Pubblicato il 27/05/2024 06:50:19
Basquiat: o “il deserto emotivo”.
Una vita di scarto (1).
Un argomento cui si presta oggi molta attenzione, con accenti diversi a seconda delle diverse prospettive poste in essere dalla società in trasformazione, è l’attualità/inattualità dell’Arte Contemporanea in rapporto con le giovani generazioni che, molto più di quanto si pensi, in gran parte la ignorano o semplicemente la vivono, seppure inconsciamente, mescolata nella stragrande proposta ‘visiva’ che il quotidiano propone in fatto di visual-art, street-art, body-art, legate come sono alla pubblicità, alla moda, al cinema, allo spettacolo e altro ancora, e tutte riferibili all’ineluttabile mondo della creatività. La proposta di una mostra a Roma su un giovane artista americano contemporaneo dal titolo “Basquiat: fantasmi da scacciare”, apre un interessante dibattito sullo status odierno dell’arte contemporanea, a confronto con la domanda culturale del nuovo millennio che si vuole aperto al multiculturalismo. A differenza degli Stati Uniti dove la multiculturalità è rappresentativa della collettività che si esprime in senso globale e avveniristico in tutte le sue forme, l’Italia e con essa gran parte dell’Europa, ad eccezione della Francia aperta a tutte le sperimentazioni e avanguardie, si crogiola affannosamente nella conservazione e diffusione del proprio patrimonio artistico, non prestando facilmente il fianco a iniziative e proposte troppo innovative. Tant’è che pur essendo entrati nel vortice della globalizzazione, in realtà si guarda con diffidenza al ‘nuovo’ che incombe, e fin troppo spesso si prendono le distanze da tutto ciò che distoglie dal granitico ‘blocco culturale’, retaggio di millenni di produzione d’arte, che pure tanto ci appassiona e ci riscalda. Anche per questo, forse, una scarsa presenza di giovani, quasi stanchi del peso di una cultura forzata, ha accompagnato l’apertura della mostra di Roma riservata a Basquiat, che per certi aspetti – ritengo – avrebbe dovuto essere di grande richiamo e interessarli più di altre, in ragione del fatto che le opere esposte rispondevano al loro stile di vita e, soprattutto, alla loro giovane età. Inaspettato, quanto incomprensibile da parte dei giovani questo essere minoritari nella frequentazione di mostre e avvenimenti culturali in genere, anche se poi, in qualche modo, sorprende la scelta preferenziale verso forme ‘alternative’ di acculturazione. O quando, addirittura, non espressamente ‘trasgressive’, spesso devianti e iper-competitive, che vengono utilizzate come stimolo di fuga dal contesto storico/politico/sociale nonché artistico che finiscono per accrescere una certa ansia di vivere o a sopravvivere ad ogni costo, quasi il mondo stia lì per crollargli addosso. Del resto, il germe della tendenza artistica dell’ ‘arte concettuale’ (2), sviluppatasi tra America ed Europa negli anni precedenti in cui Basquiat lavora, iniziava allora a dare i suoi frutti, suggerendo alle generazioni successive e post-avanguardistiche, paradigmi che Giorgina Bertolino (3) così riassume: “...l’essenza dell’arte consiste nell’idea all’origine dell’opera, onde il semplice pensare all’opera arriva spesso a coincidere con l’opera stessa, perché l’idea che questi artisti esprimono mediante fotografia, catalogazioni, libri, scritte, è un lavoro d’arte tanto quanto un quadro o una scultura tradizionali”. Il che ci permette qui di comprendere come, l’aver sospeso ogni valore estetico preconcetto, l’arte contemporanea assumesse l’aspetto di provvisorio e di instabile, tale da far sembrare tutto come se la realizzazione dell’opera alla fin fine, fosse quasi superflua da portare avanti, poiché già concretizzata, compresa nell’idea creativa. Ovviamente possiamo dedurne come, nell’etimo giovanile, la formulazione di una siffatta idea che ben possiamo definire ‘tendente alla sopravvivenza’, si proponesse come ansia, non necessariamente equivalente a ‘conservazione’, bensì a un ‘tutto immediato’ e consumistico che – ammettiamolo – un po’ ancora intimorisce. Timore questo che il sociologo Zygmunt Bauman ha teorizzato come “Paura liquida” (4), frutto dell’imprevedibilità e incertezza del futuro, assoggettata all’inesistente, per una forma deviante di pessimismo della ragione e della volontà, che rende incapace di immaginare vie alternative: “la paura più temibile è la paura diffusa, sparsa, indistinta, libera, disancorata, fluttuante, priva di un indirizzo o di una causa chiari; la paura che ci perseguita senza una ragione, la minaccia che dovremmo temere e che si intravede ovunque, ma non si mostra mai chiaramente”. E che, in certo qual modo, incombe anche in Basquiat se l’osserviamo come un esempio di quella ‘esistenza liquida’ che sembra attraversare tutta l’arte contemporanea, in rapporto agli anni ‘70/’80 in cui l’artista opera e qui presi a riferimento di una realtà assoggettata all’ ‘altrui inesistente’ in ogni artista, lì dove: “...essere artista significava mettere in questione la natura dell’arte e decostruisce ciò che era pazientemente costruito”. Così come ha stigmatizzato Umberto Galimberti (5) in ‘L’ospite inquietante’, che, non a caso trova nel ‘nichilismo’ (6) hegeliano, una forma di sfiducia pessimistica che si è instaurata nelle giovani generazioni e che: “...si aggira tra loro, penetra nei loro sentimenti, confonde i loro pensieri, cancella prospettive e orizzonti, fiacca la loro anima, intristisce le passioni rendendole esangui. (..) Solo il mercato si interessa di loro per condurli sulle vie del divertimento e del consumismo, dove ciò che si consuma è la loro stessa vita, che più non riesce a proiettarsi in un futuro capace di far intravedere una qualche promessa” – e che forse, per questo, oggi più che mai, si mostra come problema socialmente preoccupante. Problema che in parte suggeriscono tutte le opere di Basquiat in mostra a Roma, nelle quali l’idea portante risente di un autentico disagio sociale, nel quale s’innestano le difficoltà più dure da dover affrontare, e che, nel caso specifico, si trasformano in incapacità di rispondere coerentemente alle sfide che la ‘diversità’: a cominciare dal ‘paradosso dell’età’ e del colore della pelle, da Basquiat fortemente provate, che la società di appartenenza, quella americana, gli chiede di affrontare e di superare conformemente a effettive problematiche di ‘autodeterminazione’ (7), in bilico tra aspettative sempre più illusorie e una realtà fatta di contrasti. È questo l’aspetto indubbiamente più emblematico e forse più interessante della tematica osservata in molti lavori presenti alla mostra su Basquiat in cui sembra spingere la sua ‘diversità’ artistica al di fuori di sé. Pur tuttavia continuando a cercare – e lo fa con determinazione – una certa ‘libertà di essere se stesso’ che gli permette infine di comunicare con gli altri, seppure facendolo nel modo della contestazione giovanile tutt’ora in atto, operata nei confronti della società e delle norme che la regolano. Cosa che Basquiat realizza attraverso l’esperienza di un ricercato quanto ostentato ‘successo’ che pur insegue e che infine arriverà, ma che va letta come espressione di un tentativo di superare e gestire la sua conquistata ‘diversità’, fino ad accorgersi che “...tutto sembrerà, ma sembrerà come?” La frase è di Jack Kerouac (8) che in “On the road” la riferisce all’amico Allen Ginsberg, aggiungendo: “Allen dice che non comprendo la società, solo la solitudine, dove tutto è duro, triste e senza speranza”. Nel frattempo però qualcosa è cambiato, ad esempio il ruolo dell’artista nella società, sostituito dall’ ‘art-worker’(9), dal graffitaro ‘maudit’ della ‘street-art’ (10) che impiastra di scarabocchi i muri delle case, i monumenti, le stazioni della metropolitana e le carrozze dei treni, per una sorta di ‘anomia’ (11), che i psicologi attribuiscono alla mancanza di precisi punti di riferimento, senza aspettative, proprie della sfera relazionale delle giovani generazioni. Ma Jack Kerouac è un artista trasgressivo che, almeno venti anni prima di Basquiat, a suo modo, portò in un’altra forma d’arte che è la letteratura, l’immagine del ‘disadattato’, la cui ‘devianza’(12), teorizzata in sociologia: “...viola le norme della collettività, perché urta la coscienza comune”. In questo senso Basquiat è trasgressivo, e lo sarà sempre, fino al raggiungimento di quel ‘successo’ da lui portato all’estremo in seno all’arte che produce così come nella vita dissoluta che si consente, e che lo vede impegnato sul fronte del ‘tutto in uno e in una volta’, di cui alla fine non gli resterà niente, perché frutto del disincanto della ragione e della volontà. “C’è una via d’uscita? Si può mettere alla porta l’ospite inquietante?” – si chiede ancora Umberto Galimberti (13), e questa volta la domanda rimane sospesa sull’intenzione di una società che non risponde adeguatamente al problema sociologico che mi sono posta nell’affrontare questa tesi: “Chi è Basquiat?”, attraverso la quale cerco di spiegare la sua ambiguità e che richiede uno sforzo in più, per poter ‘entrare nel ruolo dell’individuo’ prima ancora che dell’ ‘artista’, e di farsi partecipi delle problematiche in sono tutt’ora in atto sull’argomento. Quanto, di dover accettare la conseguenza di un paradosso che non ammette di aver toccato il ‘top’ della futilità o, al contrario, il ‘fondo’ del superfluo, ma che ravvisa nelle problematiche che Basquiat ci sbatte costantemente in faccia con le sue opere, l’impossibilità di una replica fattiva.
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