Invecchiamo cantilene a madreperla nei fondali le conchiglie
per sopraggiunte primavere le cartilagini stridono
abbaiano ai coralli sulle vertebre come foglie dondolanti
i tuoi fianchi sagomati dal tornio fluviale della valle
sparsi dicasteri di sentiero per cercare le mie mani nell'erba
alta di midolli fino alla preghiera di rugiada e pietra
da scagliare sulle membra a provocare fremiti alle ossa
che si ricompongono nel letto lacustre a sostanza dell'acqua
che scroscia turbinosa da cascate irrorate di pigrizia rugginosa
dalle rocce di montagna che tagliano le nuvole nel cielo con le unghie.
Ti perdono perchè non esisti. Perchè tutti i miei frutti il ventre della terra
li ha rapiti e congelati e dati in pasto ai suoi figli senza denti.
Così ti riconosco, da come cambiano colore i tuoi occhi
dallo specchio che l'include. E mai visti si corteggiano alle onde.
Quando muori poi rinasci come canti di falce in mezzo al grano
e la radura ha i tuoi capelli mossi dal vento che soffia le sue dune
le sue lupe da Luna ululanti in riva ai fossi.
Scroscia e bestemmia la sua croce il mio predicare senza sosta
la tua bellezza che confonde le cervella.
Come fossi prigioniero e nulla potessi conservare nelle tempie
allora le parole prendono il verso delle querce quando è sera
e le ghiande sono piccole pipe per fumare.
Ma le dita sanno fare carezze strepitose
se le curve sono la tua pelle contro luce.
Anche le mie mani, persino le mie mani, trattengono fotoni
come nubi cariche di pioggia.
E poi arrivi, alla fine di tutto
sei sutura, calice e pigmento
prima vera estasi al secondo.
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