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Sequel

di Stefano Ficagna
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Pubblicato il 05/01/2018 16:15:17

La medaglia al suo fianco non riusciva a smuovergli niente dentro, non più del bicchiere vuoto appoggiato lì di fianco. Mentre osservava dalla vetrata che aveva di fronte la folla che lo ignorava deliberatamente, contenta perlopiù che se ne stesse ad una distanza di sicurezza, l’uomo al bancone sollevò una mano per almeno la decima volta negli cinque minuti. Il barista continuò a fare quello che stava facendo, cioè niente, finché espirando rumorosamente non prese una bottiglia e si avvicinò.
“Questo è il quarto” disse seccamente, “non te ne servirò un altro”. Vuotò in fretta una generosa quantità di rum nel bicchiere, senza guardarlo. “E se vomiti ancora nel vialetto sul retro pulisci tu. Non sono pagato per fare lo sguattero cazzo”.
Lo guardò allontanarsi di qualche metro, solo per cominciare a digitare al cellulare. Aveva vent’anni in meno di lui, pure lo trattava con lo stesso rispetto che si usa con un ragazzino viziato. Me lo sono meritato, pensò, o il mondo è cambiato? Una volta i baristi ti parlavano, ti ascoltavano. C’era tutta un’altra atmosfera.
Una volta beveva meno. Una volta non aveva bisogno di bere.
Buttò giù un terzo del bicchiere, reprimendo l’istinto di ingoiare anche la rimanente quantità. Voleva aspettare che se ne fossero andati tutti prima di tornare verso il suo appartamento, e non voleva rimanere col bicchiere vuoto per il tempo che ci sarebbe voluto a lasciarlo solo. Continuò così ad osservare la scena alle sue spalle, quel rituale di strette di mano, abbracci e baci. Gli faceva l’impressione di uno strano balletto, come se fosse uno spettatore a teatro. Vista così la scena lo inquietava un po‘ di meno. Poi lo vide.
Non si faceva largo fra la folla, era la massa conglobata di persone che si scostava automaticamente al suo passaggio. Guardandogli i capelli, folti e senza un’ombra di bianco, l’uomo al bancone non riuscì ad impedirsi di portare una mano alla testa. I loro sguardi si incrociarono per un solo istante, ma capì subito che tanto era bastato ad attrarre la sua attenzione. Quando si rimise ad osservare la vetrata lo vide salutare con un bacio la splendida bionda al suo fianco, una che dimostrava almeno dieci anni in meno di lui, per poi dirigersi verso il bancone col suo miglior sorriso. Lo stesso sorriso che aveva sul palco mentre li premiavano, solo mezz’ora prima.
“Uuuuuhhhh” sbuffò, “è bello essere sposati ma le mogli possono essere così pesanti!” Guardò verso il barista, che ad un cenno si avvicinò velocemente.
“Mi dica signore”.
“Dammi qualcosa da bere. Scegli tu, basta che sia buono”.
“Subito signore”. Si allontanò verso le bottiglie, ne scelse una pazientemente, poi scelse il bicchiere adatto e ritornò in tutta fretta. “Questo è il miglior rum che abbiamo signore” spiegò mentre già versava attentamente il liquido.
“A me hai dato un bicchiere diverso” lo apostrofò il primo avventore.
Il barista continuò a versare facendo finta di niente. Terminata l’operazione si alzò rigidamente e guardò fisso negli occhi l’uomo che aveva di fronte. “Si goda il suo drink signore. E’ stato un onore servirla”. Fece una specie di piccolo e goffo inchino, poi si allontanò a passi svelti. L’uomo sorrise ancora di più, poi portò il bicchiere alle labbra, annusò il contenuto e bevve un piccolo sorso.
“Non è neanche il miglior rum che hanno” commentò il primo guardando di fronte a sé. “Questo” disse alzando il suo bicchiere, “questo è un davvero un buon rum. E’ un rum agricol, ha più personalità. Un sapore vero. Lo fanno in…”
“Chi se ne frega!” lo interruppe l’altro, buttando giù tutto in un solo sorso. Fece una smorfia, poi sbottò in un ululato che fece girare i pochi ospiti rimasti. Lo guardarono con un sorriso paternalistico, poi tornarono alle loro chiacchiere. “Non sono qui per una lezione! Voglio solo sbronzarmi un po’ con un vecchio amico prima di andare di sopra, spogliarmi, mettermi a letto e farmi una scopata come si deve con la mia bellissima moglie”. Fece un altro cenno verso il barista, poi si mise di spalle al bancone, appoggiando i gomiti sullo stesso. Scrutò per qualche attimo la folla, in silenzio. “Guardali” disse infine, “mi adorano”.
“Lo so”.
Rimase ancora un attimo con lo sguardo fisso, il sorriso sempre stampato in volto. Si girò improvvisamente, battendo una mano sulla spalla dell’amico. “Ma adorano anche te. Siamo eroi cazzo, questa ce l’abbiamo tutti e due!” Tirò fuori dalla tasca della giacca una medaglia, in tutto e per tutto uguale a quella appoggiata al bancone, sfoggiandola orgoglioso.
Si girò, guardando l’espressione esageratamente festosa che teneva l’altro più che la medaglia che teneva in mano. “Quella non vuol dire niente” sospirò voltandosi nuovamente verso la vetrata. “Sei solo tu la star qui dentro. Non c’è bisogno che cerchi di tirarmi su il morale”.
L’altro smise di sorridere, guardandolo serio. Avvicinò lo sgabello, mettendogli il braccio attorno alle spalle mentre il barista gli riempiva il bicchiere. “E dai non fare così. E’ un giorno di festa oggi, godiamocela!” Bevve una lunga sorsata, poi fissò l’amico finché quello non si voltò ad incrociare i suoi occhi. “Allora, me lo vuoi dire che cosa hai fatto in tutti questi anni?”

Si erano conosciuti trent’anni prima. Gesù, trent’anni!. Tutte le volte che ci aveva pensato, in quei giorni, non aveva potuto reprimere un brivido. Erano stati cadetti della stessa accademia militare. Aeronautica, ai tempi della guerra nel sud. Erano i migliori, ma lui aveva qualcosa in più. Era un ottimo pilota, disciplinato, pure aveva l’istinto e la passione per il volo. L’altro, invece, era uno nato per l’aria ma non per l’obbedienza.
Erano stati rivali fin dall’inizio, il cadetto modello contro l’astro ribelle. Quando lo spedirono in missione, quel fatidico giorno, l’altro era sul ponte della portaerei ad attendere in punizione. Non ci si poteva fidare di una testa calda in territorio di guerra.
Mentre solcava i cieli sorrideva.
Aveva già accumulato parecchia esperienza per uno così giovane. Lo avevano spedito in quella che doveva essere una missione di monitoraggio, nessuno aveva pensato ad un’imboscata. L’aereo di fianco al suo esplose senza che ne avesse avuto alcuna avvisaglia.
Non si seppe mai, nonostante una lunga indagine militare, come avessero fatto a non accorgersi della postazione missilistica in quella posizione del quadrante. Lui non seppe mai spiegare come avesse fatto a non essere abbattuto, se non dicendo semplicemente: “ho agito d’istinto”. Un missile lo sfiorò, danneggiando il sistema di armamento. Era in trappola, e non poteva neanche reagire al fuoco. Furono minuti d’inferno, poi una fiammata a terra gli segnalò che era arrivata la cavalleria.
L’astro ribelle era stato il primo ad infilarsi nel suo caccia quando diedero il segnale d’emergenza. Quasi non aspettò le procedure di decollo standard per gettarsi nei cieli. Arrivò con largo anticipo rispetto agli altri tre aerei mandati in soccorso, e quando questi arrivarono c’era ben poco lavoro da fare. Da solo aveva distrutto quasi tutte le bocche da fuoco nemiche, ed aveva danneggiato gravemente le altre. Come ci fosse riuscito non lo seppe spiegare nemmeno lui, l’unica frase che disse inizialmente fu, ignaro di parafrasare il commilitone: “ho agito d’istinto”. Al ritorno i due vennero accolti come eroi. Scesi dall’aereo si abbracciarono, commossi, consci che qualunque rivalità avessero avuto impallidiva di fronte al legame che si era appena creato fra le nuvole di quella regione sperduta. I giornali parlarono a lungo di loro, piansero il pilota dell’aereo caduto, poi cominciarono a chiedersi se quella guerra era giusta. Ma non vennero dimenticati, o quasi.
La cerimonia a cui stavano partecipando era una commemorazione. Si erano riuniti per ricordare il pilota morto in azione, almeno ufficialmente, ma il momento cruciale era stato l’assegnazione delle medaglie al valore per i due eroi militari che quel giorno si erano distinti per il loro coraggio. Quello che aveva resistito al fuoco nemico, seppure in condizioni disperate; e quello che lo aveva salvato. Mentre salivano sul palco solo il secondo attrasse tutti gli sguardi.
Dio, erano passati trent’anni da allora. Quanto possono essere lunghi trent’anni?
Quante cose possono succedere in trent’anni.

“Che cosa ho fatto?” chiese laconicamente l’ex cadetto modello. “Sono rimasto qui, come sai. Per la maggior parte del tempo almeno. A differenza di te sono rimasto ad insegnare il mestiere alle nuove reclute”.
“Non mi biasimare” rispose l’altro, mentre il sorriso già tornava ad aleggiare sulla sua faccia. “L’esercito aveva bisogno di un simbolo, di una faccia da sparare sui manifesti. Di uno bravo a volare quanto a parlare. E in questo” disse facendo l’occhiolino “sono sempre stato più bravo di te”.
“Già eri davvero bravo a parlare, proprio bravo”.
“Ma mi vuoi spiegare” disse allontanandosi un poco, rischiando quasi di cadere dallo sgabello, “che cosa cavolo ti è successo? Questo non è il vecchio te, cazzo te lo sei mangiato quello!” Gonfiò le guance, allargando le braccia goffamente come a contenere una grossa massa.
“Sono stati anni difficili”. Buttò giù un altro piccolo sorso dal suo bicchiere, constatando tristemente che era finito. L’altro fece un cenno al barista, che li guardò entrambi per un lungo istante prima di fidarsi a versare. Riempì il bicchiere del primo non senza una smorfia.
“Agli anni felici allora” disse l’altro alzando il bicchiere. Brindarono, bevvero un lungo sorso e rabbrividirono entrambi.
“Quali anni felici?” chiese il primo. Quello che era rimasto. Quello che era così grasso da essere irriconoscibile per il sé stesso di trent’anni prima. Poi iniziò a raccontare.

All’inizio le cose erano andate bene. Certo, l’incidente lo aveva scosso, ma dopo un breve periodo a terra aveva ricominciato a volare. La guerra era nella sua fase finale, non ci furono più scontri nei cieli e, una volta congedato, gli venne offerto il ruolo di addestratore. Lo avevano offerto inizialmente all’altro, ma l’esercito aveva deciso di sfruttare l’ondata di popolarità di cui ancora godeva per utilizzarlo nelle campagne di reclutamento. Era il volto del paese, l’anima della nazione: il figlio che le mamme avrebbero voluto avere, l’uomo che le donne avrebbero voluto sposare, l’ideale che gli uomini ambivano ad imitare.
Il cadetto modello, quello a cui un danno strutturale aveva impedito di mostrare tutto il suo valore, era già un elemento accessorio nella grande storia del suo eroico commilitone.
Rimase per anni all’accademia, rispettato dai cadetti ma non amato. Se ne accorse in fretta che non riusciva a stringere un legame profondo con loro, ma conosceva il suo mestiere ed era bravo a trasmettere ciò che sapeva. Parecchi ottimi piloti uscirono dall’accademia forgiati dalle sue sapienti direttive, ma l’entusiasmo iniziale per quei traguardi si spense pian piano. Fu allora che conobbe una donna, se ne innamorò, e pensò che la vita poteva essere anche altro. Dopo neanche un anno abitavano insieme. Dopo due, lui lasciò l’esercito. Aprirono un bar in periferia, e per un po’ il cielo fu solo quello che fissava di notte prima di andare a letto con lei.

“E poi cos’è successo?”
“Poi ho ricominciato a guardare il cielo anche di giorno” rispose il primo. “Ho cominciato ad essere più sarcastico coi clienti, e loro a volte rispondevano per le rime. Qualcuno non è più tornato, e lei mi chiedeva cos’era cambiato. Avevamo parlato di avere un figlio, eravamo così entusiasti…poi lei smise di parlarne. Mi guardava con due occhi diversi, distanti. Avevo già cominciato a bere, in quel periodo, e qualche volta mi hanno portato a casa un paio di amici”. Vuotò il bicchiere, ormai aveva perso il conto di quelli bevuti. Non sapeva neanche se l’altro lo stesse imitando o meno, e non gli interessava. Non gli interessava più neanche che fosse rum agricol o meno.
“Si mise a fare lei il turno di chiusura” continuò, “perché non si fidava. Capitò che mi portarono a casa sbronzo a mezzogiorno”. Guardò il bicchiere vuoto. “Qualche mese dopo chiese il divorzio, ed io chiesi se avevano ancora bisogno di un istruttore qui. Non faccio più esattamente quello che facevo prima, ma ogni tanto riesco ancora a farmi un bel volo su un caccia militare. Dio” disse, prima di chiudere gli occhi ed alzare il volto al soffitto “che bella sensazione è ancora”.
“Cristo che storia”, disse l’altro dopo un attimo di silenzio. “Non siamo proprio fatti per la vita civile noi, eh?” Gli mise nuovamente una mano sulla spalla, ma l’altro la scostò senza guardarlo. Il viso dell’ex astro nascente si rabbuiò per la prima volta nella serata, ma mentre stava per aprire bocca l’altro lo anticipò.
“Sai cosa? Quello che mi manca è la libertà”. Parlava piano, ma non era ancora abbastanza sbronzo da non riuscire ad articolare correttamente, senza biascicare. “Quando sono lassù mi sento davvero libero, potrei andare dovunque…leggero. Riesco per un attimo a dimenticarmi di essere uno schiavo”.
L’altro si guardò attorno, nervoso. Non si era immaginato questo, quando si era seduto al bancone. Nella sala non c’era più nessuno, persino il barista era andato da qualche parte, probabilmente a fumarsi una sigaretta. Toccò nella tasca dei pantaloni il proprio pacchetto, accarezzandolo quasi con tenerezza.
“Anche quando eravamo cadetti” continuò l’altro, quasi parlasse con sé stesso “non eravamo mica liberi. Quanto ci piaceva volare, vero? Eppure l’aereo non era nostro, la rotta era stabilita da qualcun altro, Cristo!” urlò battendo un pugno sul bancone, facendo sobbalzare i bicchieri “neanche noi eravamo nostri! Proprietà dell’esercito, ecco cosa eravamo!”
L’altro non sapeva cosa dire. A posteriori, se gli avessero chiesto perché rispose in quella maniera avrebbe detto probabilmente: “ho agito d’istinto”. Lasciò passare un lungo attimo di silenzio, poi gli fece una domanda, senza guardarlo.
“Perché sei tornato allora?” chiese infine.
“Perché? Bella domanda”. Portò ancora il bicchiere alle labbra, dimentico di averlo vuotato poco prima. “Perché sono tornato ad insegnare ad altri ad essere dei bravi schiavetti come me? Perché sono tornato a far finta di potermi illudere come una volta, quando volare è ormai un piacere che mi concedono per compassione invece che per merito? Perché mollare un lavoro onesto ed una donna innamorata per sostituirli con tanta noia e la bottiglia? Be’, non lo so. L’ho capito che sono uno schiavo, ma non riesco a ribellarmi. Forse non me la merito la libertà, o non so che farci”.
Rimasero un attimo a guardare i rispettivi bicchieri, il silenzio rotto solo dal rumore della porta di sicurezza, richiusa dal barista. Poi il primo si voltò, guardando fisso l’ex commilitone. “Ma tu non te le sei mai fatte queste domande?” Tornò a guardare di fronte a sé, poi si coprì gli occhi con le mani scuotendo appena la testa. “Ah no” continuò, “dimenticavo che tu sei l’eroe, il faro della nostra nazione, e gli eroi queste domande non se le fanno. Magari vi viene la tentazione, poi vi guardate allo specchio, vi rimirate e via tutti i dilemmi morali!” Disse le ultime parole con un tono alto, come volesse farsi sentire da una grande folla. “Questo te lo invidio, sai?” riprese ad un tono più normale “Ma spero che tu non apra gli occhi su quanto ti hanno usato per i loro scopi. Io ci ho fatto il callo, a sapere di non essere nessuno, ma a te ti ammazzerebbe”.
Stettero in silenzio per un tempo infinitamente lungo. Il barista, nel solito angolo, guardava lo smartphone con interesse, i due al bancone fissavano punti diversi della sala con occhi inquieti. Cristo, pensò il primo, perché gli ho detto tutto questo? Cosa potrà mai cambiare? Sono VERAMENTE così?!? No, non mi sento così disperato, la mia vita non è così vuota, pensò velocemente, ma non riusciva a trovare nella testa le parole per esprimerlo. Per riabilitarsi un po’ da quella spirale di autocommiserazione.
Passarono cinque minuti, qualche goccia di sudore solcava le loro tempie mentre cercavano di trovare interessanti le bottiglie di fronte, le tende alle finestre, la televisione spenta, tutto pur di non guardarsi. Poi, quello che pensava di essere un eroe si congedò con poche parole di commiato. Si promisero vicendevolmente di vedersi un’altra sera, prima della partenza, con sorrisi tremolanti. Quando rimase solo, l’uomo al bancone pensò che perlomeno gli aveva rovinato la voglia di fare sesso per quella notte. Fece per chiamare il barista, ma quello era scomparso chissà dove.

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