Pubblicato il 10/10/2011 15:09:44
Borges scrive il Prologo alla raccolta Fervore di Buenos Aires nel 1969, molto dopo la pubblicazione delle poesie giovanili. Ritiene che il ragazzo di prima non sia essenzialmente diverso dalla persona più matura, anche se sappiamo che i suoi esordi letterari sono all’insegna dell’ultraismo, dell’Avanguardia che cercava la novità a ogni costo, mirando a un’arte capace di trasformare la realtà e di sorprendere il lettore. Così precisa l’autore: “A quel tempo, cercavo i tramonti, i sobborghi e l’infelicità; ora, i mattini, il centro e la serenità” (J.L. Borges, Prologo, in Fervore di Buenos Aires, in Tutte le opere a cura di D. Porzio, Mondadori, Milano, 1984-1985, vol, I, p. 7. Evidente il distacco dalla modernità a ogni costo, dal barocchismo, dalle scuole letterarie. Dietro la presunta ‘rassegnazione’ di uno scrittore, spesso, accusato di conservatorismo, c’è, in realtà, la consapevolezza che non si può non essere moderni per il semplice fatto che ogni uomo appartiene a un determinato contesto storico e non può sfuggirvi. Emerge anche l’idea che il nuovo sia il risultato della rimodulazione di quanto già conosciuto: una variazione su pochi argomenti essenziali. Quali? Quelli che rivelano i tratti comuni del destino umano. Borges sembra più il ‘teologo ateo’ di cui parlava Sciascia, utilizzando un’immagine borgesiana, che non il palloncino colorato, trasformato in pallone aerostatico, di Raboni o lo scrittore reazionario di Eco per il quale, però, la parola reazionaria è quella che si limita a descrivere la realtà, senza modificarla. La complessità dell’universo, insomma, per l’autore, non è una mera illusione, necessaria affinché possa compiersi il rito della letteratura come finzione. Bastino le osservazioni sulla lingua poetica come organismo dinamico, orizzonte in cui a ogni nome si collega una espansione mitica e culturale perché, preciserà nel Prologo a L’altro, lo stesso, “i linguaggi dell’uomo non sono che tradizioni che hanno in sé qualcosa di fatale” (Id., Prologo, L’altro, lo stesso, in ivi, p. 7). Le innovazioni individuali hanno il sapore delle opere che vogliono collocarsi nei musei o trasformarsi in brani di una storia della letteratura. Per tale ragione, la poesia non è un sistema astratto di simboli che desidera imitare la musica. Questo sistema è una menzogna diffusa dai dizionari che sono posteriori alle lingue che cercano di ordinare. Ogni lingua, infatti, implica una visione culturale, storica, filosofica. Il danese che pronunciava il nome Thor non separava il rumore avvertito dal dio del tuono, così profonda era in lui l’unione del dettaglio sensoriale con la credenza. La parola, magica e irrazionale, esprimeva entrambi gli aspetti. La percezione aveva il ‘fuoco’ della divinità. Com’è noto, algebra e fuoco sono due metafore borgesiane. Si può, quindi, affermare che per Borges l’ordine algebrico del linguaggio verbale va, perennemente, scosso dal fuoco dell’immaginazione umana. Nel Prologo alla raccolta di racconti Il manoscritto di Brodie, Borges torna sul concetto, accentuando l’importanza della parola condivisa, non di quella oscura, illeggibile, alla Mallarmé o alla Joyce. Sostiene, inoltre, di preferire la tesi della Musa platonica alla filosofia della composizione di Edgar Allan Poe per il quale la poesia è un processo dell’intelligenza. Ci si chiede, tuttavia, se Borges realizzi, nella sua opera, quanto annuncia; se, cioè, davvero le sue poesie siano irrazionali e non, piuttosto, forme diverse di logica: quella creativa o, meglio, in termini filosofici, una logica abduttiva. Il ragionamento pragmatico di Peirce potrebbe conciliare mito e razionalità. In questa direzione, ogni parola apparirebbe come la conclusione azzardata di un lungo percorso del quale non siano esplicite tutte le fasi e il non-detto resti affidato alla paziente interpretazione del lettore.
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