presidi di nazi-fascisti, sparsi alle pendici dell'appennino, con lo scopo di recuperare armi e munizioni e spesso anche generi alimentari. Scatolette e gallette erano le derrate più ambite. Non pesavano molto e potevano conservarsi a lungo anche celati in nascondigli improvvisati che solo Alberto e compagni sapevano al momento opportuno trovare. Si muoveva con facilità in quei luoghi. Lui era davvero un boscaiolo e della montagna conosceva asperità e sentieri e sapeva come dileguarsi facendo sparire anche le tracce del suo passaggio . Ma quella volta gli era andata male. Quella sosta gli era stata fatale e per giunta aveva perso un po' di tempo per darsi una rinfrescata. Era convinto che i nazisti non sarebbero stati in grado di organizzare il rastrellamento in tempi così rapidi. Ma aveva fatto i conti senza considerare che qualche fascista locale potesse anche lui essere un buon conoscitore della montagna e dei suoi sentieri e questa leggerezza gli era costata molto cara. I suoi compagni, pur essi assetati, avevano preferito proseguire e si erano salvati. La stanza si illuminò d'un tratto di una luce intensa. Aveva gli occhi gonfi e quella luce lo tormentava. Non riusciva a vedere chi avesse intorno ma chiaramente capiva che era circondato da tedeschi e diversi sicuramente componenti dei reparti speciali delle famigerate SS. Aveva già messo in conto che da quella stanza non sarebbe uscito vivo ed il pensiero era corso alle discussioni che spesso si svolgevano tra i compagni prima di ogni operazione. In caso di cattura di qualche compagno occorreva resistere alle torture per qualche ora. Il tempo necessario per consentire al gruppo di disperdersi e cambiare località. Se un compagno non si ricongiungesse al gruppo nel giro di mezzora era un segnale evidente che qualcosa fosse andata male e bisognava disperdersi per non rischiare di restare intrappolati nel corso dei rastrellamenti. Quindi, sapeva che avrebbe dovuto tacere, ma comprendeva anche che il dolore fisico a volte diventa insopportabile e la tentazione di parlare possibile. Ma in lui era forte anche il ricordo dei tanti partigiani catturati che erano stati poi impiccati sulle piazze dei paesi e che presentavano evidenti i segni delle torture subite. Questo gli faceva capire che, comunque, la sua fine ormai era segnata. "Morire per morire - pensava - tanto vale la spesa provare a resistere". E questo era anche il sistema migliore per garantire ai compagni di disperdersi il più lontano possibile. Gli fu portata dell'acqua, lo fecero bere, lo fecero lavare. Un ufficiale nazista cercò di convincerlo a parlare. Aveva portato una carta topografica della zona, ma Alberto aveva gli occhi troppo gonfi e non riusciva a vedere. Cercò di spiegare queste cose intercalando qualche espressione in tedesco e l'ufficiale diede alcuni ordini perentori che Alberto non riuscì a capire e dopo tutti uscirono dalla stanza lasciandolo nuovamente solo. Era contento: pensava che forse lo stratagemma stesse funzionando. Intanto i suoi compagni potevano essere già in salvo ed anche se l'avessero maciullato a quel punto era contento di aver salvato almeno la vita dei suoi amici. Un paio d'ore più tardi un ufficiale medico entrò nella stanza e cominciò a medicarlo. Le ferite furono ripulite e collirio e pomate cercarono di rimediare i danni che le brutali percorse avevano provocato agli occhi e alle altre parti del corpo. Gli portarono anche una tazza di minestra che Alberto riuscì a bere perché a masticare non ne avrebbe avuto la forza per via del forte dolore che provava ogni volta che muoveva le mascelle. Ma la fame era troppa ed in qualche modo bisognava fermare i crampi allo stomaco che lo tormentavano. Un paio di giorni dopo, si era alquanto ripreso. Lo prelevarono per trasferirlo in un'altra località. Riconobbe il paese perché l'appartamento in cui era stato condotto era proprio sopra un bar che ogni tanto frequentava nei periodi di riposo dalla sua attività di boscaiolo. Fu certo che il titolare che era sulla porta l'avesse riconosciuto, ma questi fu subito allontanato con urla sgraziate ed imperiose da parte dei soldati tedeschi. L'interrogatorio riprese qualche ora dopo. Prima i tedeschi si dimostrarono gentili rassicurandolo che se avesse indicato i rifugi dei ribelli sulla montagna l'avrebbero lasciato andare libero; ma di fronte alla indeterminazione ed alla reticenza dimostrata da Alberto, che asseriva di non conoscere le località che i tedeschi gli indicavano sulla cartina, l'atteggiamento di chi conduceva l'interrogatorio cambiò radicalmente e quasi subito le violenze ripresero in modo sempre più inaudito e spietato. Dopo circa due ore era nuovamente irriconoscibile. Aveva perso i sensi più volte, ma l'avevano sempre rianimato intercalando momenti di gentilezza a nuovi soprusi. La mano destra era ormai una poltiglia informe. La sinistra era stata torturata in modo selvaggio. Non riusciva più a restare seduto e scivolava in continuazione sul pavimento e la sofferenza che provava quando lo tiravano su per proseguire nell'interrogatorio era insopportabile. Il gerarca fascista che assisteva all'interrogatorio non aveva partecipato al massacro. Alla fine però era intervenuto minacciando di coinvolgere i suoi familiari. "Sappiamo dove abiti e conosciamo la tua famiglia - aveva aggiunto - cerca di evitare delle sofferenze ai tuoi cari". E per rendere credibile la minaccia si era rivolto ad un subalterno ordinandogli di andare a prendere il padre. Alberto, a questo punto, aveva compreso che non c'era più nulla da fare. Voleva assolutamente evitare le stesse sue sofferenze anche ai componenti della sua famiglia e, soprattutto, non voleva che suo padre lo vedesse in quelle condizioni. Era sul punto di parlare e svelare tutto quello che sapeva. Ma in quel momento si avvertirono all'esterno dell'edificio una serie di esplosioni ed alcune scariche di mitra spappolarono le persiane dell'appartamento. Urla indistinte arrivavano da ogni parte accompagnate da deflagrazioni di armi da fuoco e da urla lancinanti di moribondi. Perse i sensi. Si risvegliò alcuni giorni dopo in un letto d'ospedale circondato da un gruppetto di partigiani armati fino ai denti. "Coraggio Alberto, resisti - si sentì dire - sei al sicuro. Il barista ci ha avvisati subito della tua cattura. Gli alleati stanno risalendo lo stivale. Ti abbiamo portato nella zona già liberata. Le tue sofferenze sono finite" Alberto non credeva di essere in salvo. Un sonno lieve lo avvinse e nel dormiveglia fu tormentato da orrendi incubi. Vedeva il sangue scorrere abbondante dalle sue ferite e questo gli impediva di respirare. Si sentiva soffocare e s'agitava scompostamente nel lettino. Un medico gli praticò un'iniezione e Alberto si senti trasportare leggero sulle nuvole. Una sensazione di liberazione e di tranquillità lo avvolse e sprofondò in un sonno profondo. Si risvegliò attorniato dai suoi cari, che non avevano ancora compreso quale pericolo avessero schivato, ed una ragazza del paese, a cui faceva la corte ma alla quale non aveva mai avuto il coraggio di svelare il suo amore, lo accarezzava dolcemente. La medaglia d'oro arrivò molto tempo dopo. Si era ormai dimenticato anche del bene fatto portando in salvo tante famiglie di ebrei e aiutando altri deportati a fuggire. Un riconoscimento tardivo anche per la sua partecipazione alla lotta contro l'oppressione nazi-fascista. Quello che ricordava spesso era di aver contribuito alla liberazione del suo paese e sottolineava che i giovani avrebbero dovuto apprezzare il suo sacrificio e quello di tanti altri partigiani e non permettere più in futuro che la libertà venisse negata ai popoli. Era un invito che ripeteva spesso anche se era convinto che quanti non avessero vissuto quei brutti momenti sicuramente non sarebbero stati in grado di comprendere pienamente il senso del suo messaggio. ****************** Ormai era trascorsi quasi trenta giorni dal suo ricovero. Per la sua mano non c'era stato nulla da fare. Cercarono solo di ricostruirgliela come meglio possibile per evitare di dovergliela amputare. Per il resto era già tanto malmesso prima, in conseguenza dei colpi ricevuti con il calcio dei fucili che gli avevano rifilato i tedeschi durante gli interrogatori, ma in queste condizioni un suo impiego in attività produttive che richiedessero l'uso delle mani era diventato praticamente impossibile. Non accettando di vivere con la sola rendita di invalidità, agli amici che venivano a trovarlo, ebbe ancora la forza di sorridere ed affermare: "Alla fine dovrò proprio rassegnarmi di fare il guardiano visto che non ho altre possibilità di svolgere lavori più utili ed io resto sempre con le mie convinzioni che chi non lavora non mangia".
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