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Un’estate torrida

di Maura Potì
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Pubblicato il 24/04/2009 14:41:58

Si preannunciava un’estate molto torrida, non perché l’avessero prevista i metereologi ma perchè l’eccezionale invasione di cavallette a maggio era sicuro preludio di siccità.
A me non dispiaceva vederne così tante, a gruppi ordinati, come in assetto di guerra, fantasticavo che fossero squadroni di Ortotteri venuti a salvare il pianeta!
Mia sorella un po’ meno, per quella sua a me ben nota idiosincrasia per tutto ciò che vola e che risulta inafferrabile…
Ogni mattina, da che era finita la scuola, facevamo colazione in veranda, sotto il pergolato costruito dal nonno per far crescere la profumata vite portoghese e quella per me era un’occasione di divertimento un po’ sadico: Sandra saltellava da una sedia all’altra lasciando cadere briciole di torta che attiravano ancor di più i simpatici Ortotteri e io, fingendo di averne uno tra le dita, la rincorrevo suscitando deliziosi risolini di complicità da parte dei miei fratellini.
Se è vero che c’è una giustizia a questo mondo, con me avrebbe cominciato a manifestarsi presto: aspettavamo da giorni l’arrivo dei cugini di Milano e proprio mentre raggiungevo mia sorella con la mano libera, decisa a portare compimento la mia inutile crudeltà infantile, squillò il telefono dall’interno della villa:” Pront…o?” mamma aveva le mani impastate di farina e uova e provò a passare la cornetta a Mario che invece la lasciò cadere penzoloni dal muro fino quasi al pavimento.
Chinata a squadra per continuare la conversazione, mamma sembrava un medico che auscultasse un piccolo paziente, l’orecchio poggiato sul cuore, senza uso di mani ” Vi aspettavamo ieri, cosa è successo? Ah, prendete il treno delle 22? Davvero? C’è anche Alfio con voi! Non doveva partire per Londra? Cosa? Bè, è andata bene, dopo tutto. D’accordo, domattina veniamo a prendervi in stazione”.
Un tuffo al cuore, panico, smarrimento, e la vana speranza di aver intercettato male gli interrogativi telefonici, d’altra parte ero in veranda, tra le proteste di mia sorella e gli urletti di approvazione dei gemelli…
Mamma aveva tolto il grembiule e si era precipitata in giardino:” ragazzi, arrivano stasera, e c’è anche Alfio” e il suo sguardo di vaga apprensione incrociò il mio, disperato!
Provai a replicare che non c’erano altri posti letto disponibili in casa, che forse sarebbe stato opportuno che io andassi a dormire da Monica, così potevamo iniziare a fare i compiti per le vacanze, che dopotutto avevo 12 anni e mio cugino era ormai un adolescente e che non mi andava di vederlo in mutande tutto il giorno, che……mamma interruppe questa sequela di goffi argomenti, annunciando placidamente che Mario e Marco avrebbero diviso la stanza con Alfio e io e Sandra con le cugine, come d’altronde già deciso.
E, indovinando una possibile obiezione da parte mia, aggiunse che papà avrebbe recuperato un’altra brandina dalla casa al mare e, risolto questo problema di carattere logistico, dava la sua benedizione a queste magnifiche settimane di vacanza tutti insieme.
Mio cugino mi aveva dato il tormento per tutta l’infanzia, con scherzi di una tale crudeltà che per anni ero stata costretta a dormire nel lettone con i miei genitori: chiudermi per ore nel capanno degli attrezzi, con il soffitto letteralmente tappezzato di gechi, al buio e con un’unica lama di luce attraverso un buco di finestrino, quel tanto che mi permetteva di intravedere i loro guizzanti movimenti sopra la mia testa, era stata la sua bravata per me più devastante, degna di un film di Alfred Hitchock.
Provai a riflettere che tutti crescono, magari migliorano, diventati adulti, per questi gesti così stupidamente malvagi potrebbero arrivare a vergognarsi, ad avere rimorsi, sensi di colpa, ma non riuscivo a tranquillizzarmi.
Per tutto il pranzo restai muta, sotto lo sguardo indagatore di Sandra, mentre i gemelli assorbivano le attenzioni dei miei, sempre così riottosi e lenti nel mangiare.
“E’ per la storia dei gechi?” sussurrò mia sorella, più piccola di tre anni ma sicuramente più saggia e comprensiva di me in quella circostanza.
Annuii, sentendomi tremendamente in colpa, assolutamente non meritevole di queste sincere apprensioni, e cercai la sua mano sotto il tavolo.
“Non ti preoccupare, siamo in maggioranza” e mi rivolse un sorriso di complicità.
Non so se sia stata colpa dell’afa ma quella notte mi svegliai ripetutamente, madida di sudore, e tutte le volte incontravo gli occhi assonnati e rassicuranti di Sandra.
“Forza, giù dal letto, fra mezz’ora arriva il treno, si va tutti a prendere i cugini”, papà sollevò il lenzuolo con vigore e mi accorsi che altri quattro paia di occhi attendevano il mio risveglio.
L’aria era profumata di gelsi e glicine, quanto amavo quel giardino…ma il ricordo del capanno, del buio e di tutto quello che aveva comportato, per un periodo che a me sembrava lunghissimo, aveva come annullato la mia capacità di compenetrarmi nel mondo dove ero nata e cresciuta...ti odio, Alfio, mi sorpresi a pensare.
Nel piazzale della stazione scorsi subito gli zii e poi, in successione, Michela, Daniela e, sorretto da un bastone, con un gesso che partiva dal piede e finiva all’inguine, mio cugino, con un’aria falsamente sorniona che della spavalderia di un tempo non conservava nemmeno l’ombra, anzi, a ben pensarci, era lui a sembrare l’ombra di se stesso!
Istintivamente io e Sandra, dopo aver abbracciato tutti con gioia, ci avvicinammo all’infortunato ( caduta dalla moto, scoprimmo subito ) e lo accompagnammo all’auto, chiacchiericciando di amenità.
Forza della compassione tutta femminile, sacrosanto desiderio di rivalsa, non so cosa fu a produrre un cambiamento così repentino: scoprii quell’estate il potere del perdono e una capacità di indulgenza che forse serviva sopratutto a me per assolvermi da una colpa simile a quella commessa da Alfio anni prima.
Qualcuno un giorno mi spiegherà perchè mai i bambini riescano ad essere così cattivi da carnefici e così docili da vittime e perchè da adulti preferiscano sotterrare il ricordo di quanto commesso, utilizzando il comodo strumento della rimozione.
Quasi tutti i bambini rispettano questa regola, quasi tutti gli adulti seguono tale modalità.
Eravamo in giardino ad ascoltare l’ultimo disco di Battisti quando all’improvviso avvicinai la mia sedia a quella di Alfio e presi a disegnare sul suo gesso fiori, animali e cose, con abilità e precisione, sotto lo sguardo divertito di lui, finchè su quello sfondo bianco in corrispondenza del suo piede comparve l’immagine di un enorme geco con la bocca socchiusa.
Si accigliò e fece per scostarsi e Mario, correndo dietro ad una palla, ma sempre vigile ed attento ed inconsapevolmente complice, indicando il mio disegno, esordì: “ma quello è un dinosauro, che brutto, perchè lo dedichi ad Alfio?”.
Non fu possibile a nessuno dei due ignorare che quella era l’occasione per un chiarimento ed una confessione e fui sorpresa di sentire: “ Scusami, so di averti fatto del male” e ancora più sbalordita nell’ascoltarmi rispondere: “ Scusami per avertelo ricordato ma penso che sia l’unico modo per superare il trauma”.
Furono serate di racconti, di chitarrate e di scambi di pensieri.
Alla fine dell’estate, le cavallette si ritirarono in buon ordine, nessuno le ha mai più viste e, con loro, via per sempre anche gli incubi notturni, i rimorsi e le ombre.

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