Il “Primitivismo” di Pasolini: “poeta” o “romanziere”?
Pasolini fu sempre “contro” la società industriale non soltanto per i mali intrinseci del capitalismo (sfruttamento), ma soprattutto perché letteralmente “corrompeva” irrimediabilmente lo spirito delle classi popolari, che diventavano come “burattini”, perché sprovvisti di coscienza storico-critica, nelle mani di un “burattinaio” (il capitalismo) che ne distorceva le coscienze “innocenti”. La predilezione di Pasolini per le classi popolari “ancora non tocche” dai traviamenti dell’industrializzazione è un fatto ben noto a tutti. I suoi primi romanzi (Ragazzi di vita e Una vita violenta), ambientati nelle periferie romane, sono la chiara testimonianza di questa sua “passione” per il “primitivismo”, che egli manifestò in varie occasioni, di fronte, per esempio, al degrado cui furono sottoposte le spiagge e le coste italiane agli “albori” dell’industrializzazione in Italia, vale a dire agli inizi degli anni ’60.
Diciamo altresì che l’atteggiamento di Pasolini “contro” tutto ciò che sapeva di industrializzazione, specie se “selvaggia”, era sì un dato “culturale” dell’uomo colto di sinistra, del “comunista critico” che era in lui, ma soprattutto un dato oserei dire “viscerale”, che gli era dettato dal fatto che il suo ’”istinto” era, sopra tutto, un “istinto poetico”: Pasolini era soprattutto un poeta, e un poeta amante della campagna e delle solitudini nella natura incontaminata. Moravia, che lo conosceva bene, “da sempre” definì Pasolini “essenzialmente” un poeta: “Secondo me Pasolini è il miglior poeta della seconda metà del '900 […] Ho sempre detto che la poesia in Pasolini era preminente, che era un poeta anche nel cinema, nel romanzo, eccetera. Cioè, la sua intelligenza era costituita non di un prosatore o di uomo del cinema, ecco. Non ho detto che era un artista totale, ho detto che Pasolini era prima di tutto un poeta, poi è stato, secondo me, un cineasta e poi un romanziere, e poi artista in ordine d'importanza”.
E per quanto riguarda l’ avversione di Pasolini per l’industrializzazione, Moravia, nell’intervista citata sopra, ricordò al suo interlocutore, che, dopo tutto, Pasolini era, per così dire, “un uomo di campagna”, che veniva da Casarsa, mentre lui, Moravia, parlava francese “prima di parlare l’italiano” ed era tutt’altro che avverso all’industrializzazione: “ Io parlavo il francese prima di parlare l'italiano, avevo una posizione europea. Lui veniva invece da Casarsa […] Pasolini aveva un'idea un po' diversa dalla mia sulla situazione dell'Italia. Lui pensava che tutti i guai d'Italia venivano dalla fine della cultura contadina, dal consumismo. Io pensavo il contrario, cioè pensavo invece che non ce n'era abbastanza di cultura industriale, e lo penso ancora, che i mali in Italia vengono da deficiente industrializzazione, dalla corruzione della cultura contadina. Insomma, per dare un esempio, parte dell'Italia era di cultura contadina che però si dissolve, mentre il Nord, bene o male, si è industrializzato, perciò per me l'Italia non è abbastanza moderna, per Pasolini lo era troppo ” (1).
La sostanziale “vocazione poetica” di Pasolini gli fu riconosciuta anche da critici molto severi, come Seroni, che, quando apparve il romanzo “Ragazzi di vita”, lo stroncò senza tanti complimenti, anche se poi il giudizio fu in qualche modo “limato” da G. Petrocchi verso la fine degli anni ’50. E’ comunque significativo che anche Seroni riconobbe esplicitamente il fatto che Pasolini aveva dato il meglio di sé come poeta: “ Che cosa c’è nelle pagine di ‘Ragazzi di vita’? La risposta potrebbe essere molto semplice, un verismo ultra-letterario […] e i personaggi son marionette senza vita. L’unico elemento positivo del romanzo (che poi romanzo non è) è l’abilità letteraria dello scrittore. Sulla quale, del resto, nessuno ha mai avanzato dubbi. Manca l’umanità, una dote che il Pasolini poeta ci aveva abituato a riconoscergli come propria. E che speriamo di ritrovare ancora …” (2). Il duro giudizio di Seroni fu controbilanciato da quello di G. Petrocchi, che “salvò” Pasolini “anche” come romanziere, ma solo in virtù delle sue doti poetiche. Pasolini nel romanzo espresse “immagini di FOSCA PUREZZA LIRICA e di torbida morbosità. E’ NATO il POETA di un inedito (o quasi) paesaggio […] dove il limitare della città di Roma sulla CAMPAGNA è effigiato in un sapiente accordo di concretezza ottica e di EMOZIONATA SOLENNITA’ di toni […] L’aspra pietà di Pasolini arriva a pagine di amara dolente POESIA” (3).
Il suo “animus” poetico verso il “primitivismo” Pasolini lo manifestò chiaramente soprattutto nel corso dei suoi viaggi in Africa, spesso insieme con Moravia, un paese che egli vedeva minacciato dalla “civiltà industriale” dell’Occidente, per via dello “scandaloso rapporto dialettico che il terzo mondo instaura col mondo industrializzato, neocapitalista o marxista” (4). La stessa Natura era vista da Pasolini “con gli occhi di un poeta”, che ne sentiva inconsciamente la “terribilità”, e la cui “violazione” avrebbe comportato “una catastrofe enorme”, per riprendere alcune significative parole di Svevo: “La Preistoria avrà le sue rivincite: ci umilierà con la sua terribile, trionfante incomprensibilità … Ma che fare?” (5) .
L’ “unica alternativa” di Pasolini
Nel 1968 Pasolini aveva compiuto un viaggio in Africa, dove prese appunti per la messa in cantiere di una Tragedia, l’ “Orestiade” di Eschilo. Proprio in quella occasione, Pasolini si espresse in modo tale che è impossibile non ravvisare in lui un “poeta” per eccellenza. L’ “occhio” di Pasolini era l’occhio del poeta, che, in modo oscuro, “vaticinava” catastrofi senza fine “auscultando” semplicemente il vento impetuoso fra gli alberi, forza “terribile” della Natura. Il viaggio in Africa di Pasolini e i suoi “Appunti per un’Orestiade africana” furono e sono tuttora oggetto di ampia disamina da parte della critica, nazionale ed internazionale, e non è mia intenzione entrare in un simile dibattito, se non di sghembo, per parlare di Pasolini “poeta”.
Pasolini negli “Appunti” dice:
“Restano altri personaggi da ricercare: le Furie. Ma le Furie sono irrappresentabili sotto l'aspetto umano e quindi deciderei di rappresentarle sotto un aspetto non umano. Questi alberi, per esempio, perduti nel silenzio della foresta, mostruosi, in qualche modo, e terribili. La terribilità dell'Africa è la sua solitudine, le forme mostruose che vi può assumere la natura, i silenzi profondi e paurosi. L'irrazionalità è animale. Le Furie sono le dee del momento animale dell'uomo (6). Dunque, con una immagine poetica potentissima, Pasolini ci rappresenta gli alberi “africani” (le Erinni), che appaiono “mostruosi e terribili”, poiché l’ aspetto “terribile” dell’ Africa sono appunto le forze tremende che sa scatenare e le sue immense solitudini. Gli alberi-Erinni rappresentano le forme “mostruose” che la Natura può assumere, insieme con i suoi silenzi profondi e spaventosi.
“L'irrazionalità è animale”.
“Le Furie dell’Orestiade di Eschilo sono destinate ad essere sconfitte, a scomparire. Con esse scompare dunque il mondo degli avi, il mondo ancestrale, il mondo antico; e nel mio film, con esse, è dunque destinata a scomparire una parte dell’Africa antica” (“Appunti”)
Nella “Lettera del traduttore”, 1960, Pasolini scrisse:
“La trama delle tre tragedie di Eschilo è questa: in una società primitiva dominano dei sentimenti che sono primordiali, istintivi, oscuri (le Erinni), sempre pronte a travolgere le rozze istituzioni (la monarchia di Agamennone), operanti sotto il segno uterino della madre, intesa appunto come forma informe e indifferente della natura. Ma contro tali sentimenti arcaici, si erge la ragione (ancora arcaicamente intesa come prerogativa virile: Atena è nata senza madre, direttamente dal padre), e li vince, creando per la società altre istituzioni, moderne: l'assemblea, il suffragio. Tuttavia certi elementi del mondo antico, appena superato, non andranno del tutto repressi, ignorati: andranno, piuttosto, acquisiti, riassimilati, e naturalmente modificati. In altre parole: l'irrazionale, rappresentato dalle Erinni, non deve essere rimosso (che poi sarebbe impossibile), ma semplicemente arginato e dominato dalla ragione, passione producente e fertile” (7).
Prima di trarre una conclusione, sarebbe anche interessante affrontare il problema delle “fonti” sia dei concetti espressi nella “Lettera del Traduttore” sia negli “Appunti” sull’ “Orestiade” di Eschilo. Sappiamo che Pasolini aveva tradotto l’ “Orestiade” nel 1959 , e che la pubblicò nel 1960, mentre gli “Appunti” sono del 1970. Su quali suggestioni Pasolini poté “coinvolgere” un personaggio della tragedia greca come Oreste nella sua avversione per la società industriale? Le “fonti” di Pasolini furono sicuramente Hegel e Lukàcs, che, appunto, avevano parlato dell’ “Orestiade” proprio in relazione alla società capitalistica. Con il concetto della “tragedia nell’etico”,
“Hegel coglie una reale contraddizione insita nella società capitalistica […] Hegel ci ha dato, secondo Lukàcs, una critica magistrale di quella particolare forma insita nella “tragedia nell’etico”, che è la concezione di essa come lotta degli ‘aspetti luminosi dell’essere umano’ con le ‘oscure potenze sotterranee’. Hegel cita l’ ‘Orestiade’ di Eschilo, dove la lotta di Apollo contro le Eumenidi va intesa per l’appunto come un simbolo della lotta tra il ‘luminoso’ e l’ ‘oscuro’. Tale lotta non si conclude, non può concludersi con la vittoria di uno dei due princìpi e con la distruzione dell’altro. L’ ‘Orestiade’ si conclude con un compromesso, con una conciliazione imposta dal di fuori […] La conciliazione delle Eumenidi vendicatrici è imposta da Pallade Atena. Un intervento esterno ‘aggiusta’ un contrasto, fondamentale, senza sopprimerlo, senza poter evitare che esso insorga di nuovo in futuro […] La civiltà non riesce ad avere la meglio sulla barbarie. Essa può solo porre dei freni” (8).
Si noterà che i concetti qui espressi sono pressoché “identici” a quelli di Pasolini. Questa lunga citazione è di Tito Perlini, uno dei maggiori conoscitori di Lukàcs in Italia, e la data di pubblicazione di questo libro è il 1968, due anni prima del viaggio di Pasolini in Africa. Pasolini era esperto sia di Hegel sia di Lukàcs, dei quali conosceva perfettamente il pensiero, e certamente non aveva bisogno di ulteriori conferme. Tuttavia è poco credibile che il libro di Perlini, del 1968, fosse ignoto a Pasolini, un libro che, tra l’altro, “confermava” in modo sintetico ed efficace ciò che egli stesso aveva enunciato già dai primi anni ’60, e poi avrebbe ribadito negli “Appunti”. Credo anzi che il libro di Perlini abbia costituito per Pasolini un’ulteriore “occasione” di riflessione su un tema che gli era caro sin dalla fine degli anni ’50. Come Pasolini ben sapeva, sarebbe stato “impossibile” rimuovere le Furie , né era possibile evitare che esse insorgessero “di nuovo in futuro”.
Pasolini non morì nel suo letto.
“Africa! Unica mia alternativa” (“Frammento alla morte”). L’ “alternativa africana”, come “ultimo rifugio”, non gli fu concessa da “Ananke”, la terribile “Necessità”. Le “Furie” infatti si impadronirono di lui e ne straziarono il corpo nelle solitudini notturne di un anonimo idroscalo. Una morte tragica, ma che al tempo stesso è il più ALTO MONUMENTO che “Ananke” e le “Furie” potessero mai erigere al poeta-vate che forse più di ogni altro nel XX secolo aveva scrutato nella propria e nell’altrui “tragedia” esistenziale con accenti pressoché divinatori.
Enzo Sardellaro
Note
1) A. Mazza, “Ideologie e Passioni”: Alberto Moravia su Pier Paolo Pasolini”, in “Quaderni di Italianistica”, Vol. IX, n. 1, 1987, p. 139 sgg.
2) A. Seroni, “Leggere e sperimentare”, Parenti, 1957, p. 188.
3) G. Petrocchi, “Le speranze dello Sperimentalismo” in “Lettere Italiane”, Olschki , ottobre-dicembre 1959, p. 500.
4) P.P. Pasolini, “Lettere 1955-1975”, a c. di N. Naldini, Torino, Einaudi, 1986, p. CI.
5) P.P. Pasolini, “Il Padre selvaggio”, 1975, p. 51.
6) P.P. Pasolini, “ Appunti per un’ Orestiade africana”, in “Pasolini per il Cinema”, Milano, Mondadori, vol. I, p. 1183.
7) “Lettera del traduttore”, in “Eschilo, ‘Orestiade’”, versione di Pier Paolo Pasolini, Quaderni del Teatro Popolare Italiano, Torino, 1960, pp. 1-3.
8) T. Perlini, “Utopia e prospettiva in György Lukács”, Dedalo Libri, 1968, p. 148,
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