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Scomparire in tre semplici mosse

di Stefano Ficagna
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Pubblicato il 26/07/2017 18:39:24

“Voglio farti vedere una cosa.”
F allungò il passo lungo le navate del corso principale della città, puntando deciso verso una diramazione sulla destra, dove l’asfalto della strada lasciava spazio al porfido di mattonelle dalla geometrica disposizione messa a dura prova dallo scorrere del tempo. Il ticchettio delle scarpe di R si riverberava ad ogni passo, udibile chiaramente in mezzo al frastuono delle persone che approfittavano del giorno festivo per affollare negozi e locali del centro, ma i suoi tacchi mal si sposavano con l’andatura forzata presa improvvisamente dal compagno. Diede uno strattone col braccio, e quando lui si voltò finse un fiatone poco credibile alla luce delle continue corse mattutine che negli ultimi mesi ne avevano temprato il fisico: il trucco funzionò comunque per darle una meritata pausa. Il mal di piedi era dopotutto un pericolo reale con cui fare i conti, e non voleva pentirsi di una fretta poco giustificabile. Era un fine settimana di vacanza, non potevano prendersela comoda?
F interpretò alla giusta maniera quello stop inaspettato, e si scusò con un gesto della mano. Le mise un braccio attorno alle spalle e ricominciò a camminare, più lentamente, senza perdere il sorriso. “Scusa” le disse, “sono partito in quarta. E’ che sono anni che non vengo in città, e ci sono un sacco di posti che vorrei farti vedere. Qui a fianco ci sono nato.”
“Sei nato in casa?”
F fece una piccola smorfia. “No, in ospedale. Ci sono cresciuto, mettiamola così. Fino a quando non sono andato all’università ho abitato qui, ora ti faccio vedere.”
La via laterale portava velocemente ad una piccola piazzetta, avvolta dall’ombra degli alberi, ma quello che premeva ad F era ciò che stava sotto ad un ampio porticato alle spalle della stessa. Dovettero girare l’angolo per guardare bene in quella direzione, e quando lo fecero il suo sorriso sparì improvvisamente.
R lo notò, e si preoccupò un poco. “Che succede?” chiese, dando un’occhiata incuriosita al pastiche architettonico che si trovavano di fronte.
Le colonne e le ampie volte della facciata che stavano guardando portavano tutti i segni del tempo impietoso, tuttavia sotto al porticato le ampie vetrate di un centro estetico in franchising, sfolgoranti di anestetico e luminescente candore, provocavano uno stacco netto. Quell’inaspettato intruso, nella calma accettazione del passare degli anni che caratterizzava gli edifici attorno, sembrava aver contagiato anche il piano superiore, costellato di finestre dai toni metallici contrastanti in maniera appariscente il vissuto dei mattoni a piena vista.
“Una volta non era così” mormorò F, indicando il primo piano oltraggiato dai serramenti moderni. “Io abitavo lì.” Fece una pausa, non sapendo che altro dire, ma si fece presto strada nel suo animo un forte risentimento. “Come possono permetterlo?” esclamò adirato, “E’ il centro cittadino che cavolo, non possono mica rovinarlo a questa maniera!” Lo spettacolo era effettivamente deprimente, come forzare un centro high tech in una chiesa.
“E’ la modernità bello” rispose R, “come si dice...oggi ci sei, domani non ci sei più.” Sorrise in maniera luminosa, cercando di far uscire F da quel momento d’impasse nostalgica.
Anche lui sorrise, ma era una smorfia di circostanza, un’espressione che chi lo frequentava da tempo avrebbe riconosciuto come falsa ma che lei, che lo conosceva solo da qualche mese, non riusciva a cogliere in tutte le sue sfumature. F era anzi infastidito dal modo in cui era riuscita a banalizzare momenti importanti citando detti vetusti a sproposito. ‘Un uomo è i suoi ricordi’ pensò, ‘se questi svaniscono che rimane di lui?’ La suoneria lo distolse momentaneamente da quei pensieri, ma quando estrasse lo smartphone vide che era solo l’ennesima chiamata di spam. Rivolse il poco livore che persisteva nel suo animo verso l’anonima figura di un lontano call center che lo perseguitava, e chiudendo la chiamata senza neanche rispondere prese per mano R, rivolgendole un sorriso più sincero. “Coraggio” disse fiducioso, “il tour è appena iniziato!”
Si inoltrarono nell’intricato labirinto di vicoli del centro, attraversando piccole piazze più o meno frequentate. Ovunque la presenza di portici a mitigare la calura estiva, caratteristica della città di cui R fu molto lieta. F non smetteva di mostrarle punti di interesse, improvvisata guida turistica di una storia che era la propria più che quella della città, e dopo un percorso di una ventina di minuti durante il quale la folla si era man mano diradata propose con noncuranza di fermarsi a mangiare un boccone. Era l’una passata ed R, che aveva saltato la colazione all’infuori di una veloce tazza di caffè per svegliarsi, acconsentì di buon grado.
“C’è un posto che conosco proprio qui accanto, buono ed economico. Un piccolo segreto della mia famiglia”, concluse ammiccando.
Ma, giunti dopo pochi passi alla via della trattoria dove intendeva recarsi, F trovò le saracinesche serrate e l’insegna consunta e sbiadita. Ad illuminare la parete, poco più avanti e dirimpetto rispetto al locale, le fredde luci di un All You Can Eat asiatico.
Non fece in tempo ad esprimere il proprio disappunto che R emise un sospiro di gioia: “E’ un sacco che non mangio sushi!” esclamò deliziata. F, troppo scombussolato da quel secondo colpo alle sue origini, acconsentì di malavoglia ad accomodarsi all’interno del nuovo ed anonimo locale.
Mentre R scorreva il menu lui si perse nei ricordi. Lei non poteva conoscere i dettagli per cui quel locale ormai chiuso, rustico ed accogliente, si era stampato nella sua memoria in maniera tanto vivida. Non aveva mai visto i disegni sulle pareti, la cameriera coi rasta che accoglieva anche i nuovi clienti come fossero vecchie conoscenze. Non era lì quando lui ed una sua vecchia fiamma si erano fermati a mangiare qualcosa anni prima, ed avrebbe tanto voluto vedere se nel tempo la farfalla da lei disegnata sulla parete era ancora presente in mezzo a tutti gli altri schizzi. Si dovette invece accontentare di ricordi sbiaditi, come quello degli occhi chiari di lei (verdi o azzurri? Non riusciva a rammentarlo): era ormai svanita in recessi angusti della memoria, laddove un’ideale serranda l’aveva rinchiusa al pari dei ricordi celati nella trattoria fallita. Una sola cosa era impressa a fuoco vivo, come un marchio, la lettera che le aveva scritto per lasciarla. Una frase di Carver, riadattata, violenta: ‘C’è stato un momento in cui ho pensato di amarti più della vita stessa. Ma ora ti odio con tutte le mie forze.’
Curiosamente non ricordava a cosa fosse dovuto quel furore, cosa lo avesse spinto a vergare parole così infuocate. Sapeva solo che non l’aveva mai più rivista, e non le era mai mancata fino ad ora.
Ordinarono un sacco di pietanze, ebbri delle opportunità di spreco donate dal consumismo, ma fecero fatica a portare a termine l’impresa di quel pranzo extralarge. R contava sull’appetito solitamente vorace di F per far fuori gli avanzi, ma il suo stomaco era sopito al pari del suo animo meditabondo. Veniva infatti privato delle gioie del gusto dai dolori dell’animo, e trovava estremamente bizzarro che l’innocente candore del bianco che lo attorniava si elevasse a simbolo della decadenza della sua città natia, alla quale era molto legato. Non riusciva a sentirsi parte di quella insipida modernità, ed avrebbe voluto condividere questa angoscia con R: ma lei aveva sempre vissuto in una grande metropoli dove l’innovazione era una chimera da inseguire a tutti i costi, in cui il futuro contava più dello stesso presente, e la nostalgia del passato, in un posto come quello, veniva seppellita sotto cumuli di cinismo dalla paura di essere lasciati indietro. Come avrebbe potuto esprimerle ciò che provava?
Pagarono il pranzo ed uscirono, barcollanti a causa dell’abbuffata. R chiese di tornare sul corso principale, attirata dalle vetrine dei negozi alla moda, ed F acconsentì stancamente. Cercò di avviare più volte una conversazione, ma lei lo ascoltava di rado ed in quelle sporadiche occasioni riusciva ad ottenere solo risposte monosillabiche, quando non cenni d’assenso svogliati. Finito lo spossante tour dei negozi, trovandosi piuttosto vicini all’albergo, F propose una sosta per rinfrescarsi e riposare in vista della serata. Aveva ancora una carta da giocare, e voleva sfruttarla bene.
Mentre tornavano verso la quiete della loro stanza passarono accanto al parcheggio della stazione, e la vista di quello straniante paesaggio di forme squadrate, unito al riverbero del sole sulle saracinesche dei negozi, gli portò alla mente un paragone che si sentiva in dovere di esprimere. Citò le architetture futuriste dell’Elio Petri più sperimentale, la fotografia ed i campi lunghi cittadini del primo Paul Thomas Anderson, ma erano frammenti di visioni d’altri e si dispiacque di non saper definire quel frammento di vita urbana con parole veramente sue. R, distaccata, non lo stava comunque ascoltando. ‘Cosa sta succedendo fra noi?” si chiese meditabondo mentre camminavano lentamente verso la loro meta.
Arrivati in camera si fecero la doccia a turno, distrattamente lui, in maniera calma e meticolosa lei. Mentre la aspettava F si mise in ascolto dei flebili rumori che giungevano dalla finestra, suoni della natura che avvolgevano quella inaspettata oasi dove il verde si era ripreso una fetta di città. Quando R uscì dal bagno le fece notare quanto rumore facevano i grilli.
“Cicale” disse lei semplicemente, “sono cicale.”
“Quel cazzo che sono allora” sbottò lui, stupendosi subitaneamente della propria ira. Anche lei rimase sbigottita, guardandolo bene per la prima volta da qualche ora a quella parte.
“Ma si può sapere cos’hai?” chiese più stizzita che preoccupata. Quel viaggio di piacere si stava dimostrando un fallimento, era come essere in giro da sola...se non peggio.
F non seppe cosa rispondere. Temeva che lei non riuscisse a capirlo, e si faceva anche un po’ schifo per quella mancanza di fiducia nei suoi confronti. Ma c’era dell’altro, una paura che si faceva strada nel suo animo, la sensazione di qualcosa che stava per finire. La associò ai cambiamenti avvenuti nel suo luogo del cuore, ma sapeva che c’era almeno un posto dove avrebbe potuto ancora dissipare quel malumore.
“Sono solo un po’ stanco” disse dopo un attimo, “quando sei pronta torniamo in centro e ci rilassiamo facendo un aperitivo, ti va?”
Tornarono così a zigzagare per i vicoli, guidati dalla mappa mentale che F aveva in testa. Più volte dovette curarsi che R gli fosse al fianco, perché sembrava fare ben poco caso alla sua presenza, pur non palesando alcun risentimento apparente nei suoi confronti. Era semplicemente...distratta, come se facesse fatica a notarlo. Non cercò neanche di spiegarle verso dove si stavano dirigendo, era una cosa importante per lui e tanto bastava.
Arrivati alla via dove aveva abitato per la prima volta da solo, nel gioioso periodo universitario, in cui le ore di sonno erano state risucchiate dalle nottate nei locali sotto casa perennemente animati, la trovò sventrata dai lavori in corso. Camminò con passo malfermo fino al numero trentuno, riconoscendo a malapena i dettagli dell’appartamento attraverso le griglie di protezione degli scavi: il suo mondo non era più suo. ‘Che cos’è un uomo senza ricordi?’ pensò nuovamente, ed allungò una mano per stringere a sé l’unica persona che poteva dargli un po’ di conforto, una rotta per non perdersi. Ma R era già avanti di qualche passo, ignara del modo in cui lui le arrancava dietro, muovendosi come nella melassa. ‘C’è quel pub irlandese all’angolo, ci siederemo lì come ai vecchi tempi e tutto tornerà a posto’, così cercò di rincuorarsi, ma ad ogni passo sentiva le forze abbandonarlo, la volontà farsi più flebile. Arrivò stremato alla fine della via, pronto a lasciarsi andare, e la piazza animata gli si schiuse davanti.
R vide un bar carino all’angolo, e decise di fermarsi a bere qualcosa. Scelse un classico Spritz, sgranocchiò qualche patatina, ascoltò distrattamente la musica hip hop che fluiva dalle casse. ‘Chissà come ci sono finita qua’ si chiese, guardando la variegata umanità che si assiepava in quella piazza frequentata perlopiù da universitari, mostrando un malcelato disprezzo per i giovani trasandati che si scolavano economiche birre da discount sui gradini di una scalinata. Ogni tanto le giungeva alle narici l’odore di marijuana, e il suo sguardo si faceva più dolce mentre ricordava sé stessa negli anni degli studi, quando tutto era possibile. Ora aveva trent’anni, e pensava solo a sistemarsi definitivamente.
‘Finché continuo a farmi viaggi da sola non troverò mai un uomo con cui stare’, rimuginò fra sé e sé.
Pagò il cocktail, si alzò e prese a vagare per le strade senza una meta. Si guardò improvvisamente alle spalle, curiosa, con la spiacevole sensazione di aver dimenticato qualcosa di importante, ma F non era già più neanche un ricordo.

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