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Creatività, sì grazie

Argomento: Psicologia

Articolo di Walter Orioli 

Proposta di Loredana Savelli »

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Pubblicato il 07/05/2008

“ Essere creativi significa considerare
tutto il processo vitale come un processo
della nascita e non interpretare
ogni fase della vita come una fase
finale. Molti muoiono senza essere
nati completamente. Creatività significa
aver portato a termine la propria
nascita prima di morire . ”
E. Fromm 1959

“Siamo realisti: esigiamo l’impossibile!”
diceva un famoso
slogan del Maggio francese.
“Fantasia al potere” ribattevano nello
stesso periodo gli studenti all’Università
Statale di Milano.
A distanza di anni sappiamo com’è
andata la storia politica nei nostri paesi,
a confermare, forse, che per gli adulti non
è così facile passare dal piano della realtà
al piano della rappresentazione ideale
nella quale manifestare desideri e tensioni
che non trovano espressione altrove.
I bimbi, invece, passano facilmente
dal piano del reale a quello del fantastico
e proprio lì trovano un maggior senso di
sicurezza di quanto gli sia consentito sperimentare
sul piano di realtà. Essi crescono
con i famosi oggetti transizionali, come
bambole, coperte di Linus, orsacchiotti
che portano sempre con sé e dai quali ricavano
quel senso di sicurezza che crea la
base agli ulteriori rapporti affettivi che in
seguito stabiliscono con le persone.
La fantasia è già al potere nel mondo
del bambino che stabilisce nuove connessioni
tra pensieri ed oggetti portandolo
a crescere, innovarsi e a cambiare.
Per l’adulto essere realista spesso ha
il senso di esigere l’impossibile, ovvero
ciò che non è ancora possibile. Ciò che
ricerchiamo in continuazione è la novità,
quello che si colloca al di fuori delle previsioni
scontate, inoltre viviamo in un
regime di doppia verità che da un lato
riconosce la realtà, dall’altro la sconfessa
rinviandola nella rappresentazione percettiva-
soggettiva.
Accettare questa natura di incertezza
è il fondamento per una vita felice e creativa.
Un giorno chiesi ad un amico che
cos’era per lui la creatività, egli mi rispose:
“Ciò che inseguo giorno per giorno,
ora per ora. A me bastano, infatti, poche
ore trascorse senza aver fatto qualcosa di
creativo per sentirmi male, ore in cui ho
momentaneamente perso il contatto con
le mie ‘caverne’. Tutto quello che si è
detto sulla creatività non è stato sufficiente
a svelarne il mistero. Provo un
vago senso di disagio a parlare della creatività
come della bellezza: mi sembra di
infrangere un incantesimo sacro, cui le
parole possono solo vagamente alludere”.
Sono d’accordo, ma sull’infrangere
un incantesimo mi sembra un po’ esagerato,
o per lo meno devo ammettere subito
che amo infrangere gli incantesimi, del
resto a quale principe non piacerebbe
baciare Biancaneve per farla ritornare in
vita e vivere felici e contenti senza incantesimi?
D’altro canto è altrettanto vero che
siamo tutti figli di Aristotele e del “cogito”,
ma proprio per questo incipit razionale
c’è la necessità di sviluppare linguaggi
che sfuggono alla razionalità e
non per questo sono meno veri. La danza
e il teatro, ad esempio, non meritano il
trattamento marginale a cui sono continuamente
sottoposti dall’entourage scientifico-
istituzionale. L’arte in genere
dovrebbe, con i suoi linguaggi, apportare
una grande ricchezza comunicativa e
profondamente umana alla società anche
se poco ha a che fare con quel tipo di pensiero
razionale-aristotelico e molto con
l’agire istintivo.
“Siamo realisti: esigiamo l’impossibile!”
Esprimiamo la capacità di godere del
mondo che ci circonda quando siamo
fondamentalmente creativi, per esempio
lavoriamo volentieri al colmo dell’energia
e dell’entusiasmo.
“Siamo costretti a considerare la creatività
piuttosto come una regola che come
un’eccezione”, scrive L. S. Vygotskij, per
il quale l’esercizio creativo è “qualunque
attività umana che produce qualcosa di
nuovo”, quindi è la novità creativa che
definisce la percezione di essere vivi.
Potremmo affermare: “Creo dunque esisto”
oppure “Non creo quindi non ho la
certezza di esistere”.
La creatività è solitamente lasciata in
dotazione agli artisti, ma tutti possiamo e
dobbiamo esercitare quegli aspetti del
pensiero divergente, dettati dall’emisfero
destro del cervello, che costituzionalmente
fanno parte di noi stessi.
L’adulto per lo più è “educato” al
pensiero convergente, razionale e logico,
ciò restringe lo spazio di intervento del
pensiero stesso e in particolare di quello
divergente, creativo e alogico che
anch’esso ha diritto di cittadinanza in
una crescita equilibrata. Si pensi solo ad
un campione d’intelligenza, quale fu
Leonardo Da Vinci e alla sua modalità di
pensiero scientifico-ludico-razionale.
Anche noi con le nostre possibilità
possiamo diventare dei piccoli campioni
d’equilibrio creativo se accettassimo che,
come dicono in Oriente, “di ogni verità
(razionale o no) è vero anche il contrario”.
Questo non vuol dire non essere
coerenti eticamente con il proprio credo
umano, religioso, politico, ma semplicemente
che l’utilizzo di una sola verità di
pensiero limita le potenzialità mentali, in
altre parole stiamo trascurando di guardare
la realtà dall’angolazione del pensiero
intuitivo, indipendente dal Super-
Io, dalla morale e dalle norme sociali.
L’istinto è parte integrante del processo
fisico, emotivo, mentale, anche se a volte
è giudicato “infantile” in quanto richiama
le origini storiche e antropologiche
dell’uomo stesso.
Ricordiamo che gli adolescenti di
oggi sono stati bambini soltanto ieri e gli
adulti di oggi sono stati adolescenti fino
all’altro ieri, i vecchi di oggi sono stati
giovani fino a qualche anno fa. La
dimensione temporale dell’esistenza
riporta sempre, volenti o nolenti, all’infanzia,
al bambino che c’è in ogni adulto.
Come sappiamo bene, i primi anni di
vita sono il fondamento strutturale del
nostro equilibro psico-fisico e relazionale.
La manifestazione di un sintomo di
malessere nel bambino è costituita dalla
sua inattività cinestetica. Winnicott affermava
che quando un bambino gioca si ha
la certezza che sta bene. Se un bambino
non gioca, con gli altri o da solo, quest’inattività
deve preoccupare l’adulto.
Che cos’è il gioco? La definizione
più bella di gioco è quella che lo identifica
con un’attività che ha il proprio
aspetto gratificante in sé e non nel fine o
nel risultato che produce.
Il gioco si presenta nel mondo umano
in modalità assai complesse perché mette
in moto, oltre al patrimonio istintuale,
anche la vita emotiva, quella intellettiva
e i processi di socializzazione.
Nessun uomo, seppur ricopra un
posto di alta responsabilità, può sottrarsi
al gioco, non sarebbe un uomo sano e
ci sarebbe da preoccuparsi se non si
“lasciasse andare” a manifestazioni ludiche
che impegnano il pensiero divergente.
Per il bimbo, il gioco è indispensabile
come l’aria che respira e nel quale il
bimbo diventa adolescente e poi adulto.
Ci possiamo chiedere quindi come possa
l’adulto trascurare un’attività così decisiva
come quella ludica? Quale prezzo
dovrà pagare se rinnega la giocosità
istintuale insita nella natura umana?
Il blocco creativo in un individuo
‘normalmente dotato’ è sintomo di un
malessere più profondo da ricercare nella
coscienza. A volte è necessario un lavoro
analitico più o meno lungo per mettere
la persona nelle condizioni di sviluppare
nuovi progetti di vita. A volte è sufficiente
agire direttamente sul sintomo
ponendo la persona in una condizione di
decondizionamento dal blocco creativo.
Come? Agendo sull’extraquotidiano,
cioè quell’area che comprende l’arte, il
gioco e tutte le attività che rifuggono la
banalità e la volgarità dettata dalla routine,
di schemi comportamentali che si
ripetono sempre uguali a sé stessi.
Sappiamo dalla cronaca quotidiana
quali terribili omicidi familiari e sociali
è capace di compiere un soggetto che
non sa più giocare o che non esercita da
troppo tempo l’ilarità e lo scherzo.
“ L’artista, - dice Roberto Benigni - il
giullare è un uomo che vuol dare amore e
vuole ricederlo, vuole essere lieto e superare
il dolore mutandolo in una risata.”
La creatività è uno spazio dove ci si
concede molti permessi tra cui quello di
giocarsi, ascoltarsi, esprimersi con
modalità inconsuete utilizzando il corpo.
Quale miglior setting del teatro è in
grado di abbattere i comportamenti schematici,
copioni ripetuti, personaggi ipercorazzati?
Vi è un esercizio meraviglioso
che si propone in teatro: in silenzio si
prende per mano un compagno e si sta lì
fermi, mani nelle mani a guardarsi negli
occhi per cinque minuti. In quegli occhi
si può vedere la profondità, si possono
notare paure e gioie di un’intera vita.
Quando poi si esce dal teatro e camminando
per strada si incontra qualcuno e
si abbassano gli occhi per pudore o per
non incontrarlo ci si rende subito conto
di come e cosa si pone tra noi e gli altri,
di come si blocca la comunicazione. Un
piccolo trauma anticreativo che assommato
a tanti altri schemi comportamentali
difensivi porta a vivere senza vitalità.
Nel gioco dell’improvvisazione teatrale
interpretiamo spontaneamente personaggi
molto diversi stimolando in noi
stessi la capacità di allontanarci dai ruoli
e dagli schemi comportamentali stabiliti.
Il nuovo personaggio, nato dal corpo
in azione, è in grado di emozionare l’attore
riportando in lui una nuova scena
ricostruendo quella spontaneità perduta.
Se il teatro come gioco fosse applicato
in diversi settori dal sociale, all’educativo,
all’aziendale potrebbe portare
un grande contributo per le risoluzioni
dei conflitti relazionali, psicopedagogici
o per la formazione di staff di lavoro. Nei
nostri laboratori teatrali, attraverso il
gioco dell’improvvisazione teatrale,
interpretiamo spontaneamente personaggi
molto diversi stimolando la capacità di
allontanarci dai ruoli e dagli schemi
comportamentali stabiliti. “Facciamo
finta che sono il papà” dice Marco di
nove anni e si atteggia con il petto in
fuori, si raddrizza la schiena, si dà una
certa importanza, s’immedesima nel suo
modello, in un’immagine materiale e
simbolica che lo proietta nel futuro.
Spesso un adulto che gioca troppo è
una persona che ha paura del dolore e lo
tiene lontano scherzando in continuazione.
Di questi adulti il mondo ne è poco
popolato, al contrario della gran massa di
adulti che nel dolore ci stanno perché
hanno paura dei cambiamenti, dell’incertezza,
della precarietà. Questa paura
inconscia si manifesta nella paura di giocare,
infatti, il gioco porta a prendere
contatto con la precarietà del comportamento
e conduce verso un possibile cambiamento
di stato.
Non è automatico il passaggio dal
gioco alla creatività, ma è certo che la
favorisce come facilita il passaggio al
simbolo.
Jung leggeva nei disegni e dipinti dei
suoi pazienti l’evoluzione del disturbo
mentale ed era in grado di stabilire l’archetipo
sottostante, cioè quel nucleo di
significati simbolici in grado di indirizzare
le scelte di vita o di morte, di progresso
o regresso, legate allo star bene o
star male, in altre parole all’individuarsi
come persona unica e originale.
Freud stesso ha ideato il gioco delle
libere associazioni per analizzare ciò che
la persona non è in grado di comprendere
con il pensiero convergente e razionale.
Altri dopo di lui, S. A. Mednick
(1962), hanno scoperto che la caratteristica
essenziale del pensiero creativo è
proprio “la capacità di mettere insieme in
modo utile idee di solito lontane l’una
dall’altra, cosicché più sono reciprocamente
remoti gli elementi delle nuove
combinazioni e più sono creativi il processo
e la soluzione”.
Nella nostra esperienza del processo
creativo vi è un punto in cui spazio e
tempo si equivalgono, s’intersecano e
producono la soluzione. Un’esperienza
eccezionale di fusione nella quale la persona
si percepisce come unità rara e particolare.
In quel punto avviene il cambiamento.
Un attimo prima l’uomo è
ordinario, quotidiano, un attimo dopo è
straordinario, extraquotidiano e lì, in
quel punto, varca una soglia e accede al
suo essere profondo che alcuni chiamano
Sé.
Negli anni ’60 volevamo portare la
creatività al potere, ma non avevamo
capito che ciò è strutturalmente impossibile.
Il governo delle cose nulla ha a che
vedere con il potere personale su se stessi.
Non illudiamoci, la creatività non può
andare al potere, sarebbe una contraddizione
in termini. Nonostante ciò sappiamo
che quando il bambino gioca diventa
più bambino assumendo il potere su se
stesso, sul proprio corpo, sulle emozioni
e sulla mente e un adulto che gioca è in
grado di mettersi in contatto con la propria
parte creativa e quindi di esercitare
il proprio destino.
Se pensassimo il potere politico al
servizio della creatività, concepita come
cambiamento, dovremmo immaginare
continui processi destabilizzanti, questo
non potrebbe essere sopportato dal potere
stesso che mira alla conservazione di
sé. Se affiancassimo però al re un giullare,
al ragionamento l’improvvisazione,
al trionfo del pensiero economico quello
della ragione, al lavoro mentale quel -
lo manuale, all’attività finalizzata quella
non finalizzata, allora forse il mondo
cambierebbe.
Potremmo concepire di essere bianco
e nero, yin e yang, razionali e irrazionali.
Ponendo la creatività come elemento
guida, essa diverrebbe sia un valore
sia una metodologia, in altre parole
l’etica capace di guidare la barca umana
nell’oceano dell’instabilità e degli opposti.
L’evoluzione umana è costellata di
grandi cambiamenti, il nostro corpo rinnova
continuamente le sue cellule, la
psiche è costantemente in stato di equilibrio
mutevole, la personalità è decisamente
poliedrica eppure c’è un ordine
preciso dentro e fuori di noi.
Tutti i sistemi viventi autonomi, a partire
dalla biosfera, sono sistemi in non equilibrio,
ma spontaneamente trovano
un ordine nella complessità delle attività
e ciò avviene sia per gli ecosistemi sia per
sistemi di tipo economico e sociale. Per
esempio gran parte dei conflitti e guerre
nascono dalla non accettazione di diversità
culturali e di razza, mentre grandi
imperi nella storia, da quello Inca a quello
Romano si nutrivano della comprensione
delle diversità; anziché essere fonte
di separazione la diversità rappresentava,
almeno all’inizio, la peculiare ricchezza
del loro potere.
Le diversità sono ciò che potrebbe
permettere di trasformare l’antagonismo
in complementarietà, la divisione in cooperazione
e l’esclusione in inclusività. È
così che la creatività nasce dall’unione di
diversi e da un pensiero decisamente
positivo la cui tappa successiva potrebbe
essere la scoperta del sacro come
senso del nostro valore profondo. Ma
questo lo vedremo nella prossima puntata,
per ora accontentiamoci di sapere che
“creatività significa aver portato a termine
la propria nascita prima di morire” (E.
Fromm 1959), ovvero considerare tutto
il processo vitale come un cammino di
creazione di sé.

WALTER ORIOLI, Psicologo, psicoterapeuta,
teatroterapeuta, Associazione
Politeama, Monza (MI) - info@teatroterapia.it

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