.
Ho appena terminato la ri-lettura del Viaggio al termine della notte, scritto nel 1932 dal Dottor Destouches, meglio noto come Louis-Ferdinand Céline. Non so perché l’ho fatto; forse per noia, forse per masochismo o forse ancora per una strana quanto non dichiarata attrazione per qualcosa di malsano, in un periodo malsano, che mi ha trasmesso tutto il fascino e il malessere di ciò che malsano non è, o almeno non soltanto.
Ne ho ricavato soprattutto un’impressione che, più che tale, si è rivelata una dichiarazione di non identità: non avrei mai voluto essere Céline.
Non avrei voluto esserlo perché Céline non sa chi è; nonostante la sua ricerca spasmodica, Céline sa soltanto chi non è. Céline non è Céline, ma neppure Bardamu perché Bardamu non è neppure un morto.
Un senso dell’inutile pervade tutto fin dalla prime pagine, dall’arruolamento insensato al nulla spaventoso della guerra. E i morti, le teste che cadono, gli ordini senza senso, la mancanza di scampo.
Un uomo dominato dalla corruzione delle viscere, Céline; dalle trippe, come le chiama lui. Dal disfacimento, dalla distruzione di tutto ciò che è vivo e pertanto corruttibile. Dominato dunque da un pensiero ossessivo, quello della morte.
Dall’impossibilità di amare è dominato Bardamu perché non si può amare ciò che muore, o almeno non lo si può amare abbastanza. Ma neppure odiare, perché anche l’odio è un sentimento e dai sentimenti è meglio tenersi lontano.
E tuttavia il dolore: Bardamu non è insensibile al dolore. Se lo sente intorno, lo vive, lo trasuda, come le febbri africane da cui è afflitto e dalla tubercolosi dei sui pazienti senza speranza, perché dove esiste soltanto la morte non può esserci speranza,
Ma Bardamu non è disperato; non è capace di disperazione. La sente, la percepisce, ma ce l’ha solo intorno; non è sua. Cosa allora gli appartiene? L’orrore di esistere.
Per Céline-Bardamu esistere è impossibile: si può soltanto sfuggire. Per questo la sua vita è una fuga; nulla può essere raggiunto e se, per qualche strano caso del destino ci si avvicina a una qualsiasi forma di conseguimento, occorre subito disfare, distruggere, buttare tutto all’aria e ricominciare altrove, in qualche luogo ancora peggiore, in una fuga senza fine da sé, da un reale impossibile, dal mondo che non è altro che morte.
Spesso tornare sui propri passi, in luoghi già vissuti, perché la morte è ovunque e non esiste un luogo immune, ma tornare non è altro che riconsegnarsi alla miseria, a tutto ciò che è un vivere da morto in una Parigi tetra, una campagna tetra, un tetro trascinarsi nella coazione dell’inevitabile fine. Bardamu fa il medico ma ogni cura è impossibile.
A volte Le Voyage mi ha ricordato Fuga senza fine di Joseph Roth ma, a parte l‘evidente differenza di linguaggio tra i due autori, ogni accostamento è improponibile per via della disperazione di Roth che è sempre malinconica mentre quella di Céline è feroce. O ancora mi ha ricordato Santuario di Faulkner, ma lì l’orrore è poesia.
Vivere è dunque miseria e non soltanto del corpo. L’uomo è soltanto un miserabile che di miseria vive, fisica e spirituale. Vive di guerra l’uomo, di massacro, di abiezione perché l’uomo è solamente abietto. Trippe verminose, impulsi non gestibili, godimento fine all’attimo e all’attimo consegnato e, per godere di quel miserabile attimo, ogni mezzo è possibile.
Una natura grigia, ostile, disperante: una natura notte. E tuttavia, la notte è comunque un rifugio. Lo è perché la notte tutto sfuma e, se il mondo insopportabile sfuma, noi stessi sfumiamo. Nel rifiuto del reale, forse un’illusione: che la notte celi qualcosa di diverso che tuttavia non sopraggiunge mai.
Vivere è un incidente in cui tutto si disfa e Céline-Bardamu, qualunque cosa faccia, finisce col disfarla dato che tutto finisce nella morte. Anche l’amore, nella sua forma perversa di ossessione, sfocia nella morte, come nell’episodio della folle Madelon che condurrà alla fine di Robinson.
“Nella camera sembrava come uno straniero adesso Robinson, che veniva da un paese spaventoso, e uno non osava più parlargli”.
D’altronde, anche la parola è quanto di più inutile si possa immaginare: la morte è annullamento, la morte è silenzio.
Dimenticanza è la morte: dimenticarsi finalmente di sé. Céline non cercava altro e il romanzo è un lunghissimo addio da sé, dal mondo, dalla miseria di dover esistere, dal dolore da cui non ci si separa mai.
“Lontano il rimorchiatore ha fischiato, il suo richiamo ha passato il ponte, ancora un’altra arcata, un’altra, la chiusa, un altro ponte, lontano, più lontano… Chiamava a sé tutte le chiatte del fiume tutte, e il cielo, e la campagna, e noi, tutto si portava via, anche la Senna, che non se ne parli più”.
I testi, le immagini o i video pubblicati in questa pagina, laddove non facciano parte dei contenuti o del layout grafico gestiti direttamente da LaRecherche.it, sono da considerarsi pubblicati direttamente dall'autore Giovanni Baldaccini, dunque senza un filtro diretto della Redazione, che comunque esercita un controllo, ma qualcosa può sfuggire, pertanto, qualora si ravvisassero attribuzioni non corrette di Opere o violazioni del diritto d'autore si invita a contattare direttamente la Redazione a questa e-mail: redazione@larecherche.it, indicando chiaramente la questione e riportando il collegamento a questa medesima pagina. Si ringrazia per la collaborazione.