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Raccolta di articoli di Anna Guzzi
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

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- Letteratura

Aspetti mitico-culturali della lingua: J.L. Borges

Borges scrive il Prologo alla raccolta Fervore di Buenos Aires nel 1969, molto dopo la pubblicazione delle poesie giovanili. Ritiene che il ragazzo di prima non sia essenzialmente diverso dalla persona più matura, anche se sappiamo che i suoi esordi letterari sono all’insegna dell’ultraismo, dell’Avanguardia che cercava la novità a ogni costo, mirando a un’arte capace di trasformare la realtà e di sorprendere il lettore. Così precisa l’autore:
“A quel tempo, cercavo i tramonti, i sobborghi e l’infelicità; ora, i mattini, il centro e la serenità” (J.L. Borges, Prologo, in Fervore di Buenos Aires, in Tutte le opere a cura di D. Porzio, Mondadori, Milano, 1984-1985, vol, I, p. 7.
Evidente il distacco dalla modernità a ogni costo, dal barocchismo, dalle scuole letterarie. Dietro la presunta ‘rassegnazione’ di uno scrittore, spesso, accusato di conservatorismo, c’è, in realtà, la consapevolezza che non si può non essere moderni per il semplice fatto che ogni uomo appartiene a un determinato contesto storico e non può sfuggirvi. Emerge anche l’idea che il nuovo sia il risultato della rimodulazione di quanto già conosciuto: una variazione su pochi argomenti essenziali. Quali? Quelli che rivelano i tratti comuni del destino umano.
Borges sembra più il ‘teologo ateo’ di cui parlava Sciascia, utilizzando un’immagine borgesiana, che non il palloncino colorato, trasformato in pallone aerostatico, di Raboni o lo scrittore reazionario di Eco per il quale, però, la parola reazionaria è quella che si limita a descrivere la realtà, senza modificarla. La complessità dell’universo, insomma, per l’autore, non è una mera illusione, necessaria affinché possa compiersi il rito della letteratura come finzione.
Bastino le osservazioni sulla lingua poetica come organismo dinamico, orizzonte in cui a ogni nome si collega una espansione mitica e culturale perché, preciserà nel Prologo a L’altro, lo stesso, “i linguaggi dell’uomo non sono che tradizioni che hanno in sé qualcosa di fatale” (Id., Prologo, L’altro, lo stesso, in ivi, p. 7). Le innovazioni individuali hanno il sapore delle opere che vogliono collocarsi nei musei o trasformarsi in brani di una storia della letteratura. Per tale ragione, la poesia non è un sistema astratto di simboli che desidera imitare la musica. Questo sistema è una menzogna diffusa dai dizionari che sono posteriori alle lingue che cercano di ordinare. Ogni lingua, infatti, implica una visione culturale, storica, filosofica. Il danese che pronunciava il nome Thor non separava il rumore avvertito dal dio del tuono, così profonda era in lui l’unione del dettaglio sensoriale con la credenza. La parola, magica e irrazionale, esprimeva entrambi gli aspetti. La percezione aveva il ‘fuoco’ della divinità. Com’è noto, algebra e fuoco sono due metafore borgesiane. Si può, quindi, affermare che per Borges l’ordine algebrico del linguaggio verbale va, perennemente, scosso dal fuoco dell’immaginazione umana. Nel Prologo alla raccolta di racconti Il manoscritto di Brodie, Borges torna sul concetto, accentuando l’importanza della parola condivisa, non di quella oscura, illeggibile, alla Mallarmé o alla Joyce. Sostiene, inoltre, di preferire la tesi della Musa platonica alla filosofia della composizione di Edgar Allan Poe per il quale la poesia è un processo dell’intelligenza.
Ci si chiede, tuttavia, se Borges realizzi, nella sua opera, quanto annuncia; se, cioè, davvero le sue poesie siano irrazionali e non, piuttosto, forme diverse di logica: quella creativa o, meglio, in termini filosofici, una logica abduttiva. Il ragionamento pragmatico di Peirce potrebbe conciliare mito e razionalità. In questa direzione, ogni parola apparirebbe come la conclusione azzardata di un lungo percorso del quale non siano esplicite tutte le fasi e il non-detto resti affidato alla paziente interpretazione del lettore.

Id: 392 Data: 10/10/2011 15:09:44

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- Letteratura

I caratteri mitici e culturali della lingua:Borges

Borges scrive il prologo alla raccolta Fervore di Buenos Aires nel 1969, molto dopo la pubblicazione delle poesie giovanili. Ritiene che il ragazzo di prima non sia essenzialmente diverso dalla persona più matura, anche se sappiamo che i suoi esordi letterari sono all'insegna dell'ultraismo, dell'Avanguardia che cercava la novità a ogni costo, mirando a un'arte capace di trasformare la realtà e soprendere il lettore. Così precisa l'autore:
"A quel tempo, cercavo i tramonti, i sobborghi  e l'infelicità; ora, i mattini, il centro e la serenità" (J.L. Borges, Prologo, in Fervore di Buenos Aires, in Tutte le opere, a cura di D. Porzio, Milano, Mondadori, 1984-1985, vol. I, p. 7).
Evidente il distacco dalla modernità a ogni costo, dal barocchismo, dalle scuole letterarie. Dietro la presunta 'rassegnazione' di uno scrittore, spesso, accusato di conservatorismo c'è, in realtà, la consapevolezza che non si può non essere moderni per il semplice motivo che ogni uomo appartiene a un determinato periodo storico e non può sfuggirvi. Emerge anche l'idea che il nuovo sia il risultato della rimodulazione di quanto è già conosciuto: una variazione su pochi argomenti essenziali. Quali? Quelli che riflettono le linee comuni del destino umano.
Borges sembra più il 'teologo ateo' di cui parlava Sciascia, utilizzando un'immagine borgesiana (quella riferita a un poeta persiano) che non il palloncino colorato, trasformato in pallone aerostatico, di Raboni o lo scrittore reazionario di Eco (per il quale il carattere reazionario è legato all'impiego di una parola che si limita a descrivere il mondo e non lo cambia). La complessità dell'universo, insomma, per l'autore non è una mera illusione, necessaria affinché si compia il rito di una letteratura che sopravvive come finzione. Bastino le osservazioni sulla lingua poetica, trattata chiaramente come organismo dinamico, orizzonte in cui a ogni nome è collegata una espansione culturale e mitica perchè, preciserà nel Prologo a L'altro, lo stesso, "i linguaggi dell'uomo sono tradizioni che hanno in sé qualcosa di fatale" (Id., Prologo, in L'altro, lo stesso, in ivi, vol. II, p. 7). Le innovazioni individuali hanno qualcosa dell'opera che mira a essere un campione da museo o un brano buono per una storia della letteratura. Per questa ragione, la poesia non è un sistema astratto di simboli che cerca di imitare la libertà della musica. Questo sistema è una menzogna dei dizionari che sono posteriori alle lingue a cui danno ordine. Ogni lingua implica un sistema culturale, storico, filosofico. Il danese che pronunciava il nome Thor non sapeva se era il rumore che sentiva o il dio del tuono: la parola, magica e irrazionale, esprimeva sia un aspetto che l'altro. Il dettaglio sensoriale aveva, per lui, il fuoco della divinità. Fuoco e algebra, com'è noto, sono metafore borgesiane. Si può, quindi, affermare che, per Borges, l'ordine del linguaggio verbale va scosso, perennemente, con il fuoco della immaginazione umana. Nel Prologo alla raccolta di racconti Il manoscritto di Brodie, Borges torna sul concetto, accentuando l'importanza della parola condivisa, non di quella oscura, illeggibile, presente nei testi di Mallarmé o Joyce. Sostiene, inoltre, di preferire la tesi di Platone della Musa alla filosofia della composizione di Edgar Allan Poe per il quale la stesura di una poesia è un atto dell'intelligenza. Ci si chiede, tuttavia, se l'opera di Borges realizzi quanto proclama, se davvero, cioè, le sue poesie sono irrazionali o non, piuttosto, forme diverse di logica: una logica creativa o, per meglio dire precisando in termini filosofici i nostri assunti, una logica abduttiva. Il ragionamento pragmatico di Peirce consentirebbe, forse, di conciliare gli estremi del mito e della razionalità. In tale direzione, ogni parola apparirebbe come la conclusione azzardata, audace di un percorso più lungo del quale si mostrino solo alcune tappe, mentre altre restino sottintese e affidate all'interpretazione di noi lettori. 


Id: 391 Data: 10/10/2011 14:40:52

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- Letteratura

Breve nota sulla narrativa musicale di Nicola Lecc

Lecca è un giovane autore di origini sarde che ama i viaggi nel Nord Europa. Alcuni tratti significativi della sua opera sono i viaggi, l’introspezione psicologica, legata a personaggi adolescenti, la tensione riflessiva che dà a questa scrittura uno spessore culturale abbastanza raro nell’attuale orizzonte italiano. È questo, in fondo, una nota anacronistica che richiama le riflessioni di un altro scrittore, Michele Mari, sulla possibilità letteraria di sottrarre le parole al commercio della quotidianità, trasformandole in materiali ‘geologici’.
Nel primo racconto di Concerti senza orchestra, Angoscia di un genio, il sapore rétro corre sul filo corposo della musica classica che detta la stessa struttura narrativa e paratestuale della silloge: gli otto racconti, infatti, corrispondono alle note di un ideale spartito. Rafforza questo nesso musica/narrazione, contaminato da numerose ecfrasis pittoriche, anche l’epigrafe da Schopenhauer per il quale l’arte musicale esprime la volontà noumenica, quanto sfugge alla rappresentazione. L’idea che l’opera del genio sia una melodia ispirata immette nello sfondo decadente del racconto che mostra un ritmo lirico, sensoriale e divagante, simile a un notturno dannunziano o a certa prosa d’arte degli anni ’20-’30. L’incipit allusivo ha un’intensa carica visiva: il protagonista vi descrive il quadro di un museo di Amsterdam. L’identità del protagonista si rivela gradualmente, lasciando orme ambigue: il ragazzo, infatti, cultore di arte e spartiti musicali, è stato in manicomio poiché crede di essere Beethoven. Nella prima pagina del testo lo si vede intento a osservare il dipinto dove un giovane efebico, un suo doppio, appare seduto su sedili rossi, incurante della nebbia che entra da un finestrino, come se volesse offuscarne la sagoma:
«Incurante della fitta nebbia […], egli sedeva in una sontuosa carrozza sopra un sedile rosso fuoco. I guanti bianchi, il bastone dal pomo d’avorio finemente levigato stretto tra le esili mani, il viso pallido e malaticcio, le lunghe gambe graziosamente accavallate».
La fragilità adolescenziale caratterizza molti altri personaggi di Lecca, in genere musicisti bambini e scrittori geniali cresciuti in fretta, esclusi dalla semplicità di un mondo infantile evocato da minimi dettagli (una giostra, un gelato ecc). In Concerti senza orchestra, il tratto connota Veronique, la pianista di Dalle labbra degli angeli, racconto che predilige le ore notturne, in particolare, la notte afosa dell’estate quando la nebbia «ha il potere di confondere la vista, privando gli oggetti del proprio contorno originario […]» (p. 42). L’atmosfera nebbiosa, dilatando ogni forma, ogni pensiero, crea la sensazione di trovarsi in un acquario dove i suoni del reale arrivano ovattati per emergere, poi, tragicamente nel tentato suicidio della ragazza, suggerito dalle macchie di sangue intrappolate nella fontana. Si delinea, così, un cromatismo ricorrente, già legato al rosso del dipinto di Angoscia di un genio. Ne Le lacrime scritte, la stessa tonalità dipinge la residenza svizzera di Inge che, in un diario, rivela la tragica perdita dell’ispirazione. La narrazione sfaccetta, in tal modo, una concezione romantico-decadente dell’arte in base alla quale i musicisti sono posseduti da una superiore necessità artistica. In Hotel Borg, invece, il rosso compare nell’abbigliamento dello svedese Oscar che lavora a Londra in un hotel di lusso e che rammenta, a un certo punto, anche la scritta in rosso di un fatto di cronaca. In questa contaminazione lirica una tinta basta a unire realtà differenti: il sublime dell’arte convive, così, con il sangue del male e del dolore e con i colori del lusso, del mercato.

Riferimenti bibliografici
Intervista all’autore curata dalla sottoscritta e da Giuliano Brenna sulla rivista letteraria on-line «LaRecherche.it» (http://www.larecherche.it/testo.asp?Tabella=Articolo&Id=188): «Sono affascinato dalla profondità della mente umana proprio come un subacqueo lo è dalle profondità marine. […] L’amore per i viaggi include anche quelli nelle stanze buie della coscienza».
M. Mari, Il Demone della Letterarietà, in Accademia degli Scrausi, Parola di scrittore. La lingua della narrativa italiana dagli anni Settanta a oggi, a cura di V. Della Valle, Roma, Edizioni Minimum Fax, 1997, p. 161. Seguendo una suggestione di Manganelli sulle parole latine e greche, intese come doppi di suoni inesistenti, per Mari il rapporto dello scrittore con la lingua è di funebre distacco rispetto alla lingua d’uso.
Nell’intervista Lecca sottolinea il legame musica/narrazione che, d’altronde, è un aspetto frequente nella narrativa contemporanea (anche Tiziano Scarpa lo ha chiarito nella presentazione del suo Stabat Mater presso l’Università della Calabria il 25 novembre 2009). A tal proposito c’è un filo diretto tra Concerti senza orchestra e il romanzo Hotel Borg dove il tema compare a più livelli: nella struttura, prima di tutto, dove emerge una divisione in tre parti e una sezione finale dal titolo Dopo il concerto; ogni parte è a sua volta divisa in tre atti che hanno il nome di una categoria astratta: La noia corrisponde all’atto primo, La libertà all’atto secondo, mentre l’atto terzo ha il nome della città islandese dove il direttore d’orchestra Norberg ha deciso di organizzare il suo ultimo concerto, lo Stabat Mater di Pergolesi. Quest’ultima notazione motiva la presenza tematica della musica. Ma il romanzo è, esso stesso, un concerto narrativo, capace di raccogliere tutte le esistenze dei personaggi che si intersecano gradualmente proprio nell’evento conclusivo: metafora dell’incontro, della scoperta di sé, della comunicazione frustrata, soprattutto tra artista-pubblico.
N. Lecca, Concerti senza orchestra, Venezia, Marsilio, p. 7.

Id: 253 Data: 30/09/2010 20:34:54