Pubblicato il 10/10/2011 14:40:52
Borges scrive il prologo alla raccolta Fervore di Buenos Aires nel 1969, molto dopo la pubblicazione delle poesie giovanili. Ritiene che il ragazzo di prima non sia essenzialmente diverso dalla persona più matura, anche se sappiamo che i suoi esordi letterari sono all'insegna dell'ultraismo, dell'Avanguardia che cercava la novità a ogni costo, mirando a un'arte capace di trasformare la realtà e soprendere il lettore. Così precisa l'autore: "A quel tempo, cercavo i tramonti, i sobborghi e l'infelicità; ora, i mattini, il centro e la serenità" (J.L. Borges, Prologo, in Fervore di Buenos Aires, in Tutte le opere, a cura di D. Porzio, Milano, Mondadori, 1984-1985, vol. I, p. 7). Evidente il distacco dalla modernità a ogni costo, dal barocchismo, dalle scuole letterarie. Dietro la presunta 'rassegnazione' di uno scrittore, spesso, accusato di conservatorismo c'è, in realtà, la consapevolezza che non si può non essere moderni per il semplice motivo che ogni uomo appartiene a un determinato periodo storico e non può sfuggirvi. Emerge anche l'idea che il nuovo sia il risultato della rimodulazione di quanto è già conosciuto: una variazione su pochi argomenti essenziali. Quali? Quelli che riflettono le linee comuni del destino umano. Borges sembra più il 'teologo ateo' di cui parlava Sciascia, utilizzando un'immagine borgesiana (quella riferita a un poeta persiano) che non il palloncino colorato, trasformato in pallone aerostatico, di Raboni o lo scrittore reazionario di Eco (per il quale il carattere reazionario è legato all'impiego di una parola che si limita a descrivere il mondo e non lo cambia). La complessità dell'universo, insomma, per l'autore non è una mera illusione, necessaria affinché si compia il rito di una letteratura che sopravvive come finzione. Bastino le osservazioni sulla lingua poetica, trattata chiaramente come organismo dinamico, orizzonte in cui a ogni nome è collegata una espansione culturale e mitica perchè, preciserà nel Prologo a L'altro, lo stesso, "i linguaggi dell'uomo sono tradizioni che hanno in sé qualcosa di fatale" (Id., Prologo, in L'altro, lo stesso, in ivi, vol. II, p. 7). Le innovazioni individuali hanno qualcosa dell'opera che mira a essere un campione da museo o un brano buono per una storia della letteratura. Per questa ragione, la poesia non è un sistema astratto di simboli che cerca di imitare la libertà della musica. Questo sistema è una menzogna dei dizionari che sono posteriori alle lingue a cui danno ordine. Ogni lingua implica un sistema culturale, storico, filosofico. Il danese che pronunciava il nome Thor non sapeva se era il rumore che sentiva o il dio del tuono: la parola, magica e irrazionale, esprimeva sia un aspetto che l'altro. Il dettaglio sensoriale aveva, per lui, il fuoco della divinità. Fuoco e algebra, com'è noto, sono metafore borgesiane. Si può, quindi, affermare che, per Borges, l'ordine del linguaggio verbale va scosso, perennemente, con il fuoco della immaginazione umana. Nel Prologo alla raccolta di racconti Il manoscritto di Brodie, Borges torna sul concetto, accentuando l'importanza della parola condivisa, non di quella oscura, illeggibile, presente nei testi di Mallarmé o Joyce. Sostiene, inoltre, di preferire la tesi di Platone della Musa alla filosofia della composizione di Edgar Allan Poe per il quale la stesura di una poesia è un atto dell'intelligenza. Ci si chiede, tuttavia, se l'opera di Borges realizzi quanto proclama, se davvero, cioè, le sue poesie sono irrazionali o non, piuttosto, forme diverse di logica: una logica creativa o, per meglio dire precisando in termini filosofici i nostri assunti, una logica abduttiva. Il ragionamento pragmatico di Peirce consentirebbe, forse, di conciliare gli estremi del mito e della razionalità. In tale direzione, ogni parola apparirebbe come la conclusione azzardata, audace di un percorso più lungo del quale si mostrino solo alcune tappe, mentre altre restino sottintese e affidate all'interpretazione di noi lettori.
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