[ Intervista a cura di Paolo Polvani ]
Conosco Vera da oltre dieci anni e appartiene alla consuetudine associare alla delicatezza dei suoi gesti, al fascino della sua voce in cui affiora, come una dolce musica, un incantevole accento brasiliano, la potenza di una visione capace di penetrare la bellezza e spingersi fino a percepirne il progressivo incresparsi nelle pieghe della sofferenza, lo sguardo radicato sulla soglia epifanica del dolore.
Ho sempre molto amato una poesia di Vera, tratta da Tempo di soffrire, s'intitola Il gatto e la fisica, e mi accorgo di ricordarla a memoria anche nella versione portoghese. Recita un verso: la fame muove il gatto alla domanda.
Lo sguardo di Vera riconosce in ogni cosa, in ogni persona una segreta, implicita fame, una vocazione intrinseca alla inevitabile deriva che ogni cosa porta scritta in sé come destino.
È in questo sguardo che si riconosce quella devozione al luminoso male di vivere, secondo la felice espressione di Vincenzo Guarracino.
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1) Se possedere una lingua è possedere un mondo, avere più lingue a disposizione è una ricchezza senza limiti; in che misura ti senti consapevole di tale ricchezza ?
Vivere in due lingue talvolta può essere molto complicato. Cerco di non mescolarle, dall’inizio ho sempre seguito questo principio anche perché ogni lingua ha il suo ambito, il suo ritmo, il suo universo culturale. E poi perché ho scoperto che potevo utilizzarle per partire e tornare da una lingua all’altra e di rendere, così, sempre presente la magia di vedere e di nominare le cose come se fosse la prima volta. Il bambino è poetico perché le parole gli servono per nominare il mondo, egli non si è ancora assuefatto ad esse, le pronunzia con stupore, convinto che nella parola ci sia qualcosa della realtà che egli nomina. I poeti conservano questo stupore, altrimenti non si accorgerebbero della magia e bellezza che hanno certi vocaboli, anche di uso quotidiano. Ci sono grandissimi poeti, come Manuel Bandeira, che mostrano che anche il registro linguistico più umile o più quotidiano è poetico quando ha in sé quella carica di autenticità e di intensità e di vita.
Ogni lingua è una prospettiva sul mondo, ogni lingua nasce in un tempo e in uno spazio per rispondere alle esigenze di chi la parla, di chi l’ha plasmata nei secoli. Le lingue ci abitano e sono abitate da noi. Così, visto che mi sono trovata nella confluenza di due culture e due lingue, cerco di usarle anche per arrivare più dentro e più a fondo, per scandagliare l’anima mia e del mondo.
2) Secondo te c'è un criterio selettivo per cui le poesie vengono a cercarti talvolta in italiano e talvolta in portoghese ?
Sicuramente c’è un criterio, dipende dal momento e da quello che inseguo. Per me la poesia è introspezione, riflessione e così passo molto tempo in certi percorsi in profondità, sollecitata da tutto ciò che mi sta attorno, dalle persone vicine e lontane, dalle sensazioni, dai sentimenti, dalle parole e dai silenzi. La cosa che mi stupisce è che non so mai il momento in cui comincio a scrivere un libro, cioè non decido che scriverò questo o quello e poi mi metto seduta al computer e via. Comincio a scriverlo per vie traverse, a volte anche contro me stessa, contro i miei desideri, perché fare certi viaggi nell’anima delle cose può essere molto doloroso. Mi ritrovo spesso, però, già dentro percorsi impervi nei quali mi sono portata dietro una lingua e poi quella è la lingua in cui debbo esprimermi. Mi rendo conto che avrei dovuto fare il mio percorso solo in portoghese o solo in italiano, perché così finisco emarginata nelle le due tradizioni letterarie, ma poi penso: perché dovrei rinunziare a questa ricchezza, a questa doppia possibilità di camminare?
3) Il dolore è uno dei tuoi luoghi poetici più frequentati; lo avverti come una limitazione o come un'occasione che dona luce alla vita ?
Penso che il dolore non sia mai un bene. Ci sono persone che impazziscono, che si ammalano per il dolore. Ci sono persone che diventano aride, cattive e rancorose per il dolore. Afferma Franco Rella, nel libro Figure del male, che il dolore “rende l’uomo res relicta, cosa abbandonata, cieca a tutto se non alle vampe oscure della sofferenza” (p. 28). Raramente il dolore porta luce alla vita, come affermi. La teologia del sacrificio e della croce serve per consolarci della nostra fragilità, per aiutarci a sopportare la malattia, per dare un senso alla morte. Eppure, anche nella sua negatività, il dolore apre canali di conoscenza. Quando è morto mio padre ero molto giovane, ma ho avuto la sensazione fisica che un grande velo mi si fosse lacerato dentro, nel dolore vedevo di più, sentivo di più e soffrivo anche di più. Se qualcuno mi chiedesse “ma vale la pena?”, “questo conoscere di più paga la pena del dolore?”, risponderei che non possiamo scegliere, quando abbiamo aperto gli occhi abbiamo cominciato a vedere e, in un certo senso, a sofffrire, perché ci accorgiamo di essere, ci accorgiamo di noi, della nostra coscienza e del nostro corpo e, subito, della nostra grande fragilità.
4) Se la poesia è un'effervescenza di parole che certifica la gioia di stare al mondo, in che misura ti riconosci in questa affermazione e come pensi possa conciliarsi con la situazione disastrosa del pianeta e col dramma di ogni singola persona ?
Innanzitutto non sono sicura che la poesia certifichi la gioia di stare al mondo, forse proprio il contrario. La poesia oggi viene emarginata perché è il linguaggio della discesa nell’anima e nel cuore umano. Si può fare poesia su tutto, anche sulla sagra di paese, sull’amore, sul cibo, sulla bellezza di un corpo, ma, se vuoi arrivare a certe profondità, se vuoi fare un viaggio verticale nell’essere e nel mondo, solo la poesia ti accompagna e, allo stesso tempo, ti illumina e ti salva. Per la sua sintesi e densità, per la capacità di unire i contrari e di incorporare le contraddizioni, per la sua forza e radicalità, solo la poesia è capace di guardare dentro cose che mai avremmo potuto o voluto vedere.
Hannah Arendet, nel bello e terribile libro La banalità del male, nel quale fa una cronaca dettagliata del processo a Adolf Eichmann, tenutosi a Gerusalemme nel 1961, afferma che la tragedia e lo sterminio sistematico e quasi “scientifico”, se così possiamo dire, per la meticolosa organizzazione, di milioni di ebrei e zingari durante la seconda guerra mondiale non può essere compresa “fuori del regno trasfigurante della poesia”. (p. 236) E in più momenti del libro lei ritorna su questo, convinta che solo la poesia possa dare conto di una così grande tragedia.
Per tutto questo, la poesia è il linguaggio della lentezza e della profondità, della riflessione e del silenzio. È anche il linguaggio della gioia, della celebrazione del miracolo di essere vivi, ma non della risata ottusa ed esteriore dei presentatori e ospiti televisivi che ci propongono un mondo patinato, dove tutti sono belli e felici, sani e abbronzati. I problemi più grossi che hanno questi “modelli” del genere umano possono essere come dimagrire per la “prova costume” in estate, come si è conciata la regina per la festa del suo compleanno, quale è il taglio di capelli di moda per Natale.
Qualche volta guardo, per masochismo, uno di questi programmi che infestano tutti i canali e mi viene da pensare che, scegliendo la poesia, mi sono messa in una strada molto solitaria…
5) Sebbene sia ignorata dal mercato, esiste tuttavia un grande fermento e una grande curiosità intorno alla poesia, anche grazie alla rete e alle possibilità che offre; quale futuro prevedi per la poesia ?
Non so, dipende dai giorni. Se mi arriva, anche grazie alla rete, una bella poesia, se leggo un libro nuovo e intenso, allora ricomincio a credere davvero che la parola poetica sia un grande fermento del mondo e per il mondo. Vorrei credere che possa trovare più spazio, ma mi rendo conto che tutto nella nostra società trama contro di essa. Eppure, so con certezza che ci saranno sempre grandi poeti, che si “contagiano” a vicenda, come una specie di malattia che prendono e che uno trasmette all’altro, di un altro tempo e di altri spazi, la poesia viaggia, nelle valigie, nei libri, nelle canzoni, nelle lettere, attraversa le frontiere.
6) Ci sono luoghi in Italia che avverti come particolarmente affini e che ti ispirano poesia e perché ?
L’Italia è un paese che ho amato anche prima di conoscerlo fisicamente. Ho iniziato, anzi, a conoscerlo tramite i poeti, più precisamente Ungaretti, che è stato importante nella mia decisione di fare poesia. Prima scrivevo prosa, racconti.
Quanto alla tua domanda, non ho un posto specifico in cui fare poesia, ogni posto frequentato e vissuto dagli uomini, miei fratelli, del presente e del passato e anche del futuro è carico di storia e poesia. Inseguo tutte le tracce, i segni, i solchi lasciati dall’umanità per vivere, per edificare o per distruggere qualcosa, per plasmare una statua, comporre una musica, costruire una casa, piantare un albero, seppellire una persona amata. Dell’Italia mi piace che si vive dentro la storia.
7) Hai un ricordo legato al momento in cui ti sei accorta che la poesia veniva a cercarti?
Ho tanti ricordi, ma uno è particolare perché, nel momento in cui l’ho vissuto, mi si è palesata, in forma concreta, una mia inquietudine forte, anzi, un turbamento, una domanda che mi accompagnava da sempre e che si è trasformata in linguaggio, nel testo “La storia” (della raccolta Tempo de doer / Tempo di soffrire):
LA STORIA
il corpo di un torturato
scava attraverso i secoli
la sua intensità di dolore e morte
ma Dio, per il quale non esiste la storia
come sopporta l’orrore
dell’istante
in cui ciò che cambia
è solo la bocca
che grida?
Ho iniziato a scrivere questo libro, pubblicato nel 1998, una domenica in cui facevo con mio marito una passeggiata a Ferentillo, in Umbria. Siamo abituati (allora ben più di adesso, purtroppo), a organizzare gite nel fine settimana fra le tante città ricche di storia e arte dell’Italia centrale (Umbria, Marche, Lazio e Toscana). Una domenica decidemmo di andare a visitare Ferentillo, in Val Nerina, nella cui chiesa sono conservate diverse mummie risalenti al XV secolo. Il curioso fenomeno si è verificato perché i corpi seppelliti nella cripta della chiesa hanno subito un processo di mummificazione naturale, dovuto alla particolare conformazione del terreno.
Appena iniziammo a visitare la chiesa, tuttavia, mi impressionai tanto che mi fu impossibile completare il percorso con gli altri visitatori. Dovetti uscire, presa da una forte emozione, da una grande angoscia, non per quelle povere mummie, non per la morte in sé che esse rappresentavano, ma per quello che esprimevano i loro volti, nonostante tutti i secoli passati. Una, in particolar modo, mi impressionò: la mummia di un uomo, un condannato a morte per impiccagione. Il suo volto era ancora contorto dal dolore, nel suo corpo il dolore era rimasto impresso, immutabile per sempre. Nulla aveva potuto cancellare o attenuare la sua pena e io mi sono chiesta se, per tutti questi secoli, qualcuno avesse sentito l’urlo silenzioso e disperato di quell’uomo.
Un forte nucleo di riflessioni si concretizzò in immagini, parole e furono necessari mesi di concentrazione per questo viaggio dentro le cose e le persone. Lavorai freneticamente, ogni poesia ne chiedeva un’altra, sollecitava un nuovo testo. È come se il libro fosse stato già completo dentro di me, come se avesse avuto solo bisogno di uno stimolo esterno per concretizzarsi.
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Leggi sei poesie di Vera proposte nella sezione "Poesia della settimana"
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L'intervista è segnalata sul sito dell'"Itau Cultural", una delle Fondazioni Culturali più note e importanti del Brasile: http://conexoesitaucultural.org.br/?p=3113