[ Loredana Savelli intervista Lucianna Argentino ]
Come ti presenteresti a persone che non ti conoscono? Chi è Lucianna Argentino?
Sono una donna (e una mamma) che ama e sente la vita in tutte le sue sfaccettature, la vita con il bene e con il male e che la vive senza pregiudizi, ma con attenzione e curiosità, con amore soprattutto. Consapevole che essa ha sempre da offrirci tanto, che sempre c’è tanto da imparare e da scoprire.
Perché e quando hai iniziato a scrivere e in particolare a scrivere poesia? Ci tratteggi la tua storia di scrittrice? Gli incontri importanti, le tue pubblicazioni.
Ho cominciato a scrivere durante l’adolescenza per placare il senso di spaesamento e di solitudine che a quell’età si prova. Il foglio bianco era un ottimo compagno e soprattutto non mi sentivo giudicata, guardata, ero io che guardavo e in certo qual modo “giudicavo”. Ero finalmente libera di essere me stessa, una me stessa in divenire, di cui non riuscivo a comprendere tutto, di qui le inquietudini che la scrittura a volte placava a volte alimentava.
Ho continuato a scrivere perché mi sono resa conto che la scrittura, la poesia in particolare, mi dava la possibilità di uno sguardo diverso, uno sguardo ulteriore non solo su me stessa, ma anche sugli altri, sul mondo, sulle cose e sono sempre stata avida di vita. La vita è sempre stata, e lo è ancora, fonte di immenso stupore anche in questo momento che rispondo qui, davanti a una finestra al sesto piano e vedo il volo delle rondini, sento il loro garrito e più su il cielo azzurro in cui una mezza luna trasparente resiste alla luce del sole... E tra poco i visetti ancora assonnati dei miei bimbi con la loro meravigliosa infanzia che pure è un dono preziosissimo. Tutto ciò pure se noto e familiare mi stupisce, mi riempie il cuore ogni volta, come le voci che salgono dal mercato qui sotto, i clacson delle auto, le sirene delle ambulanze che mi dicono della vita che non so, della vita degli altri. Tutto ciò per dire che siamo sì di passaggio, ma questa consapevolezza dovrebbe farci sentire con maggiore forza la responsabilità del nostro essere umani tra umani, l’irripetibilità di questa straordinaria esperienza, straordinaria e terribile. Perdonami queste divagazioni. Dicevo che ho continuato a scrivere e poi a mandare le mie poesie ad alcune riviste e da lì la mia strada ha cominciato a prendere consistenza anche per l’incoraggiamento di alcune persone che hanno creduto in me. Il 1991 fu un anno importante, l’anno del mio esordio in quanto partecipai a Poesia 90, Primi Versi, una rassegna organizzata da Giorgio Weiss e Riccardo Reim e venni selezionata per l’antologia che si intitolava proprio “Poesia ‘90” edita da Il Ventaglio. E in quello stesso anno pubblicai la mia prima raccolta che si intitolava “Gli argini del tempo” a cui seguirono altri quattro libri: “Biografia a margine”, “Mutamento”, “Verso Penuel” e “Diario inverso”.
Sei una scrittrice, ma prima di tutto una lettrice. Quali sono gli autori e i testi sui quali ti sei formata e ti formi, che hanno influenzato e influenzano la tua scrittura?
Vorrei premettere che pur avendo cominciato a scrivere poesie attorno ai quattordici/quindici anni, l’amore per la poesia è venuto un paio di anni dopo, grazie a una professoressa del liceo che ci leggeva poeti che non erano in programma e lo faceva con una tale sensibilità e trasporto che sono stata totalmente conquistata. A quell’età comunque leggevo Leopardi che era vicino alle mie stesse inquietudini, Tagore per l’amore verso il creato e le creature, Ungaretti per il senso del dolore. Ma il poeta a cui devo di più è senz’altro Mario Luzi. Naturalmente poi ho avuto (e continuo ad avere) grandi e profondi innamoramenti per Rilke. Marina Cveateva, Ghiannis Ritsos, Odisseo Elitis, Paul Celan, Renè Char, Yves Bonnefoy, Ingeborg Bachmann e tanti tanti altri perché la poesia mi nutre. Così come mi nutre la prosa (Dostoewskij, Virginia Wolf, Kafka, Borges, Maria Zambrano, Simone Weil). Tuttavia non sono soddisfatta nel fare questi nomi perché tanti tanti altri, nei miei lunghi anni di lettrice, mi hanno dato qualcosa di sé ed è praticamente impossibile dire con esattezza chi sia stato più incisivo e decisivo. In questo momento ho da poco finito di leggere Flannery O’Connor e sto rileggendo Cioran, ma sul tavolino ho Miguel de Unamuno e Teresa d’Avila e la Kabbalh e il suo simbolismo di Scholem. La curiosità e la voglia di conoscere sono grandi!
Come avviene il tuo processo di scrittura? In quali ore e luoghi, con quali modalità? Pubblichi ciò che scrivi di getto oppure rivedi i tuoi testi, sia nella forma che nei contenuti?
In genere scrivo di mattina quando sono sola in casa, a volte la sera. Ho una piccola scrivania davanti la finestra della camera da letto da cui posso vedere un’ampia porzione di cielo che mi aiuta nella concentrazione. Rivedo sempre quello che ho scritto e a volte la prima stesura, per così dire, mi soddisfa altre invece ci lavoro sopra. Comunque quando ho finito una poesia o un libro di solito lo lascio stare per un po’, cerco di dimenticarmene, mi occupo d’altro. Poi lo riprendo e vedo che effetto mi fa! In genere è la forma che rivedo.
Sei tentata dalla prosa o la tua è prevalentemente una vocazione poetica?
In passato in verità ho scritto dei racconti, di cui solo uno, più recente, è stato pubblicato su un blog. Gli altri li tengo in una cartellina in attesa di gettarli o di riscriverli completamente il giorno in cui mi sentirò pronta.
La critica più bella e la critica più cattiva che hai ricevuto alle tue poesie.
Non è facile rispondere a questa domanda. Di recensioni e di lettere in risposta all’invio di un qualche mio libro ne conservo tante e in genere sono buone soprattutto perché si sente che vengono da una lettura attenta e partecipe. Diciamo che una delle cose che più mi ha fatto piacere fu una telefonata di Stefano Crespi del Sole24ore che si scusava per non avermi risposto prima ma era stato in ospedale e al suo rientro a casa, tra la posta, aveva trovato il mio libro, “Verso Penuel”, e me ne lesse una poesia, la prima che aveva letto aprendolo e che a quanto pare non solo gli era piaciuta ma gli era stata di conforto. Di critiche cattive nel senso stretto del termine non ne ho ricevute, almeno non ancora. Mi spiace molto tuttavia lo sparire di alcune persone, colleghi poeti intendo, il loro silenzio, e mi spiace quando mando un libro di non ricevere cenno alcuno.
La tua poetica è permeata dal tema della compassione. Osservi gli altri (mi riferisco per esempio alla raccolta “Le stanze inquiete”, inedito) e restituisci loro una grande dignità umana. Quanto conta la dimensione religiosa nella tua poetica?
Sono contenta che hai fatto accenno a “Le stanze inquiete”, un libro, ancora inedito, cui tengo molto perché molto mi è costato in termini umani e poetici. È un libro nato da un’esperienza lavorativa alla cassa di un supermercato e nel quale, detto brevemente, ho voluto raccontare l’umanità che mi è passata davanti in quel periodo. Un libro in cui il linguaggio oscilla tra la prosa e la poesia, proprio come la vita.
La dimensione religiosa è presente nella mia poesia perché della vita ho un profondo senso religioso, ho sempre sentito che c’è qualcosa che sfugge alla nostra ragione, “di una cosa almeno prendi coscienza, non tutto è in mano ai vivi”, ecco questo verso di Elitis dice esattamente il mio pensiero. Dunque la dimensione religiosa conta in poesia, così come nella vita, come un diverso approccio, una diversa e senza dubbio più intima prossimità al creato.
“Vorrei tornare a questa vita col privilegio/ di chi non si è mai guardato in uno specchio/”. Due splendidi versi dalla raccolta “Verso Penuel”: alludi anche ad una sorta di felice incoscienza del poeta?
Non proprio. Quando scrissi questa poesia vivevo dei cambiamenti nella mia vita e pensavo dunque piuttosto a uno stato primigenio, ad una epifania, quella di non sapere che volto si ha e scoprirlo. Il ritorno a uno stato di innocenza, per ritrovare meraviglia e stupore e libertà. Uno stato che certamente è anche quello che precede la scrittura.
Secondo te il poeta somiglia alla propria poesia? Che rapporto c’è tra la tua poesia e la auto-riflessione? In altre parole la tua poesia ti “serve” per dare luce a parti oscure di te stessa?
Mi è capitato di incontrare poeti che conoscevo solo attraverso le loro poesie e di trovarli completamente diversi sia fisicamente sia umanamente da come li immaginavo. A volte migliori dei loro versi a volte peggiori. Altri invece perfettamente aderenti alla loro poesia. Tuttavia sentendo la poesia come un’entità a sé, spesso ho la sensazione di una vera possessione, come un’altra persona dentro di me con la quale si instaura un dialogo e dunque è probabile che la mia poesia non mi somigli oppure sì, e che il legame che intercorre tra il poeta e la sua poesia ha a che fare con un patrimonio genetico misterioso che si esprime come sintomo di un legame profondo con se stessi e attraverso se stessi con il mondo che ci circonda. È difficile scindere le due cose. Però è innegabile che ci siano stati poeti che hanno scritto versi bellissimi mentre umanamente lasciavano molto a desiderare. Ma ripeto un conto è scrivere poesie, un conto è vivere, essere una persona tra persone. Inoltre nella quotidianità ci si deve adattare un po’ a varie situazioni, ma lo sguardo e la vibrazione interiore rimangono sempre e solo poetici. La poesia senza dubbio è uno strumento prezioso per far luce dentro di sé perché presuppone ascolto, scavo – il poeta è un minatore diceva Caproni.
Fino a che punto ritieni che le tue esperienze biografiche abbiano inciso sulla tua vocazione poetica? Si dice che alla base dell’impulso creativo ci sia un vuoto. Sei d’accordo?
In effetti spesso mi sono chiesta e continuo a chiedermi perché, passate le inquietudini dell’adolescenza (ma sono davvero passate?) io abbia continuato a scrivere, a fare poesia. Tutto sommato ho avuto un’infanzia serena, con la mamma casalinga che badava a noi tre fratelli e papà che lavorava fuori e che vedevamo solo il fine settimana. Un padre, tuttavia, presente, che quando c’era ci portava in bicicletta, a pattinare sulla rotonda di Ostia, al Luna Park dell’Eur, ci controllava i compiti. Un padre che amavo e di cui avevo una certa soggezione. Anche mia madre scriveva da giovane, teneva un diario e poi qualche poesia, dei racconti. Ma soprattutto disegnava. Le sarebbe piaciuto dipingere, frequentare la scuola d’arte... purtroppo mio nonno, che pure suonava nella banda della polizia, non volle. Forse è da lei che ho respirato l’aria dell’arte, della poesia. E devo dire che prima della poesia il mio rapporto con la scrittura si consumava attraverso le pagine di un diario con la copertina di pannolenci rosso regalatomi a 11 anni per la Prima Comunione. Quindi la scrittura ha sempre avuto un posto nella mia vita, mi ha accompagnata lungo il mio percorso umano e spirituale. E comunque la poesia è un evento che va al di là dei dati biografici, è essa stessa un mistero... Dici del vuoto. Sì forse c’è un vuoto o un pieno (forse sono la stessa cosa). Forse c’è lo strappo della nascita che in qualcuno non si rimargina mai e che diviene lo spazio (l’asola di una mia poesia) delle infinite possibilità umane e poetiche.
La tua scrittura è densa e piana, pensosa e necessaria. Se la tua poesia fosse un elemento della natura o un paesaggio a quale la paragoneresti?
Al mare!
Quale relazione a tuo avviso c’è fra l’amore, la morte (o il nulla) e la poesia?
Credo ci sia una strettissima relazione, una relazione ariosa, vitale. Sono tre elementi a me familiari, cari, necessari e ineluttabili in qualche modo. Ineluttabile è la morte e lo anche l’amore e lo è la poesia. L’amore è l’origine, la poesia è il cammino e la strada, la morte è il mistero che getta la sua luce sulla vita, ma lo fa dalle nostre spalle perché io sono tra quelli che credono che la morte ci sta alle spalle e non davanti. Credo che davanti abbiamo Dio, il Dio dei viventi.
Puoi sintetizzare quindi in poche parole-chiave la tua poetica?
Molto semplicemente potrei dire che la mia è una poetica della vita e ancor più del mistero che sento vibrare all’interno di essa.
Sei autrice e protagonista di spettacoli molto suggestivi (l’ultimo è “La vita in dissolvenza” con il chitarrista Stefano Oliva). Cosa aggiunge la lettura scenica alla tua poesia?
In verità un lavoro come “La vita in dissolvenza” è la prima volta che lo affronto e sono molto contenta di aver conosciuto Stefano Oliva, un giovane, ma preparato e determinato, musicista e compositore che ha scritto delle musiche in perfetta armonia con i miei testi, io li chiamo poemetti-monologhi, perché sono una sorta di ibrido tra la poesia e il monologo teatrale. È un’esperienza molto bella e coinvolgente anche per noi che la offriamo. Consapevoli tuttavia della totale autonomia delle due arti, ma anche del fatto che probabilmente sia la musica sia la parola recitata, detta che, dunque, esce dalla carta attraverso una transizione di fase, ossia l’inchiostro che si fa voce, riescano a rendere il tutto più forte e incisivo e con una diversa e più profonda presa sul pubblico. È pur vero che molti poi mi hanno chiesto di poter leggere i testi. Comunque ho scritto i poemetti senza pensare al fatto che un giorno li avrei recitati in teatro con la musica di Stefano Oliva e le immagini delle opere di Mariagrazia Benvenuti e le fotografie di Davide Simiele. Mi piaceva l’idea di fare una cosa corale, di unire diverse espressioni d’arte, cosa peraltro già fatta da molti. Spero che un giorno “La vita in dissolvenza” diventi un libro, intanto lo propongo in teatro o in altri spazi adeguati che è pure un modo di far girare la poesia.
Quali sono a tuo avviso gli indicatori di una buona poesia?
Una poesia mi colpisce quando c’è armonia tra la forma e il contenuto, il senso e il significato; quando crea immagini nuove pure se esprime cose vecchie e dunque le rifà nuove; quando smuove corde intime della mia anima; quando getta la sua luce nelle tenebre dell’inconscio e le nutre.
Sei impegnata anche nella divulgazione della poesia, organizzatrice di eventi e di reading nei quali proponi altri autori. Ci parli di questa tua esperienza? Puoi indicare qualche nome nuovo, magari giovane e poco noto nell’ambiente romano?
In effetti agli inizi degli anni ‘90 con alcuni poeti tra cui Francesco De Girolamo, che gli amici della Recherche conoscono, creammo una serie di incontri settimanali in un locale a Testaccio. La rassegna si chiamava “Percorsi in versi” e ospitò voci nuove e voci già “accreditate”, fu un esperienza molto bella e per certi versi irripetibile che andò avanti per alcuni anni. Era bello perché il locale era sempre affollato di giovani, c’era un’atmosfera vivace ed elettrizzante! Mi mancano molto quelle serate. Ora mi capita più sporadicamente di organizzare incontri di poesia anche per mutate situazioni biografiche. Partecipo a letture organizzate da altri e trovo che, a volte, possono essere dei bei momenti di condivisione e scambio, di arricchimento umano e poetico.
Tra le novità della poesia sul piano nazionale, invece, quali tendenze indicheresti?
Non è facile rispondere a questa domanda perché il materiale “poetico” di cui si può fruire oggi è molto ampio. Con l’avvento di Internet e degli innumerevoli blog letterari c’è una grande confusione. Chiunque metta in colonna delle parole si fregia del titolo di poeta. In un primo momento ho considerato questo fenomeno come positivo, voglio dire che il fatto che tanti scrivano è indice comunque della ricerca di qualcosa che vada oltre, più a fondo, di quanto ci viene proposto oggi, penso ai deleteri modelli proposti dalla tv. Scrivere è un interrogarsi, un tentare delle risposte; uno scavare in se stessi per una maggiore consapevolezza e dunque un maggior amore e rispetto per il mondo e per gli altri. È un rifiuto della superficialità, dell’apparenza per andare all’essenza di sé e delle cose. Poi mi sono resa conto che solo per pochi è così. Che le motivazioni che spingono una persona a fermare i propri pensieri sulla carta non sono poi molto profonde e autentiche. Comunque anche tra i critici non mi sembra ci siano delle chiare e nette prese di posizione, vuoi anche per l’inafferrabilità della materia che trattano. C’è chi vorrebbe una poesia meno letteraria, chi al contrario la vorrebbe meno poetica. Ma mi sembra che i poeti, quelli veri, continuino a scrivere poesia senza preoccuparsi delle “tendenze”, e stanno semplicemente in ascolto di sé e del loro tempo e anche del tempo che verrà.
Quali difficoltà hai incontrato (o incontri) nel pubblicare i tuoi testi in versi? Che cosa pensi dell’editoria italiana?
Le difficoltà sono legate alla ricerca di un editore degno di questo nome perché ce ne sono effettivamente pochi. Per quanto riguarda poi il pubblicare su riviste o blog non ho trovato particolari difficoltà. Comprendo tuttavia le difficoltà degli editori specie con la poesia. Ma non credo sia colpa né della poesia, né dei poeti, né dell’editoria è semplicemente così. La poesia è la necessaria invisibile, la linfa vitale nascosta che pure nutre l’albero.
Qual è il tuo punto di vista sull’editoria on-line? Secondo te la notorietà coincide con la visibilità?
Come dicevo prima on-line si trova di tutto, ma se ti riferisci agli e-book devo dire che anch’io ne ho pubblicati due. Il primo per curiosità, poi ho visto che può essere un ottimo modo per “affrontare” il pubblico prima di una edizione cartacea. Notorietà e visibilità apparentemente sembrano legati ma non è detto, ci vuole dell’altro. In poesia, e mi riallaccio a una delle domande precedenti, notorietà e visibilità sono dei termini vaghi e forse inappropriati a meno che non si riesca a diventare un caso mediatico e la poesia non lo sarà mai ed è bene che sia così. Anche se poi in tv a volte si chiamano pure i poeti a dire la loro su argomenti di attualità.
A che cosa stai lavorando ora?
Ho appena terminato di scrivere il quinto poemetto che andrà a far parte de “La vita in dissolvenza” e con il quale penso di aver esaurito quanto avevo da dire al riguardo. In verità di storie di vita in dissolvenza ce ne sono tantissime, io ne ho raccontate alcune che mi hanno particolarmente colpita e se un’ altra storia verrà a me per farsi raccontare sarà ben accolta. Poi vorrei rivedere la raccolta inedita “L’ospite indocile” che dovrebbe essere pubblicata il prossimo anno.
Hai qualcosa da dire agli autori de LaRecherche.it?
La Recherche mi sembra sia un luogo dove si incontrano persone che condividono la stessa passione, lo stesso amore per la poesia e l’arte in genere e che denotano quindi già una certa predisposizione al bello, a quanto sfugge all’omologazione. Per cui mi sento di rivolgere a tutti un’esortazione a continuare per questa strada, a non smettere di porsi domande su se stessi, sugli altri e sul mondo che ci circonda. Gli antichi greci avevano un unico termine per dire ciò che è bello e ciò che è giusto e credo che gli artisti abbiano sentito sempre e reso attraverso la loro arte questa profonda unione di giustizia e bellezza, due entità di cui oggi abbiamo più che mai bisogno.
C’è una domanda che non ti hanno mai posto e alla quale vorresti invece dare una risposta?
Domanda. Quale poeta del passato ti piacerebbe essere?
Risposta. Marina Cvetaeva.
Invito i lettori a interessarsi di questa poetessa tanto schiva quanto profonda, di un’intensità asciutta, saggia e incisiva.
Ecco alcuni inediti da L’ospite indocile:
***
C’è qui – mentre le voci dei bambini
impollinano il tempo – come una nostalgia
simile a quella che del corpo hanno i morti.
Acqua acqua fuoco fuoco - giocano
a chi trova ciò che è nascosto
un gioco che durerà ancora,
a lungo.
***
Il foglio è altare
su cui concelebro la vita
su cui consacro – questo è il mio corpo
questo è il mio sangue – la parola
in passaggio di sostanza
impasto particole
mi comunico.
***
Scrivo di nascosto da Dio
che nella bocca voglio parole mie
e niente niente
nel passaggio dalla fronte alla spalla
dal gomito alle dita alla punta della penna
al suo muoversi sul foglio
per mio sentire altro
per meditato silenzio e pulsare di tempie
per mio stare accovacciata
presso lo scavo con l’angelo geometra
e la sua corda a misurare
quanta benedizione c’è sulla terra.