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Wilusa: la non guerra di Troia

Argomento: Storia

di Giovanni Baldaccini
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Pubblicato il 24/02/2025 19:13:27

Premessa

 

Questa storia si basa sulle tavolette della biblioteca reale di Attusha, capitale dell’Impero Ittita cui Wilusa era alleata. Le parti in corsivo ne rappresentano una trascrizione “quasi” fedele. Il resto, temo sia opera mia.

 

 

 

Wilusa

 

Non credo sia andata come dicono; tutto ragiona contro.

Troppe le voci, dissipate dagli anni. Sussurri, a volte, trasportati da sabbia proveniente da luoghi improbabili, tramandati da ricordi comunque imprecisi, forse fantasie.

Tremilacinquecento: gli anni ormai trascorsi. Un sospiro nei secoli del mondo; per noi, quasi un’eternità. Mi sono sempre chiesto come quei fatti si siano svolti davvero. Omero: solo un nome. Racchiude racconti. Di notte, intorno al fuoco, per ingannare il sonno che galleggia, con memoria tesa a ricordare. Cosa non andava dimenticato? Che importanza aveva, perché proprio quegli eventi?

Le storie di città sono infinite; cosa aveva quella di diverso? Forse, ciò che si voleva non dimenticare era una presenza. Forse la bellezza, con la passione che induce. Forse, in quelle notti accanto al focolare, o al bivacco dei campi nel deserto, dove la voce scansa la paura, si imprimeva ciò che trasforma i fatti in sentimenti, li scolpisce rendendoli perenni.

Si voleva fosse ricordato che la vita non è soltanto svolgimenti. Ciò che li crea e che da essi viene ravvivato: la bellezza del significato, questo si voleva tramandare. Elena ne era nome, rappresentazione e inganno. Perché non era lei: attraverso lei.

Questa duplicità ci è pervenuta e spesso ci confonde. Non Elena ma Elena. Quale delle due? Nessuna; entrambe. L’una rimanda all’altra. Ne seguirò l’esempio, perché doppia è la vita che ricorda. E nel ricostruire con le fonti i fatti, per quel poco che il tempo ci ha concesso, disegnerò una storia che da quei fatti nasce e mentre li conferma li smentisce. Se il tuo nome suscita passioni, darò corso alle mie, facendo ciò cui la passione invoglia: inventerò di te: non Elena ma Elena. Non è andata così ma così è andata.

 

Prima lettera di Hattusili III

 

Io Hattusili III, Signore di Hattusa e delle terre nelle quattro direzioni del vento, dal deserto d’Egitto alle sabbie incompiute dell’Arabia, dai grandi monti ove il mondo finisce, allo specchio del mare; Signore delle genti che in esse vivono e delle città che vi hanno edificato, come dei campi, delle messi, gli animali e i figli, nati o che verranno; degli eserciti e gli dei che le genti straniere onorano, che tutti dovranno servirmi al mio comando contro le orde senza onore che saccheggiano e massacrano al di là delle terre conosciute. Signore delle acque, delle fonti, delle foreste e il cielo per volontà del Dio Supremo della Tempesta e la Signora che al Suo fianco siede, nonché delle divinità eterne che popolano il mondo e i suoi venti, ciò che è vivo o passato; Io, Hattusili, come mi conosci, ti dico di presentarti a me. Se lo farai non dovrai temere per la vita. Se disattenderai il mio volere, come in passato troppe volte hai fatto, verrò Io a cercarti. Non fare che ciò sia.

Presentati e avrai onoranze quando la morte ti frammenterà. Non per mia mano. O per la mia, se le tue orecchie non mi ascolteranno.

Questo doveva dirti Hattusili, Signore di Attusha e delle terre nei quattro punti del mondo… questo ti dice… questo…

 

 

Piyama Radu (vedremo in seguito a chi questo nome appartiene) non rispose mai.

Hattusili era un re, se non per nascita certamente di fatto. Non un guerriero, ma stratega. Piyama Radu era un poveraccio. Nome improbabile il suo, quanto rivelatore: Piyama vuol dire dono, Radu era una divinità benefica presente nelle case in Anatolia. Dunque, dono di un dio benevolo.

La dice lunga sulla madre, che un padre non chiamerebbe mai un figlio in quel modo. La immagino in un villaggio, forse di frontiera, di quelli presenti in Anatolia da tempo immemorabile, tipo Arslan-Tepe o Chatal Hoyuk, spesso spazzati dalla guerra, la sorte o dai pirati.

Al pascolo, con le capre. Quando un giorno qualcuno che passava con le armi, uno dei tanti soldati transitati da lì, forse Ittita, forse di una delle bande achee che facevano razzie lungo la costa, l’ha violentata per ricompensa di una vita grama.

Se ne è tornata a casa stringendosi le gambe, per la vergogna e un po’ per il dolore. Quel figlio l’ha tuttavia voluto; un dono, per lei, in ogni caso. E dono l’ha chiamato, attribuendo il regalo a una delle statuette di terracotta che teneva accanto al focolare, una di quelle cui rivolgersi per trovare il coraggio per un giorno nuovo: Radu, a lei caro.

Offriva protezione Radu; da cosa? Proviamo a immaginare uno di quei villaggi. Quattro capanne strette attorno a un palo, con un muretto a secco lungo i lati e una torre all’angolo, tipo Gerico nello strato più antico. Perché rinchiudersi? Il limite rassicura, permette di conoscere, nominare gente e cose, riconoscersi all’interno di certezze. Fuori, dove il deserto spazia in mezzo al vento e l’orizzonte è sempre sconfinato, qualunque cosa suscita sgomento. Osservare il mondo per la prima volta, con gli occhi di una coscienza incerta, rappresentata da quei limiti angusti di fango e terracotta, senza più fare parte del Grande Niente che adesso conosciamo, essere confusi in esso nell’indifferenziazione che protegge, è esperienza che scuote, rende insicuri, spesso terrorizza Così ovunque, al principio; in altre forme anche oggi.

Eh sì, si era attivato l’Io, al centro di un barlume di coscienza. Un campo psichico, se preferite (ma psiche è parola compromessa, quasi in disuso, oggi fuori moda. Inutile parlarne). Oggi conta il comportamento, ottima scorciatoia. Perfetta per evitare l’anima.

Dunque, rendersi conto spesso fa paura (per questo lo evitiamo). Ci vuole poco poi a popolare la pianura di fantasmi, misteri, nemici, da accogliere come tali, dato che anche loro ti vedono nello stesso modo. Bella complicazione davvero! Soprattutto se non se ne parla. Comunque, quando guardate uno strato antico, tipo quello che ho descritto prima, osservate una forma di coscienza.

 

Dinastie

 

Hattusili nacque da famiglia reale. Fratello del gran re Mursili, credo il terzo; uno di quelli che non scherzano. Neppure Hattusili. Stratega, generale, fa le fortune in guerra del fratello. Anche a Qadesh. dove Ramses II volta il carro.

Gracile, Hattusili, malaticcio; da bambino rischia di morire. Lo salva Isthar, cui deve la fortuna e rimane devoto. Due dei alla base del rapporto, una femmina e un maschio, ma Isthar era più grande.

Piyama non poteva vantare discendenza e la divinità cui qualcosa forse doveva era piccina. Lo ha salvato la madre. Perché lo ha voluto e gli ha voluto bene. Su questo non ho dubbi, altrimenti non gli dava quel nome. Due madri, dunque; una, però, reale. Quale conta di più?  Temo entrambe. Temo nessuna.

Intanto una notte, di quelle che capitano, Mursili se ne scappa all’altro mondo (ormai qui ha preso tutto e si è scocciato). Gli succede il figlio: un cretino, come spesso accade.

Hattusili non poteva sopportarlo. Sempre secondo, nella salute come nella vita. Si prende il trono e il nipote se la passa brutta. Non lo ammazza: lo esilia.

Piyama Radu non viene cacciato, che la madre non viveva che per lui. Se ne va.

Non può restare lì; non è nessuno. Gli bolle la pelle sotto i piedi; l’aria lo asfissia. Sente l’ansia del padre, il dubbio, la sfida, la tentazione, la rabbia, la vergogna.

Scappa col primo esercito che passa – ne passavano tanti – ed esce dai pensieri delle donne per conoscere quelli del maschile. Che non fa sconti: o marci o resti indietro, se non ti accoppano prima.

Per non sbagliarsi, capisce che è più utile accoppare. Cresciuto ha già la barba e un coltellaccio qualcuno glielo ha dato. Nelle notti nel campo, quando scappa la rissa e il vino corre, tra bagliori di fuoco e roche urla, ammazza uno che lo ha provocato pensando fosse solo un ragazzino. Il suo primo guadagno nella vita: rispetto. Poi, quando ha preso una donna, ha smesso di pensare la madre: è morta quella notte.

Non era difficile; si trattava soltanto di eliminare qualcuno (magari il marito o i fratelli). Succedeva spesso lungo la costa colma di villaggi. Città, anche; bastava bruciacchiarle. Ha sparso sale su più di qualche pietra. Col suo compare, Tawagalawa, fratello del Gran Re degli Ahhyawa (Achei).

Un giorno, però, quando arrivò a Wilusa, si fermò. Non ebbe cuore di bruciarla; la voleva per sé.

 

Lungo la costa nord, dove il mare si spezza e il mondo crolla verso l’infinito.

Di pietra rosa, quasi come un velo, come quello che strappò alla prima donna. Col fiume che la cinge fino al mare. Bella, come un desiderio: Wilusa (Wilion per gli Achei; poi Ilion, Ilio, come la conosciiamo noi).

Sopra un confine; e il mondo che finisce non ha nome. Perché ne inizia un altro, dove chissà che cosa. Una parola dal suono di magia: possibilità. (Comunque, senza troppa retorica, tutti i commerci da e verso l’Asia dovevano necessariamente passare da lì. Ottima ragione per una scelta).

Non solo sua, che gli Ahhyawa hanno tentato di prenderla per duecento anni. Lui c’è riuscito. Per questo, però, è ancora presto.

 

Al Grande Re degli Ahhyawa, di là del mare, nella Sua Città.

 

Degnati, Signore, di ascoltare Tuo fratello Hattusili.

A Te rivolgo queste mie parole affinché Tu, Grande Re, voglia capire.

Tuo fratello Tagawalawa, sangue del sangue che Ti scorre dentro, mi offende. Egli distrugge i miei possedimenti con l’aiuto di quel cane senza terra. Semina morte presso le mie case, distrugge i miei raccolti, ruba figlie.

Non per costruire, che ciò che edifica lo distruggo io. Quanto dovrà durare questa guerra? Fermalo, Grande Re e dammi il cane. In catene presso la mia casa. Da troppi anni sfugge il suo castigo.

Non Ti chiedo di farlo: Te ne prego. Altri patti in passato abbiamo fatto ed entrambi ne raccogliamo frutti. È tempo di accordarci, perché Hattusili non tollererà altre discordie.

Ultimamente, dicono voci alle porte della Casa, Tuo fratello Tagawalawa insidia Wilusa. Questo non è concesso; se toccherà la Rocca sarà guerra. Non mandare Tue truppe in quelle zone, resta lontano.

 

Stretto dei Dardanelli, promontorio, 1240 circa a.C.(ora più, ora meno…).

 

Tempesta. Vento spazza la piana. Soffoca, tra polvere col fumo.

Fuochi lungo le mura e sopra i campi. Molti corpi crollati alla rinfusa. Odore nauseabondo e di bruciato. Sangue, anche, diffuso dentro l’aria e nei polmoni. Sciacalli, naso a terra, nella piana. Qualcuno ancora si lamenta.

Piyama (stravolto): scaglia l’ultima lancia. Poi s’asciuga (saliva, sangue, sudore sulla faccia). Puzza: sotto il metallo che lo copre.

Ha occhi strani. Pieni di rosso. Gonfi. Sembra un invasato. Ansima, urla. Fa qualche passo; barcolla; poi riprende… quindi di slancio verso la città.

Dal fumo: s’apre la porta. E’ nostra… è nostra… ! Grida Tagawalawa. Tu la governerai, in nome di mio fratello Re di Tebe!

E tu…!?

Ritorno in Grecia a prendere altre truppe. Dobbiamo tenerla… Dopo tocca a Lesbo!

 

Non durò molto.

Qualche mese dopo: piana di Wilusa

Dal carro: Hattusili comanda la giornata.

Bruciate le porte. Sterminateli. Portatemi il predone o la sua testa.

 

Non era cattivo, Hattusili: faceva i suoi interessi, a parte le incertezze che nutriva.

Ha cercato per anni di giustificarsi. Si sforzava di costruire una discendenza accettabile, falsificando la genealogia fino a far risalire la sua nascita a Hattusili I il Grande.

Era il secondo e gli bruciava; il trono spettava al nipote, Urkhi-Tesup, al sicuro nel regno di Ramesse che ne rifiutava l’estradizione. Poteva sempre tornare…

Pagò, anche, per consolidare la posizione, con ricche donazioni e svariate remunerazioni ai suoi fedeli.

A parte ciò, aveva persino tratti gentili: la sua è la prima storia d’amore raccontata nel mondo.

E allora presi in sposa Puduhepa, figlia di Pentipsarri, il sacerdote, per ordine della divinità. E vivemmo nell’unione coniugale e la divinità ci donò l’amore dello sposo e della sposa e noi generammo figli e figlie”.

Incontrò Puduhepa da ragazzo, durante un viaggio a Kizzuwztna. Era anche lei sacerdotessa di Isthar, come il padre, e la Signora cui Hattusili doveva la vita li ispirò. Vissero nel suo culto e alla sua ombra; una vita nel nome della dea che entrambi amavano mentre si amavano.

Hattusili diede alla moglie pari dignità. Governò da regina, dotata di sigillo. Dunque, poteva comandare; dava disposizioni che firmava. Decidevano insieme: politica, trattati, culto e figli, con la pietà che la responsabilità ispira a chi la sente.

Ramesse la chiamava sorella e sposò una sua figlia. Forse era bella Puduhepa; comunque saggia. Il marito le dedicava poesie. Rimase Grande Regina anche dopo la morte di Hattusili, fungendo da reggente per il figlio Tutkhaliya IV.

Sappiamo tutto dalla autobiografia di Hattusili. Non è cosa da poco; ci dice che aveva il senso del soggetto, cosa che, a quei tempi, è per lo meno rara, data l’indifferenziazione dilagante. Per questo si amavano: erano due, non propaggini di proiezioni inconsce.

Credo pregasse a lungo Puduhepa, soprattutto al capezzale del marito (era di salute malferma, ricordate?) Da lì a poco di preghiere avrebbe avuto un gran bisogno. Anche Hattusili.

 

Radu tornò a fare quello che aveva sempre fatto. Era bravissimo (a fare scorrerie). Dicono battesse la campagna devastando villaggi, depredando, ammassando schiavi (soprattutto donne). Le Anatoliche erano richieste.

Ha terrorizzato la Troade per anni, senza che Hattusili riuscisse a metterci rimedio. Le truppe che mandava le ammazzava; quando erano troppe, evitava lo scontro. Ha inventato la guerriglia.

Lo ha fatto per anni, insieme ai Greci, tanto che se ne è conservata la memoria. Immaginiamo quanto se ne sarà parlato, quante storie saranno nate in proposito. Che la memoria raccoglie, raddensa e poi trasforma. Nascono leggende, nascono miti. Immaginiamo il terrore che ogni avvistamento di manipoli di uomini all’orizzonte suscitava nei villaggi indifesi della campagna. Le grida, la fuga delle donne, il raccogliere armi dei pochi uomini presenti, in genere vecchi: i giovani erano lontani, nei campi. E poi la sera, a cose fatte, quando se ne parla intorno al fuoco e si contano gli assenti. E la voce che fugge, si diffonde nei villaggi vicini. Che tuttavia già sanno, e parlano, e tremano. Fa pensare ad Achille quando bruciava la terra intorno a Troia. Un nome per una storia: la sintetizza.

 

La guerra e la passione

 

Hanno tentato per duecento anni. Fondavano colonie; quegli altri le bruciavano; attaccavano isole e città che gli Ittiti poi riprendevano e così via per secoli. Prima i Tebani, con la loro lega. Poi, alla caduta di Tebe (1230 circa a.C.), Micene con le città federate al seguito. Tanto è durata la così detta guerra di Troia. Non una guerra: molte. Racchiuse in un poema, ricordi di anni trasognati nel mito.

C’era la gente, non dimentichiamo: pensate come hanno vissuto. Per secoli; lascerà qualche traccia, no!? Perché resti il ricordo non bastano parole. Devono incidere, essere pregnanti, trasmettere qualcosa che rimane.

Affetti, restano gli affetti; sono loro che fanno la memoria. In qualche modo, da qualche parte, deve “toccare”. Rimandare, per lo meno, a qualcosa cui attribuire significato. Questo incide la carne, al centro del cervello, un poco a sinistra, appena laterale.

Cosa più adatto di un amore… Una donna (possibilmente bellissima) che valga per tutte coloro che hanno amato, sofferto, generato e, ovviamente un uomo, meglio se ispirato da una dea (Afrodite è perfetta alla bisogna). Un marito, anche, tradito. Le passioni sono sempre ambivalenti; meglio sconvolgano. Con il senso di una colpa: lecito quell’amore o meno? Più si intorbida meglio è; più facile rimanga impresso. Ad immortalare pensa l’epica: fatti adesso gesta, trasognati dalla poesia che dà spessore, immette il caduco nell’eterno. Con le passioni di pochi che diventano di tutti, universali. Che le passioni dovevano restare; con esse, ciò cui rimandavano. Non qualcuno in particolare: un’epoca. Come se la storia si fosse preoccupata di tramandare se stessa. Perché?

 

L’ultima notte di Hattusili III. Città di Hattusa, 1240 a. C. circa.

 

Il suo fisico minato da una salute incerta e molte guerre alla fine lo abbandonò. Lasciò il regno alla moglie. Costei goverò per rmolti anni, rispettata e amata dal popolo. Non durò in eterno; fu esiliata, ma questa è un’altra storia.

 

Città di Ugarit, 1200 a. C. circa. Notte di Piyama Radu.

 

Notte divaga confusa, alla deriva fino all’orizzonte.

Sciacquio da presso con la brezza lieve. Spume, anche, leggere. Rumore sciacquolante di risacca.

Movimento ripetuto avanti e indietro. avanti… ancora indietro… Invoglia sonno.

Osservando il mare. Pure sembra tranquillo… come è possibile che il pericolo venga da lì?

Sono troppo vecchio per rispondere ancora alle domande.

Come vuoi, ma la lettera parla chiaro.

Lettera?
Non l’hai letta? L’ha preparata il Governatore in persona, da inoltrare d’urgenza a ogni città!

Figurarsi… metterà mesi ad arrivare.

Sono d’accordo.

Abbiamo mesi?

No.

Alzando le spalle. Si chiude nel mantello.

Lasciami dormire, và…!

 

La lettera

 

Quella lettera non è mai partita. L’hanno ritrovata nel palazzo del Gpvernatore di Ugarit ancora in preparazione, in cottura, per così dire (le tavolette andavano cotte, al forno). L’avvertimento che conteneva è andato in fumo.

La situazione non sarebbe cambiata. Da terra i Lydi e i KasKa; dal mare i Dori, i Sardi, i Filistei e tanti altri di cui non riporto i nomi (troppo complicato scriverli). In breve: i così detti Popoli del mare.

Navi che portavano fuoco, a ondate successive, ininterrotte. Per anni, senza praticamente protezione.

Gli Ittiti si erano annullati tra guerre dinastiche e civili e, senza di loro, le Città Stato non si federavano più. Affrontavano il pericolo una a una e una a una cadevano senza risorgere, perché gli invasori non sapevano ricostruire. Come le cavallette: prendevano e salpavano. Si è salvato solo l’Egitto, attaccando da terra le loro navi all'altezza del delta del Nilo e riuscendo a inmpedire loro di sbarcare. Se avessero toccato terra anche l'Egitto non avrebbe avuto scampo.

Gli strati VI e VII della città di Troia (ormai possiamo chiamarla così, no?) raccontano di incendi devastanti e basta. Come basta? Basta. Non sì è trovato altro; nessuno ha più ricostruito. È finita lì. Morta per quattrocento anni. Non per mano achea. I Greci non avevano interesse in tal senso (a loro serviva attiva). Sono stati quegli altri.

Piyama non ha trovato casa; come lui, nessuno. Per quattrocento anni di totale oscurità, come se il sole fosse andato via.

La fine del mondo. Proprio così, del mondo. Perché il Vicino Oriente, in quei secoli, era il mondo. Strada di civiltà, percorsa da popolazioni varie, credenze, idee, culture, rappresentazioni antiche che venivano da lontano calate in nuove forme. Hanno lasciato di tutto: scienza, religione, architettura, filosofia. Soprattutto parole, rese eterne da simboli incisi nella creta. Ci hanno costruito: senza di loro, nulla. Neppure la Grecia classica che è venuta dopo!

Questo bisognava ricordare: era finito un mondo. Anzi, il mondo. Non poteva andare perduto.

A questo la memoria serve. Senza, non si ricostruisce. Non si va avanti e neppure indietro. Proprio da nessuna parte: manca continuità.

Che si chiamasse Elena, Paride, Achille poco importa. Era il mondo e non c’era più. Con i suoi dei, le case, le visioni, passioni, vite, tentazioni, sogni, desideri, storia. Non poteva finire.

I pochi che sono rimasti, nascosti alla furia dell’ignoranza, dentro tuguri tra la neve e i monti, come a Creta, hanno pensato a non dimenticare. Per secoli hanno ricordato; la memoria collettiva ha fatto il resto.

Quando studiamo Omero, se ancora nel liceo verrà studiato, pensiamo un poco a loro. Dobbiamo ringraziarli. Ci raccontano molto; guidano l’occhio anche nel futuro. Non vi fidate se il mare questa sera non si muove. Spirano venti noti, venti vecchi. Portano tempesta da lontano e quando arriva allora è troppo tardi. Come diceva Hattusili: fa che non sia.

Piyama Radu se ne è andato via: la sua casa è la morte. È nato da una madre come noi e come noi ha dovuto fronteggiarne la presenza. Non aveva padre, come tanti di noi e ha dovuto sopportarne la mancanza.

Ha fatto quello che poteva, che il tempo in cui viveva consentiva: il suo destino.

Ogni tanto, la sera,  parliamo di cavalli.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


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