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Vita e opere di Athur B. Dale, pittore di mondi

di Stefano Ficagna
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Pubblicato il 20/09/2017 21:24:57

“Così io non scorgerò più il male che ho sofferto e fatto, nel buio ormai non vedrò quelli che bisognava non vedere, non riconoscerò più quelli che desideravo riconoscere, avrei dovuto lacerarmi anche le orecchie per chiudere meglio in me stesso il mio corpo infelice, e non vedere e non udire più niente.”
Pier Paolo Pasolini, Edipo Re

“Devo convincermi che, quando chiudo gli occhi, il mondo continua ad esserci.”
Christopher Nolan, Memento


Se scrivo queste note accanto a quello che, secondo le diagnosi mediche, sarà il letto di morte di Arthur B. Dale non è solamente per saldare un profondo debito di amicizia, né per farne l’ennesimo sterile elogio: l’importanza di un simile artista nel panorama mondiale è già stata ampiamente riconosciuta, ma nessuno si aspetta che la sua carriera eclettica possa riservare un’ultima sorpresa. Io sono qui per redigere una cronaca che, se completata, risulterà nient’altro che una sequela di supposizioni errate; altrimenti, sarà difficile sorprendersi per il completamento della sua ultima, inaspettata performance.
Una disamina di ciò che lo ha portato fino a qui è necessaria perché il quadro (quanto è ironicamente appropriata questa parola!) sia chiaro. Lo ricordo quando si affacciò, poco più che un ventenne di belle speranze, nel mondo delle piccole mostre dedicate ai giovani di talento, solo un buon discepolo della scuola surrealista con un tratto spigoloso che rimandava a certi aspetti della pittura metafisica di De Chirico. Ottenne critiche tutto sommato buone, ma nessuno di questi dipinti giovanili aveva la forza visiva necessaria a farlo spiccare fra i tanti: il surrealismo non era più un movimento capace di attrarre gli sguardi del pubblico e della critica, rivolti sempre verso qualcosa di innovativo, così anch’egli cercò un’intuizione nuova ma sempre partendo dalla lezione dei maestri. Il simbolismo dei dipinti di Max Ernst fu lo stimolo necessario a fargli percorrere una nuova strada, più personale.
La sua seconda fase, sicuramente la più fertile per numero di opere e la più apprezzata dalla critica conservatrice, fu un’esplosione di idee su tela che aveva dell’incredibile. Soprattutto nei primi lavori, più grezzi e visionari, la presenza di dettagli anche minuscoli sparsi in opere fitte di elementi era quasi destabilizzante. Tali elementi avevano ognuno un significato, ma esso veniva trovato a posteriori: non considerava un dipinto finito fintanto che non era riuscito a dare un senso compiuto a tutto ciò che si trovava al suo interno, una sorta di autoanalisi che andava a completare la fase iniziale, liberatoria, della libera associazione di idee. Produsse in questo modo una trentina di dipinti in soli cinque anni (senza contare i fantomatici “quadri folli”, opere senza uno scopo di cui solo si ipotizza l’esistenza ed ormai assurti a leggenda metropolitana), una velocità resa ancora più eccezionale dal fatto che, solitamente, era il tempo passato a dare un significato alle proprie invenzioni quello che lo occupava maggiormente e che, a parere degli esperti, fu la causa del suo progressivo mutamento artistico e caratteriale.
Assolutamente da menzionare, anche solo per il significato profondo che hanno avuto negli sviluppi della sua carriera, è la serie di dipinti con cui concluse questo fecondo periodo, conosciuta come I Sette. Senza titolo se non la semplice numerazione progressiva con cui sono conosciuti, fu egli stesso a volerli collegare uno all’altro sostenendo che “i significati simbolici di questi quadri sono strettamente collegati da un filo che li percorre tutti: ogni dipinto successivo nella serie trova la sua giustificazione in ciò che il precedente mi ha rivelato”. Quale fosse questo filo in tanti hanno provato ad ipotizzarlo (un profano vi vide l’elogio dell’agricoltura, un filosofo la conferma, tacita in quanto intrinseca al discorso, delle posizioni estreme di Cratilo), ma Arthur si è sempre rifiutato di aggiungere altro, restio ad aprire il suo inconscio quasi che dovesse tenere segreto il particolare rapporto psicologico che aveva col suo lato inventivo.
Senza dilungarsi oltre vanno assolutamente portate all’attenzione almeno tre opere di questa serie: Due, raffigurante il viso di un uomo calvo composto dalle figure contorte dei musicanti di Brema, nei cui occhi rosa si riflettono funghi atomici gemelli, il tutto sospeso in uno straniante biancore asettico; Cinque, raffigurante la vagina di una donna obesa da cui escono lingotti viola carpiti da lussuriose lingue volanti, provviste di ali d’arpia; Sei, la crocefissione ad una struttura formata da televisori spenti di una serie di figure geometriche intersecate, il tutto dipinto con diversi toni di grigio sfocianti nell’orizzonte attraversato da linee di disturbo simili ad interferenze (qualcuno ha ipotizzato un omaggio alle righe iniziali di Neuromante di William Gibson, nonostante non ci siano prove di simili citazionismi in altre opere).
Una maggiore essenzialità, come si evince dalla descrizione offerta, era il tratto caratteristico della serie, una sorta di processo di sottrazione che esplode prepotentemente in Sette, vero catalizzatore degli sviluppi futuri dell’estetica di Arthur: raffigurante un occhio sospeso in un cielo azzurro solcato da rade nuvole, la cui pupilla triangolare contiene al suo interno uno specchio (unico tentativo, per quel che è dato sapere, dell’utilizzo di materiali non propriamente pittorici all’interno delle proprie opere), il dipinto è considerato l’opera più esplicita della sua carriera, un parere universalmente condiviso che trovava tuttavia nello stesso autore uno strenuo oppositore. “Non trovo le giuste domande da pormi per capire cosa volessi intendere con questo quadro”, scrisse all’amico Benjamin Fedque, autore di haiku per più di vent’anni sul Courier, “tutte le risposte che trovo sono solo banali riferimenti al divino. Mi rifiuto di credere di poter essere stato così mediocre nella mia ispirazione, non toccherò un pennello finché non riuscirò a dare un senso reale a questa opera incompiuta (Sette risulta, a tutti gli effetti, l’unica eccezione alla regola della presentazione ad introspezione ultimata, probabilmente dovuta al suo collegamento con le altre opere della serie, un trait d’union che Arthur sentiva in maniera forte al di là del senso sfuggente dell’opera stessa)”. Fu di parola: per due anni nessuno seppe più niente di lui. Nel periodo di massimo splendore, quasi come se la sua arte fosse fiorita per giungere al suo massimo fulgore naturalmente, senza forzature, si ritirò nella villetta di campagna di famiglia con come unica compagnia la natura ed una vasta libreria. Fu dopo infinite letture, una ricerca intensa ed inesorabile verso una meta nebulosa che, ne era convinto, sarebbe diventata chiara una volta raggiunta, che trovò alfine l’idea che modificò in maniera progressivamente drammatica la sua arte e, di coseguenza, la sua vita, giacchè le due sfere non potevano ormai essere più distinte.
Leggendo Heidegger e travisandone le parole sul disvelamento della verità, nei termini in cui il cui il filosofo tedesco legava in un rapporto intrinseco l’uomo e la sua disposizione a lasciar manifestare l’essere senza forzare il velo che lo nasconde ai nostri occhi, Arthur si convinse che Sette fosse un’opera che trascendeva la sua psiche e lo specchio, nel suo riflettere tanto l’autore quanto gli spettatori dell’opera, un mezzo per rendere tutti partecipi in egual misura di quella verità dell’essere che, come pudica, si nega ad un’analisi approfondita. “Ma in me è entrata”, mi disse febbrile nel cuore della notte, durante una telefonata improvvisa in cui mi spiegava la sua sconcertante scoperta, “ed ora non posso fare altro che adempiere alla sua volontà: dipingerò senza dipingere”. Cosa intendesse con questa frase sibillina fu sotto gli occhi di tutti poco più di un anno dopo, quando fece il suo ritorno nelle gallerie d’arte che lo avevano elogiato pochi anni prima: un ritorno trionfale, per quanto inaspettato agli occhi dello stesso autore.
Arthur si presentò alla mostra a lui dedicata con otto tele, tutte monocromatiche. Spennellate violente di colore ricoprivano ogni millimetro dei dipinti, un escamotage per nascondere alla vista ciò che in origine vi era raffigurato. Prodigo di particolari come mai prima di allora, Arthur spiegò di aver dipinto bendato quei quadri solo all’apparenza banali, lasciandosi andare in maniera ancor più sfrenata al solito gioco delle libere associazioni mentali per poi cancellare ogni traccia di quelle visioni sotto pennellate rabbiose, utilizzando un colore diverso per ogni tela. Di quelle oniriche invenzioni rimanevano solo titoli suggestivi ed enigmatici in egual misura: “Tramonti ottagonali nei paperi dimezzati”, “Lampada con corno su refrain di cornamuse inalberate”, “L’orizzonte e la madama suppliziante di vergogna”, e via di questo passo. La critica, esclusa quella più conservatrice, si rivelò entusiasta. Arthur passò dall’essere un originale surrealista allo stato di artista concettuale, le cui opere acquistavano valore in base al senso con cui erano state concepite più che per merito del loro impatto visivo. Ed egli, che si aspettava di non essere compreso, entrò nuovamente in crisi.
Qui iniziano le supposizioni, dovute più che altro alla comunicazione scarna che intrattenne nell’ultimo periodo della sua carriera sia con gli amici che con i media. Cavalcando involontariamente la nuova nomea di artista concettuale, pedina ignara di un gioco più grande di lui e che del suo agitarsi invano si faceva beffe, decise che nascondere semplicemente le proprie visioni agli occhi altrui non era abbastanza: esse andavano distrutte subito dopo il concepimento, quasi che la possibilità che parte del significato potesse emergere da esse sottintendesse un pericolo mortale. Le bruciò, le polverizzò con la dinamite, le dilaniò con l’acido, e per ognuna di queste brutalizzazioni delle proprie opere si radunò una folla sempre più numerosa, colma di critici entusiasti intenti a lodare le performance con sterili discorsi sull’arte che rifiuta sé stessa. “Sono disperato” mi scrisse un giorno dopo mesi di chiamate senza risposta, “per bene che vada tutto questo clamore indica che non sono stato minimamente capito. Ma se lo sono stato, allora c’è qualcosa che ancora mi sfugge...e sono terrorizzato all’idea di scoprire cosa sia”. Non rispose alle mie successive richieste di spiegazioni, quasi che quella terribile premonizione si fosse avverata un istante dopo l’attimo in cui mi ebbe confessato i suoi timori: era ormai perso nell’estensione parossistica del suo dogma privato, quello secondo cui l’afferrare anche solo parzialmente la verità sottintesa dalle proprie opere costituisse una minaccia per l’intera realtà. Congetture le mie, lo riconosco, visto che non ho ancora prove concrete da portare al riguardo: certo fu d’altronde l’acuirsi di comportamenti bizzarri e deliranti da parte sua, dal girare tentoni per la città con una benda sugli occhi allo scagliarsi come pazzo per le strade, urlando e sbavando con le mani ossessivamente premute sulle orecchie; nemmeno coloro che inizialmente scambiarono tali atteggiamenti per l’ennesima performance poterono più rifiutare la realtà dei fatti di fronte all’estremizzarsi dei suoi comportamenti, e la conclusione inevitabile fu che Arthur stesse sprofondando nella follia. Dopo le sue ultime apparizioni in pubblico, sempre più trasandato ed ignaro di ciò che gli gravitava attorno a causa di impedimenti autoimposti ai propri organi sensoriali, sparì dalla circolazione per un paio di mesi prima di essere ritrovato nella magione di campagna dal suo agente, ormai in condizioni critiche di denutrizione e disidratazione: il che spiega come sia arrivato su questo letto d’ospedale.
Ciò che non ho ancora spiegato è la mia presenza accanto a questo letto. Non mi alzo mai da questa sedia. Mi portano i pasti, e quando non guarda nessuno svolgo le mie funzioni corporali nel vasino da notte, quasi che sia io il paziente e non lui. Aspetto un evento, e mi sembra tanto ovvio che avvenga che mi stupisco di essere il solo ad averlo previsto...ma forse la follia è contagiosa, e l’amicizia che per anni mi ha legato al grande artista Arthur B. Dale ha compromesso la mia lucidità. Ma quel che penso, la mia teoria riguardo alle bizzarrie della sua carriera e dell’ultimo periodo in particolare, è una cosa che tocca in toto tutta la nostra realtà.
Arthur temeva che la verità che egli svelava e nascondeva al tempo stesso nei suoi quadri potesse essere decifrata, causando un paradosso dalle conseguenze disastrose. Ma la gente continuava ad apprezzare il suo operato, a lodarlo e decifrarlo, quindi dovette convincersi che, se essi potevano arrivare a comprendere il significato intrinseco della sua arte, ESSI STESSI dovevano far parte di quella verità che non poteva e non doveva rivelarsi. Incapace di sottrarsi al suo operato, spinto ad agire da quella stessa forza che voleva svelarsi pur ritenendoci indegni di guardarla apertamente, Arthur sperimentò l’esclusione di sé stesso dal creato: non cercò la morte bensì la trascendenza, un senso alla volta, escludendoci quali parti di quella verità irrivelabile e tentando di salvare così il mondo dall’oblio. Ma ha fatto un errore.
Penso se ne sia accorto, alla fine, perché nell’ultimo sprazzo di veglia mi ha chiesto di perdonarlo: non che abbia importanza, visto che eravamo tutti condannati fin dall’inizio dalla sua forzosa mortalità. Perché se tutti noi facciamo parte di quella verità che gli era proibito svelare non è difficile desumere che anche noi siamo sue creazioni, e come tali con lui ce ne andremo. Se ho torto tutto questo lo ricorderò solo come un delirio, una fantasia così contorta da rivaleggiare con quelle del moribondo di fianco a me, ma se ho ragione...cosa si prova a scomparire dall’esistenza? Come ci si comporta di fronte alla morte di un dio? Attendo il momento in cui quel cuore cesserà di battere, quando quella mente cesserà di pensare e pensarci, rimango in attesa di quello specifico mom
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In ottemperanza a quelle che crediamo essere le ultime volontà di un mondo scomparso, e del suo creatore e distruttore, detto racconto andrebbe letto una volta sola e, se possibile, distrutto in qualunque maniera creativa possa venirvi in mente.

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