I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.
*
- Arte
La forma dell’informe
In un'epoca come la nostra dove tutto è merce e il discorso del capitalista (J. Lacan) domina le nostre vite senza che ce ne rendiamo conto; in un'epoca come la nostra dove la tecnologia non è più servizio ma padrone e investe la nostra inconsapevolezza assimilandoci allo strumento di turno, l'arte – che dovrebbe costituire baluardo certo (d'incertezza) – è asservita a sua volta alla logica spersonalizzata e spersonalizzante della merce e si trasforma in oggetto di esibizione, di potere, di violenza contro il senso nascosto all'interno di uno stupore che non suscita più. Dove, all'interno dell'arte, un segnale di resistenza, un rimando a un altrove scomparso, a un senso sommerso che ci protegga dalla banalità del letterale; dove la meraviglia e il vuoto, da riempire di vissuto straordinario (al di là dell'ordinario)? Dovremo forse comportarci come quel personaggio di Bernhard che ogni mattina si recava al museo, sedendosi sempre di fronte allo stesso quadro (T. Bernhard, Antichi Maestri)? Sarebbe inutile: quel personaggio non ne traeva altro che la ripetizione vuota della vita. Dove, allora, un moto di resistenza, se l'arte stessa si trasforma in espressione del banale, ripetitività e apologia della catena di montaggio (Warhol) in cui noi stessi siamo inseriti? Eppure l'arte non è quello che la abbiamo fatta diventare; siamo noi che, con la nostra visione asservita, la riduciamo a quei termini minimi. L'arte allora reagisce. Come? Se osserviamo la sua espressione, ci accorgeremo che è vuota. Si guardi, ad esempio, Hopper che, nelle sue tele, riproduce la paralisi del tempo e il nostro esservi invischiati senza averne coscienza. L'arte reagisce allora con la violenza di un'espressione diventata muta che comunque parla per chi la sa ascoltare. Il suo “altrove” si impone, proprio di fronte a noi che siamo “qui”, in un luogo strettissimo, del tutto insufficiente. Tuttavia, per rintracciare un “altrove” che rimandi a un senso occorre interrogare. Dove l'assente? Forse in una presenza che è soltanto apparente mentre, in realtà, restituisce altro. Si prenda Van Gogh, “fino al terribile quadro finale, l'autoritratto, l'ultimo, quello in cui Van Gogh è assente, ma in cui parlano in modo terribile le sue tracce che si scavano in esso” (F. Rella, Forme del sapere). La sua è una presenza “assente”, rivolta altrove, ma non verso l'infinito: ci ricorda la morte. O si consideri l'opera di Kafka. Come scrive Adorno “Da nessuna parte in Kafka traluce l'aura dell'infinito, da nessuna parte si dischiude l'orizzonte. Ogni proposizione è letterale, ogni proposizione è significante. Le due cose non sono fuse, come vorrebbe il simbolo bensì separate da un abisso. E da questo abisso barbaglia il crudo raggio della fascinazione” (Adorno, Appunti su Kafka). Dunque, arte rimanda a abisso. L'abisso non è riducibile a concetto; occorre una visione diversa. “Si considera un oggetto da molti lati diversi senza comprenderlo tutto – perché un oggetto preso in tutto il suo insieme perde di colpo il suo volume e si riduce a concetto” (Musil L'uomo senza qualità). Sembra allora che anche la presa di coscienza di un oggetto (artistico) sia insufficiente e ne stravolga il messaggio riducendolo ad un unico aspetto. Come procedere? “... il saggio procede in questa resistenza al concetto frantumando l'oggetto stesso, frantumando ogni pretesa di totalità e compiutezza... L'oggetto verso cui il saggio si china viene scheggiato. La sua superficie è incrinata. Di lì esso si sporge verso chi lo interroga e di lì entrano in lui le domande che di fronte ad esso si sono generate. Le domande si incorporano così all'oggetto, ed è questo che ora ci interroga: interroga noi che lo interroghiamo” (F. Rella, op, cit.). Cosa ci chiede Pollock con i suoi “paesaggi neuronali”? Cosa ci chiede Rothko con le sue “finestre” aperte sull’interno? E Kline, con le sue linee nere in campo asciutto, dove ci vuol condurre? Forse verso domande. Cosa ci chiede l'oggetto (dell'arte)? Di non ridurlo a cosa, a oggetto di mercato. Di ascoltarlo e, facendolo, ascoltare noi stessi, lasciandoci penetrare dalla sua incompiutezza per compierlo, generando in noi un vissuto significante che la coscienza tradurrà in significato. Da informale a forma e da immagine a parola. Il potere costituito, oggi la finanza e il denaro, ha sempre tentato di assimilare l'arte ai propri canoni. I potenti della terra si sono sempre circondati di artisti da ridurre al proprio capriccio. Spesso ci sono riusciti, spesso no. Caravaggio ha dipinto il “sacro”, ma rivestendolo di un umano dissacrante che non si lascia ridurre a semplice contemplazione metafisica. Michelangelo è stato costretto a piegarsi al potere del papato, ma ha dimostrato, in un contatto ineludibile, che Dio ha bisogno dell'uomo per esistere. Il potere, il Leviatano, pretende che l'arte vesta i suoi stessi panni e si lasci comprare. Spesso ci riesce. “Eppure, anche appese alle pareti di un museo, le opere di Francis Bacon o di Mark Rothko continuano a proporre un'altra storia rispetto alle narrazioni omologanti. La scarnificazione di Alberto Giacometti ci riporta comunque a un livello dell'umano abissale” (F. Rella, op. cit.) e dall'abisso, come abbiamo visto, sale una domanda che chiede di essere interrogata. Non ci si siede a contemplare un'opera o a leggere un libro; si lascia che essi ci contemplino e ci leggano, per quanto quell'operazione possa risultare “perturbante” (S. Freud), come sempre dovrebbe essere un dialogo. In questa nostra modernità senza senso, che uomo siamo diventati? Deleuze risponde che siamo “macchine anonime, macchine desideranti, macchine molecolari e macchine del potere (F. Rella, op. cit.). Macchina allora l'arte, ripetuta meccanicamente, metodicamente, messianicamente sul dio senza nome della rete, in attesa di un consenso che non si rifiuta mai. “E alla fine”, scrive ancora Rella citando Deleuze, “un processo di disumanizzazione: il gioioso divenire altro, il divenire inumano dell'uomo”. Il moderno, con tutta la sua sterilità, non nasce oggi; si tratta di un processo lungo che viene da lontano e che qui non posso riassumere. Basti dire che “Benjamin, attraverso Baudelaire e la Parigi del XIX secolo è penetrato nella cultura e nei linguaggi del secolo XX, è ha proposto una visione della storia e del tempo e della redenzione di ciò che ci è stato sottratto, che ci si propone ancora oggi, nella nostra modernità estrema, come un compito” (F. Rella, op. cit.). Scrivere è camminare, il cammino della riflessione. Riflettere è un sobborgo. Ci vivono i delusi. Raccontano frammenti; non li ascolta nessuno.
Id: 3530 Data: 16/11/2024 10:16:02
*
- Società
Questioni di sicurezza
Si prosegue per caso. Indaffaratamente ininfluente, gente procede cose di giornata. Tutti attenti agli “affari”: occorre sopravvivere. Forse solo durare. L’anima? Una questione postuma. Leggo: “Donna uccisa in strada. Killer asserragliato in un palazzo”. Leggo: “Ordinata la riesumazione dei bambini morti”. Leggo: non leggo più. Si vocifera intanto: “La BCE pronta ad abbassare i tassi”. Questo vuol dire che avrò più soldi in tasca. Chi li ha. Vuol dire anche: potrò fare altri affari, accendere mutui, impaginare prestiti su libri occulti di banche sovrapposte. Vuol dire denaro. Denaro vuol dire… Non lo voglio dire. Piuttosto, io non mi sento affatto più sicuro. Molti altri sì. Certo per quello che precede. C’è sempre bisogno di un Dio benevolo benigno beneaugurante ecc. Oggi quel Dio è il denaro, soprattutto in forma di finanza. La finanza è augurio virtuale, ma virtualmente instabile. Non fa niente: c’è sempre poi un cretino che mi compra quello che ho dato via. Ci perde il collo. Io lo ricompro dopo. La finanza è piacere di smaltire. Cosa? Il superfluo. Ad esempio Stati in fallimento. Si, come il nostro, ma è meglio non si sparga troppa voce, altrimenti fallisce davvero e non ci prendo più congrui interessi. Se poi fallisce, l’ho spremuto abbastanza. E pace, pace a tutto il firmamento per quelli che ci perdono la vita. Succede a volte; è già successo. Quanto alla miseria conseguente, che volete che sia… date un’occhiata in giro e tutto si relativizza facilmente. Avete paura di dare un’occhiata? Non la date; è meglio. Di un Dio nascosto e virtuale, inoltre, meno se ne sa meglio è. Ma chi lo dice, chi ne parla… Chiacchiere! La sicurezza è una virtù segreta; la vogliono tutti, non ce l’ha nessuno. Severino docet: gli Immutabili sono sempre esistiti. Cambia solo la forma a seconda dell’epoca in commercio. Oggi: 'ho già detto. Gli Immutabili danno sicurezza nel mondo eracliteo del divenire. Tutto passa? Sparisce? Se ne va? Non gli Immutabili, ma se non se ne trova uno disponibile, così alla spicciola per l'ultima bisogna, si ricorre all'oblio offerto da alcool e droga. Quello non manca mai. Ed ogni altra illusione. E poi, e poi, e poi…: guardate che si spara. Di quale diavolo di sicurezza si ciancia…! Libano Israele Palestina… tut tut tut! Ucraina Taiwan Africa intera… tut tut tut…! A proposito di Tut; ci chiamavano il povero Tutankhamon, almeno in un film di dubbio gusto. Anche lui aveva problemi di inflazione: troppi dei. Il padre provò a dare un sforbiciatina, ma senza saperlo toccò problemi di sicurezza. Non lo avesse mai fatto! “È sicuro?” – chiedeva Lawrence Oliver al povero Dustin Hoffman nel film “Il Maratoneta”. Quello non ne aveva idea e l’altro gli tormentava un nervo più o meno all’angolo dell’incavo boccale (no, non un recipiente per bere: la bocca! Mi andava di dirlo così). Il punto è che non è sicuro affatto. Tutto travasa verso l’infinito dai cui bordi si cade. Signori cari, c’è un’’unica cosa certa, ma che lo diciamo a fare…!
Id: 3493 Data: 17/10/2024 16:01:57
*
- Letteratura
Alessandro o della verità
riflessioni su letteratura e "sistema" attraverso la pagina di Arno Schmidt La pagina di Schmidt “52 ANNI E 118 GIORNI: Dapprima uno si era messo a fischiettare. – Quando ripassarono straccamente un’altra volta, il fischio si era tramutato in canto nasale: “Oh, signorina Mirjam quando ballo con lei – za za, za za”, il resto onomatopea, schiocchi di lingua e ft ft; l’altro, probabilmente più anziano rise ringhioso. – Bella luna; quello che tocchi è d’argento. “ (Gadir, in Alessandro o della verità, Einaudi, Torino, 1965). Arno Schmidt (1914 - 1979) è, con Doblin e Grass, uno dei più grandi esponenti dell'espressionismo tedesco. Poco noto in Itala, le sue opere sono state tradotte in molte lingue. Una di queste, Alessandro o della verità, mi capitò tra le mani nel 1974, su suggerimento di Alfredo Giuliani, critico letterario, poeta e scrittore oggi scomparso. Rimasi folgorato. Leggere Schmidt è come essere afferrato da un vento che solleva e trascina fino al volto sgusciante della luna. A volte abbatte, altre ti lascia andare dolcemente per poi inanellarti ancora nelle spirali del suo soffio enorme senza trovare mai una soluzione. Un vento senza approdo. Non vorresti approdare. Leggere Schmidt è perdere ogni sistema di riferimento. Se mai credevi di aver letto, se sentivi di accedere a un qualsiasi movimento letterario, un luogo, quale esso sia, ripudierai a favore dell’immaginale: quello l’unico sfondo. Tutto decade, tutto si sconfessa; persino i grandi della letteratura ottocentesca e degli inizi del novecento assumono un aspetto più dimesso, a volte persino futile. “Dove mi trovo?” Finisci col domandarti. La risposta è: nelle pagine di Schmidt. Pagine irriferibili a qualcosa che conosci, allucinate, esasperate, in cui le parole si mescolano in forme non immediatamente pensabili e tuttavia immerse in una profondissima cultura capace di evocare l’impensato ed inventare mondi. Pagine singhiozzanti, spesso frantumate da una punteggiatura ossessiva, puntigliosa, che finisce per imporsi come un testo nel testo. E te ne chiedi il perché. La risposta alla fine emerge: quella punteggiatura è creazione di tempo, serve a scandire il tempo di lettura e a rafforzare determinati passaggi, a renderli volutamente più “parlati”. Una pagina viva: parla, sussurra, a volte canta. Grida. Ma la devi seguire; è una pagina esigente e può anche essere chiusa bruscamente. L'inafferrabilità di Schmidt riflette l'inafferrabilità della letteratura. Essa è invenzione, creazione da un nulla sottostante, muto, ma che chiede di parlare. Per sua stessa natura, la parola ha voce duplice, a seconda del narratore: banale e ripetitiva o inaspettata creazione di linguaggio nuovo. Ciò dipende dal fatto che il narratore sia servo del sistema di riferimento dominante o, al contrario, recalcitri, sfugga, detesti le strettezze del già conosciuto/già pensato e smania per essere esso stesso voce letteraria, capace di reinventare una lingua ormai esausta, decaduta, spenta, come ogni simbolo quando muore. Schmidt è allora simbolo, un creatore di quel "non ancora" che ancora non esiste e attende di esser detto. Leggere Schmidt è, dunque, inevitabilmente, dire. Il libro, Alessandro o della verità (Einaudi, Torino, 1965), fu pubblicato, dopo aspre questioni e rimaneggiamenti. Nel racconto che dà il titolo alla raccolta, il giovane poeta Lampone di Samo deve raggiungere lo zio, generale del Grande Alessandro, presso Babilonia. Per farlo, si accompagna a una singolare carovana di attori girovaghi, finendo inevitabilmente per inoltrarsi in inestricabili conversazioni su Alessandro e il potere da lui incarnato e innamorarsi della prima donna: Monica. “lei, misurata al massimo, virginale, castigata – ah, tutte cose che non è certamente. E la maschera d’avorio sopra il calice del bavero.” Monica, Agraule, Pocahontas, Anna, nell’ultima pubblicazione italiana (in realtà la prima di Arno) Il Leviatano: le donne di Schmidt. Disincantate, calcolatrici, fredde, sempre meravigliosamente irraggiungibili, perché le donne di Schmidt sono la nostra anima, perduta e disattesa, che dall’ombra in cui la abbiamo relegata ci osserva e ritorna per incantarci ancora e, inevitabilmente, ritirarsi delusa, specchio della nostra freddezza e di un mutismo indotto, perché non siamo capaci di dirla e neppure lontanamente di amarla. Alessandro è l’incarnazione del Leviatano, la bestia dell’ignoranza, del potere cieco, della violenza istintuale, del culto inossidabile e pazzesco del se stesso che non somiglia a nulla di umano; una nuda incarnazione del potere, qualsiasi la forma. È l’assassino che spiana città e continenti, passa sopra a tutto e chiunque pur di raggiungere i suoi scopi che neppure sono tali, perché non sono altro che espressione di un istinto di potenza e di una frattura originale all’interno del Sé, e dunque nulla hanno di sensato. In pratica, quello che oggi definiremmo uno psicopatico. In realtà, dovremmo conoscerlo bene, se solo pensassimo alla schiera infinita di dittatori e satrapi di vario genere che si sono alternati nel mondo, anche ultimamente ed anche nel nostro disgraziato paese, Contro di lui, si schiera l’intelligenza di pochi come Pitea o Licofrone o Ipponatte o il sergente profugo del breve romanzo, Il Leviatano, tutti destinati a perire. Prendiamo Pitea, ad esempio (d’altra parte, ho cominciato proprio con lui e la sua cella in una fortezza cartaginese). Ebbene, Pitea non riuscirà a fuggire; sognerà soltanto la sua fuga e il suo sarà un sogno di morte. Nel porto allucinato di Gadir, di fronte a una nave che non c’è, Pitea sogna la sua libertà dalla bestia che opprime. “Ultimo ottenebramento: Vento nebbioso, fradicio, sommerge la montagna con frastuono d’organo, rotola sopra boschi ululanti. Aspirai profondamente e rantolai, gargarizzai fuori con beatitudine insensata: verso la libertà.” “A sera: nuvolaglia di tempesta si aduna. Ho aggirato già da un pezzo la montagna; in basso si stende Gadir, con i suoi vicoli ben tracciati, con i sobborghi dove incrociano a volo i piccioni. Otto navi stanno all’ancora nel porto, oscillano; due davanti all’isola di Erythia, una, nera, qui di fronte, sulla sinistra, molto più in basso rispetto a me (un’ora di strada per arrivarci): tenterò con quella”. Salirà su quella nave e salperà: verso la morte, nella cella mai abbandonata. Né altro vede il giovane Licofrone, il cui destino sarà segnato dal potere ottuso incarnato da un finanziere di Roma (e la di lui figlia) e dal vescovo al suo seguito, il temibile Gabriele, colmo di costrizioni che dispensa sotto forma di fede. « Questi è il nostro universalmente riverito Gabriele di Thisoa: – – » (inchinarsi educatamente: il prete di casa, pare. Forse anche il precettore nello stesso tempo). – « – e qui la mia figliola Agraule : – – » Capelli scuri le incorniciavano il volto. Pallida, clorotica, il naso aguzzo, con sguardi neri (solitamente, gli occhi umani formano segni di infinito; in questo caso, una formula fissa). Una formula fissa. Come la cosmogonia ecclesiale che Gabriele impone ai due giovani, del tutto inesatta e fantasmatica, come Lico ben sa, grazie agli insegnamenti di filosofia e fisica ricevuti dal suo amatissimo maestro Eutochio, costretto a riparare in Persia per sfuggire le persecuzioni del vescovo. Senza tuttavia cedere. “E già di nuovo a oriente: tramava a uncino la luna variopinta; verdi intrichi, viluppi gialli, fili rossi, (il gomitolo ancora stava sotto l’orizzonte), scialli azzurri. “Stasera ci sarà il sereno: vieni all’osservatorio, allora, intesi?!” : “Con piacere, maestro!”” Perché, come diceva Eutochio, i centomila anni della metafisica sono finiti e sono cominciati gli anni della fisica. Un sistema cominciava a cadere. La caduta dei sistemi Definirei sistema un aggregato di riferimento collettivo cui l’individuo non dovrebbe mai accedere, pena la rinuncia alla propria intelligenza. In tutte le sue formulazioni e distinzioni, lo Stato è l’organizzazione “sistematica” per eccellenza. Schmidt identifica lo Stato e il sistema che in esso di incarna con una mostruosità che opprime e schiaccia l'individuo cui impone modi di vivere e pensare. Non era il solo. “Io non chiedo che si sostituisca lo Stato con una biblioteca – benché quest’idea abbia visitato più volte la mia mente –; ma per me non c’è dubbio che, se scegliessimo i nostri governanti sulla base della loro esperienza di lettori, e non sulla base dei loro programmi politici, ci sarebbe assai meno sofferenza sulla terra”. (I. Brodskij, Dall’esilio, Adelphi, Milano, 1988, p. 53). Sono convinto che Schmidt avrebbe approvato incondizionatamente. Un sistema non è sempre evidente; spesso è occulto, difficile da individuare. Non per questo meno resistente. “Funzioni intellettuali, proprie dei sistemi di divieti di una forma sociale, hanno assimilato le procedure linguistico–concettuali ai processi naturali scanditi da causa ed effetto. Ora, l’assunzione che la coerenza e il senso della condotta intellettuale siano archiviati in un modulo preformato, in un repertorio di competenze precostituite, rappresenta un’estensione impropria delle relazioni naturali al dominio delle sequenze costruttive nel corso delle quali, passo per passo, si formano i discorsi coerenti. Il presente diviene a questo punto una ritualizzazione del passato. […] Il mentalismo, le filosofie e le metodologie del ‘pensiero’, ‘mente’,’interiorità’ hanno occultato l’aspetto costruttivo del nostro sapere, svolgendo una funzione nella nostra forma di vita, paragonabile a quella esercitata dall’ipotesi teologica”. (A. Gargani (a cura di), Crisi della ragione, Einaudi, Torino, 1979), Non solo il sapere sedimentato, ma anche la consuetudine, ovvero un sedimento non saputo, è parte integrante di un sistema e contribuisce al suo mantenimento. Come scrive Carlo Ginzburg: “In ogni caso queste forme di sapere […] non venivano apprese dai libri ma dalla viva voce, dai gesti, dalle occhiate; si formavano su sottigliezze certo non formalizzabili, spesso addirittura non traducibili verbalmente; costituivano il patrimonio in parte unitario, in parte diversificato, di uomini e donne appartenenti a tutte le classi sociali. Una sottile parentela le univa: tutte nascevano dall’esperienza, dalla concretezza dell’esperienza. In questa concretezza stava la forza di questo tipo di sapere, e il suo limite – l’incapacità di servirsi dello strumento potente e terribile dell’astrazione.” (Ibidem, p. 81). Una ragnatela pseudorazionale si intesse intorno al modo di sentire, pensare, vedere il mondo, informando queste funzioni psichiche del non senso dell’inattuale, imprigionandole all’interno di un già visto, già pensato, comunque mai davvero consapevolmente. Come scrive ancora Gargani: “Si chiama crisi della razionalità la percezione che la casa del nostro sapere è di fatto disabitata […] È in questa situazione di transizione che si esperisce l’impressione che vi sia un sapere non esplicitato o non portato pienamente a coscienza al di là di quello di cui disponevamo; ossia sentiamo che il sapere e la nostra consapevolezza non riescono più a coincidere come accadeva nel sistema chiuso di quelle convenzioni”. (A. Gargani, a cura di, Ibidem, p. 46). A questo punto sarebbe lecito chiedersi quale sia l’origine di un sistema e a cosa esso tenda, ma è un discorso che condurrebbe troppo lontano. Chi avesse voglia di approfondire può leggere il volume 8 delle Opere di C.G. Jung, La dinamica dell’inconscio, edito da Boringhieri e il libro di E. Severino, La tendenza fondamentale del nostro tempo, edito da Adelphi. Sulla base di quelle letture mi sentirei di proporre la seguente conclusione: un sistema è una manifestazione di strutture psichiche arcaiche legate all’istinto. Esso è per ciò stesso essenzialmente conservatore e avverso a qualunque forma di evoluzione. Nasce da un nulla rappresentativo ed è esso stesso un nulla che genera nulla e nullità. Riconoscerlo e combatterlo, in qualsiasi sua forma, è questione vitale. Vivere nell’inconsapevolezza passiva e involontaria di un sistema fa scadere Il simbolo a segno e la possibilità di significare cede all’insignificanza della ripetizione sterile, come se si vivesse in un passato che non si vuole lasciare tramontare, un grembo materno ormai troppo stretto che, tuttavia, non si riesce ad abbandonare. Schmidt scalciava. L’appartenenza inconsapevole ad un sistema riguarda molte altre forme culturali, non ultima l’arte. Per fare alcuni esempi, il “classicismo” ha resistito violentemente agli “impressionisti”, definiti dai membri del potere “la vergogna di Francia”. Per rompere il predominio dell’armonia ed aprire la musica ad altre possibilità linguistiche è stato necessario Schoemberg e la rivoluzione atonale da lui portata avanti. O ancora, “Nella musica di Mahler e nella polemica che essa rappresenta nei confronti di linguaggi istituzionalizzati, saturi, si può avvertire lo sforzo di fissare un nuovo paradigma di visione della vita umana, emancipata dalle convenzioni di codici usurati, attraverso l’impiego di sonorità che sembrano provenire dai padiglioni delle bande militari, della orchestre dei giardini pubblici.” (A. Gargani, a cura di, op. cit. p. 46). Solo che nei “giardini pubblici” abitava l’anima popolare cui Mahler ha dato espressione sinfonica. Per aprire la letteratura a forme linguistiche e narrative diverse dal romanzo tradizionale, abbiamo dovuto attendere Doblin, Musil e Schmidt. Il primo, per quanto grandissimo, ancora legato a certe forme narrative tradizionali e, per ciò, accettato; il nostro, ferocemente osteggiato, quando non ignorato, dalla critica ufficiale del tempo. Ma non tutta. “Un ragazzo matto. All’inizio si pensa: stupidaggini. Poi ci si arrabbia. Un uomo evidentemente che si ritiene un genio e si comporta di conseguenza. Si prosegue a leggere. Si è incantati. Si è commossi. Poi ancora snobismi. Poi immagini splendide. Espressionismo con tre punti esclamativi.” (In Introduzione a Leviatano o il migliore dei mondi, Mimesis, Milano–Udine, 2013, p. 9). Vento Nelle notti di brughiera, ai margini della palude e dei suoi occhi: Schmidt. "Ah, la greve risacca dell’aria! Un battello di nebbia scialuppa a lungo nel porto erboso, e naufragò poi esitante sotto gli alberi. Lasciò cadere mani assieme a dure lacrime nelle acque nere, la sua voce strisciò al suolo; le spalle uno poteva tirarle a sé, il viso non ancora.” (Paesaggio lacustre con Pocahontas, Zandonai, Rovereto, 2011). Cosa muoveva Schmidt? La moglie - Alice - racconta che qualcosa lo afferrava e dalla sua bocca cominciavano a fuoriuscire parole, come un fiume di carta. Tuttavia non basta. Probabilmente una profonda volontà distruttiva di tutto ciò che è conforme a un limite imposto ottusamente, un’enorme insoddisfazione e un bisogno quasi sovrannaturale di fuga, evidenziati soprattutto in Enthymesis, ovvero Q.V.O. (in Alessandro o della verità, op. cit.) contribuivano al suo impulso creativo. C’era tuttavia anche un fortissimo bisogno di sfuggire dal caos della Germania post bellica, da lui raccontata nella “Trilogia”, in particolare in Specchi neri (Lavieri, S. Angelo In Formis, 2009). Tuttavia anche la necessità di ordinare il caos interiore in cui si dibatteva. Schmidt, infatti, scriveva dove capitava, spesso su foglietti volanti, difficili da recuperare, come ci racconta Dario Borso nella sua introduzione a Paesaggio lacustre con Pocahontas (op. cit.). Forse ordinare e sfuggire ad un tempo una forza oscura che si agitava in lui come fonte espressiva insopprimibile, che lo afferrava costringendolo a sciorinare parole a bassa voce, ad essere praticamente tutt’uno con quelle parole spesso inevitabili. Schmidt non era Schmidt: era il suo dire. Sul piano personale, al di fuori degli scritti, la sua esistenza era un trascinarsi da un’ispirazione all’altra, spesso allucinazione, senza cura dei giorni. Come scrive Brodskij nel suo Dall’esilio (I. Brodskij, Dall’esilio, op. cit., p. 60): “Il poeta, ripeto, è il mezzo di cui la lingua si serve per esistere. O, come ha detto il mio amato Auden, è colui in cui e per cui la lingua vive. Io che scrivo queste righe scomparirò; e scomparirete voi che le leggete; ma rimarrà la lingua nella quale esse sono scritte e nella quale voi le leggete: rimarrà non solamente perché la lingua è cosa più duratura dell’uomo, ma anche perché più di lui è capace di mutazione”. Alessandro o della verità è scomparso ormai da anni dalla scena letteraria italiana. I dieci lettori italiani di Arno Schmidt, come amaramente li definisce Claudio Magris, non hanno molto da rimpiangere: il libro l’hanno letto. Resta l’ottusità del sistema, in questo caso quello editorial/culturale vigente nelle patrie galere. Poco male: chi lo possiede potrà sempre rileggerlo. In segreto. Questo articolo, già pubblicato sulla Rivista Fermenti, è stato richiesto in Germania dalla Fondazione Arno Schmidt e inserito nella bibliografia ufficiale del grande autore tedesco.
Id: 3437 Data: 05/09/2024 11:34:46
*
- Letteratura
La Stiva
Il Minotauro è un animale esausto, ma non credo se ne sia accorto, chiuso com’è nella malinconia. Dunque dove mi trovo? Questa stiva non è un contenitore. Non tutto è disponibile a comando. Devo passare la domanda al revisore ed aspettare pratiche – che si compiano, dico – sperando che si trovi la bisaccia dove ho messo i ricordi. Spesso cortocircuiti (se si crea un conflitto). E mi sento inevaso. Se la cosa riesce, potrebbe generarsi un’alluvione. E allora stracci, idrovore, pompe di calore per asciugare il senso che rimane. Dunque leggere titoli. Sui contenuti meglio sorvolare. Ora, la stiva è un luogo galleggiante dove la notte abita tranne poche fessure. Magari un Monastero. Molto simile a un ventre, potrebbe essere quello di tua madre, se non fosse che lo conosci benissimo avendoci abitato, mentre questa è simile all’ignoto. Per questo induce desideri, inquietudini, paure. Cosa, ad esempio, dietro quelle casse? O peggio, dentro. O all’angolo del buio più lontano, quello dietro quell’altro? Meglio tornare in-dietro. Con cautela: si potrebbero incontrare ricordi. Si apre a caso (cioè, togli il cellophane al mondo) e scopri che una tal signora “aveva un culo di vetro sul quale si poteva leggere il medioevo” (H. Miller, “Tropico del cancro”). Ora, non è cosa di tutti i giorni leggere il medio evo sul culo di una donna, cosa che farei volentieri per svariate ragioni, ma il futuro non era contemplato. Nemmeno che il tropico avesse il cancro. Quindi, rivolgersi altrove. Scopri allora che ti è arrivata una lettera, da un certo Baranowicz che abita in cima al mondo. Scrive di una donna. Mi scrive. Io non la conosco. “Si chiama Alja e sta zitta quasi tutto il giorno. Lascio che abiti qui, le do un letto e così vive accanto a me. Posso darle anche dei soldi se vuoi che venga da te. Ma posso anche tenerla qui. È lo stesso per me! Scrivimi a Irkutsk fermo posta. Ogni mese Isaak Gorin, il venditore di grammofoni, ritira la mia posta. Ho anche acquistato da lui un grammofono, e alla donna che sostiene di essere tua moglie piace ascoltarlo. A volte piange persino. Forse piange per te, almeno io penso – e allora può essere che anche a me vengano le lacrime.” (J. Roth, “Fuga senza fine”). Questo succedeva mentre a Vienna si suonavano mazurke anche dentro le cripte (J. Roth, “La cripta dei cappuccini”) e qualcun altro emigrava in America, lasciandosi dietro un mondo inabile, un figlio inabile e un’anima disabilitata, come l’Europa degli Ebrei che vanno. Gli capita anche di non riuscire a riconoscere uno straccio di mondo perché era rimasto insieme al figlio inabile. E un giorno gli amici, vedendo del fumo uscire dall’appartamento, entrano e trovano che sta bruciando tutti i vecchi libri. “Che fai?” gli gridano. E lui: “Brucio Dio!” (J. Roth, “Giobbe”), mentre a Venezia gli angeli girano solo di notte e io non posso dormire (I. Brodskij, “Fondamenta degli incurabili”). A Vienna comunque Mitzi non mi lasciava in pace, nonostante le avessi comprato cento statue di cera con cui giocare, lei e quell’idiota del figlio (che poi era anche mio, sembra). Così mi sono sparato (J. Roth, “La milleduesima notte”). Sempre meglio che a Berlino, dove qualcosa ti dice di darle il cuore altrimenti viene a prenderselo da sola, e hai voglia a rispondere “un momentino...”. (A. Döblin, Berlin Alexanderplatz”). Quindi sali su un treno, e mica lo sai dove stai andando e qualcuno dice:” Và al diavolo”. “Certo generale, o dovrei dire tenente? Scusatemi signora, ho buscato un avvelenamento da gas a furia di essere comandato di corvèe in cucina, e da allora la mia vista non è stata più la stessa. Avanti verso Berlino! Ma sì, certo siamo su Berlino, sono su di te, Berlino. Ho il tuo numero. Niente migliaia, niente centinaia e nemmeno un indegno zero di soldato semplice (molto semplice), Joe Gilligan in ritardo per le patate, in ritardo per il servizio, in ritardo per il rancio anche quando il rancio è in ritardo. La statua della libertà non mi ha mai visto e se mi vorrà guardare dovrà chinarsi su di me”. (W. Faulkner, “La paga del soldato”). E ad Alexanderplatz non c’era più nessuno. In un’altra cassa mi trovavo a Zlotogrod e facevo il verificatore. Tutti i pesi erano falsi. Non me ne fregava niente: io volevo stare con Eufemia, anche se non aveva un culo di vetro. Eufemia stava con me, nell’osteria della frontiera, per il tempo che poteva. Ma tornava l’inverno, e con l’inverno passava il colera ma ritornava l’uomo cui apparteneva. C’era poco da verificare: gli apparteneva, almeno d’inverno. A Zlotogrod l’inverno è lunghissimo. E allora una notte il gendarme Piotrak mi carica su un carro. Su un carro mi carica e mi scarica davanti all’ospedale, per sentirsi dire dal medico: “Costui è morto. Perché ce lo porta qua?” (J. Roth, “Il peso falso”). Capisci? Da una cassa all’ospedale. E nemmeno ci dovevo andare! E allora è meglio andare in un’altra cassa, dove ci trovi dei mattoni e ti puoi costruire una stanza. E tutti ti scambiano per un rabbi, un santo cui chiedere consigli, mentre sono soltanto un peccatore, un avventuriero, uno di quelli che corrono sulla corda per non trovarsela al collo. E dopo i fatti di Eufemia, credo sia meglio che le donne siano loro a morire. Io mi costruisco una stanza, senza porte, senza finestre, soltanto uno spioncino, per tenerci dentro i miei peccati e i miei istinti irrefrenabili. Li freno io, li freno! Coi mattoni. E non venitemi a chiedere cosa dovete fare: fatelo da voi! (I. Singer, “Il mago di Lublino”). Ma non chiedetemi neppure di ascoltare la radio se non ne avete una (stava in un’altra cassa). Non me lo chiedete, altrimenti mi devo inventare di averne una mentre non ce l’ho, e vi devo dare le notizie che sperate di sentire, mentre questi ci ammazzano uno a uno e ci fanno lavorare come se non fossimo morti. E vi devo dire che arrivano gli Americani, ma non ne ho la minima idea. Poi gli Americani arrivano davvero, ma quelli intanto (quegli altri), si sono convinti che una radio ce l’ho davvero, nonostante il divieto di averne, e mi ammazzano. Così quando quelli arrivano, voi avete avuto la conferma di una notizia che non avevo ma che vi ho dato. E io sono morto. (I. Singer, “Jacob il bugiardo”). Quando sono morto le ho chiuse; ho chiuso tutte le casse. Ho cercato di uscire dalla stiva ma non ci sono riuscito, perché ho capito che non sono io a stare nella stiva, ma la stiva è dentro di me. E c’è stata per cento anni, di solitudine, solo che non c’erano alberi dove pisciare e i cent’anni non finivano mai. Ma se sono morto come faccio a camminare? “Mentre io, prima che Karrer impazzisse, camminavo con Oehler solo di mercoledì, ora, dopo che Karrer è impazzito, cammino con Oehler anche di lunedì… E senza esitare ho detto a Oehler: bene, camminiamo anche di lunedì, ora che Karrer è impazzito ed è allo Steinhof”. (T. Bernhard, “Camminare”). E a furia di camminare mi sono trovato in un cesso pubblico, a sorvegliare le pisciate degli altri, dopo anni di strada a suonare un organetto, sai, quei vecchi attrezzi pieni di vecchie canzoni, e avevo una gamba sola per via della guerra. Per questo avevo un organetto. Stavo in un cesso pubblico a fare il guardiano, sperando in qualche mancia. Avevo un pappagallo sulle spalle e a un certo punto il pappagallo si è messo a volare, lì, nel cesso, e le sue ali frusciavano come credo possa frusciare solo la morte, ma non le sentivo. Non sentivo le ali del mio pappagallo: non lo sentivo volare. Neppure quando si è posato sulla mia spalla”. (J. Roth, “La Ribellione"). “E allora succede che anche Horace non li udiva. Non udiva le urla di quello che si era bruciato. Non udiva il fuoco, anche se il fuoco continuava a vorticare verso l’alto con la stessa intensità come se vivesse di se stesso, e senza alcun rumore: una voce infuriata, come in un sogno, che usciva ruggendo in silenzio da un placido nulla”. (W. Faulkner, “Santuario”). E da quel nulla esce fuori che Dio viveva a Parigi, anche se non lo sa. E quando mi sono trovato davanti a Lui, senza una gamba e senza neppure l’organetto, mi ha chiesto cosa volessi. “Voglio andare all’inferno!” ho risposto (J. Roth, “La ribellione”) "e un battello gridava dalla Senna, un altro rispondeva e tutti seguivamo il corso della corrente. La seguivano tutti e che non se ne parli più” (F. Céline, “Viaggio al termine della notte”).
Id: 3391 Data: 07/06/2024 12:01:02
*
- Letteratura
Il caso Thomas Bernhard
“Lo stato di totale indifferenza in cui mi trovo, così Karrer, è uno stato filosofico da cima a fondo”. (T, Bernhard, “Camminare”, Adelphi, Milano, 2018) Non mi era mai capitato di leggere di fila tre romanzi di uno stesso autore. In genere, quando ho finito di leggere un romanzo di un determinato autore, quando ho finito di lasciarmi penetrare dal suo pensiero, di pensarlo; di vivere il suo sentire, di sentirlo; di condividere insomma il suo mondo, di penetrarlo come se fosse mio, abitarlo, percorrerlo, inseguirlo a volte; quando ho finito di fare tutto questo, passo ad altro. Intendo dire ad altro autore, mondo, pensiero, sentimento, condivisione, inseguimento, se occorre. Questa volta no. Questa volta, terminata la lettura di un romanzo di Bernhard, ne ho letto subito un altro e, terminato anche quello, un altro ancora. Nell’ordine, mi riferisco a “Camminare”, “Antichi Maestri”, “Perturbamento”. Alla fine ho letto anche tutti gli altri. Ho camminato con lui, a lungo; non sapevo perché. “Mentre io, prima che Karrer impazzisse, camminavo con Oehler solo di mercoledì, ora, dopo che Karrer è impazzito, cammino con Oehler anche di lunedì...perché non c'è nulla di più orribile di dover camminare da soli di lunedì”. (T. Bernhard, Camminare, Adelphi, Milano, 2018). Terminata la compenetrazione con un certo mondo – vedremo quale – ho desiderato non uscirne, restarvi dentro, percorrerlo di nuovo anche se in altro libro. Ho desiderato sentire ancora quei pensieri, inseguirli, esserne inseguito, perché Bernhard, se provi a lasciarlo, ti insegue, e non è facile liberarsene. Il suo è un veleno sottile, avvolgente, che può creare una dipendenza. È come la campana di un paese, un paese piccolo, estremamente definito, privo di sorprese: ti suona nella testa, senza sorprese. Un paese minuto e, proprio per questo, inesorabile: non se ne esce, perché il mondo è tutto lì. Non ne esiste un altro. Una specie di prigionia; senti che ti opprime, ma non vuoi uscirne, Cosa al di fuori? Certamente non Bernhard, non il mondo minuscolo e terribile che stai abitando, ma è di quello che hai bisogno. Un paesino piccolo e terribile, che somiglia solo a se stesso. E si ripete, si ripete ininterrottamente: un labirinto da cui non si può uscire. Quella campana suona, rintocca, ti penetra, ti perseguita, ti affascina, ti assorda, ma vuoi continuare a sentirla. È un suono martellante ed avvolgente al tempo stesso. Ti martella e ti avvolge in spirali di parole che creano intorno a te un labirinto di pensieri di cui non trovi l’uscita. Respiri male, non respiri, vorresti fuggire ma non sai come né da dove. Non c’è luogo e non c’è tempo nel pensiero di Bernhard: sottrae punti di riferimento. Tutto si riduce a lui e in lui si estingue. Leggere Bernhard è come impazzire. Per questo continui a leggerlo: per evitare di impazzire. Non parlerò di quei romanzi, non ne traccerò la trama: non esiste una trama. I romanzi di Bernhard non sono avvenimenti, luoghi, persone. Si tratta di un monologo, un soliloquio estremo, ma non in prima persona: è un discorso riferito. In pratica, è qualcuno che parla di qualcuno e, parlandone, lo fa parlare. Ma chi parla non appare mai, tranne che per riferimento. A volte, si inserisce anche un terzo personaggio, sempre riferito e, comunque, anche chi riferisce non racconta in prima persona: riferisce. Tutto è indiretto. La scena è unica, stabile, non cambia mai. Che sia una strada, un palazzo o un museo, la scena è fissa, come fissi sono i personaggi che da quella scena non si muovono. Nei romanzi di Bernhard, in pratica, non accade niente, tranne che una fissità continua di parole. Noto di sfuggita che, nei suoi romanzi, non esistono capoversi. Accadono parole. Un flusso di pensiero ininterrotto, analitico, freddo, seghettante e ripetuto, che si allontana e torna, ripetendo temi attraverso frasi ripetute cui, a volte, si aggiunge un’unica parola: da ripetere, alla fine della frase già ripetuta. E così via, di seguito. Un pensiero ossessivo, al limite della follia, tanto che, seguendolo e volendolo seguire, sei portato a chiederti se non stai diventando pazzo. I libri di Bernhard andrebbero chiusi di getto, dopo poche righe. Né riaperti. L’ho fatto più volte, riaprendoli sempre. L’ho detto: non si esce da quel labirinto; non si vuole uscire. A un certo punto è inevitabile chiedersi: ”perché fa così?” La risposta è: per non impazzire. In ultima istanza, Bernhard rinchiude il proprio pensiero in un manicomio privato, interiore, dove non c'è cura e si è liberi di essere pazzi. Bernhard scriveva per evitare di impazzire sentendosi libero di essere pazzo. Nel manicomio chiuso dei propri soliloqui ossessivi egli costruiva un contenitore, un vero e proprio contenimento alla follia che altrimenti lo avrebbe travolto. I romanzi di Bernhard sono mura mentali costruite per contenere un flusso incontrollato di pensieri che altrimenti lo avrebbero fatto impazzire. All'interno di quel luogo senza cura ma sicuro, Bernhard poteva controllare il flusso che lo pensava e renderlo proprio, altrimenti ne sarebbe stato vittima. Non che quella costruzione fosse volontaria; era tuttavia salvifica. Cosa esprime quel pensiero? Disgusto. Per qualcuno, per qualcosa? Per tutto. Un disgusto, direi, cosmico, assoluto, globale, che finisce col disgustarsi del disgusto stesso. Una critica sociale che coinvolge tutte le forme dell’esistere cui, inevitabilmente, l’uomo dà vita. Oggetto primario di accanimento è lo Stato e l’orrore cui lo Stato ha dato forma e sostanza corrompendo l’uomo che, da parte sua, sembra essere stato estremamente corruttibile, addirittura lieto di esserlo. Perché l’uomo è una mostruosità, un errore, anche nell’Arte. E la storia, la storia umana, nella visione di Bernhard, è semplicemente una storia morta. “Dunque l’arte è senza dubbio quella di sopportare l’insopportabile e di non sentire ciò che è orribile come tale, cioè orribile. Definire quest’arte come la più difficile, è ovvio. L’arte di esistere contro i fatti, dice Oehler, è l’arte più difficile. Esistere contro i fatti significa esistere contro ciò che è insopportabile e contro ciò che è orribile, dice Oehler. Se noi non esistiamo costantemente contro ma solo costantemente con i fatti, dice Oehler, andiamo a fondo in brevissimo tempo. Il fatto è che la nostra esistenza è un’esistenza insopportabile e orribile, se esistiamo con questo fatto, dice Oehler, senza esistere contro questo fatto, andiamo a fondo nel più miserabile e nel più comune dei modi… E’ sempre un problema di freddezza mentale e di acume mentale, dice Oehler. La maggior parte delle persone, dice Oehler, non ha né freddezza mentale né acume mentale e non ha neppure intelletto. L’intera storia sino ad oggi ne ha dato senz’altro prova. Ovunque guardiamo, né freddezza mentale né acume mentale, dice Oehler, il tutto è una gigantesca storia, spaventosamente lunga, priva di acume mentale e di freddezza mentale, e quindi priva di intelletto. Se guardiamo alla storia, qui deprime in particolare la totale mancanza di intelletto, per non parlare poi di acume mentale e di freddezza mentale. In tal senso non è un’esagerazione dire che tutta la storia è una storia totalmente priva di intelletto, ragion per cui è anche una storia completamente morta”. (Thomas Bernhard, Camminare, Adelphi, Milano, 2018) Questo l’uomo e il mondo. Anche il mondo in sé, a prescindere dall’umano: la natura è semplicemente un terribile orrore. Tutto è corruzione perché lo Stato corrompe. Tutto è stupidità perché lo Stato è stupido. Tutto è infame perché lo Stato è infame. Lo è anche la Chiesa e qualsiasi forma cui l’uomo abbia dato vita, perché lo è l’uomo. Noto di sfuggita che Bernhard non parla mai di Dio: non ne vale la pena. Al termine della lettura ti viene inevitabilmente da chiederti che tipo d’uomo sia mai stato costui. Ne esce un’immagine fredda, solitaria, profondamente amareggiata, ma sorretta da un’intelligenza implacabile. Ne esce anche una totale mancanza di sentimento. Bernhard pensa, non sente. Non sente nulla. E tuttavia non è vero, perché Bernhard è anche e soprattutto una profonda forma di amarezza. Non riporterò le circostanze della sua vita; chi vuole potrà facilmente informarsi. Dirò soltanto che, nonostante il disgusto e l’amarezza, Bernhard non ha mai rinunciato alla vita. Leggendolo, viene in mente – come lui stesso dichiara – che l’unica forma possibile sarebbe il suicidio. Tuttavia. Bernhard voleva vivere; voleva vivere intensamente e fino in fondo il disgusto profondo della vita. Tutto si riduce a un disgusto “pensato” dell’umano, talmente freddo e analitico da sembrare disumano. Bernhard, tuttavia, non riesce ad evitare l’amarezza. La sua è un’amarezza talmente profonda che ha bisogno di rinchiuderla in un labirinto di parole per non doverla sentire. Il più delle volte ci riesce, ma la sua amarezza traspare, esce dalle pagine, ti invade, perché Bernhard ne scrive e tu ne leggi. Alla fine, il disgusto e l’amarezza (persino per il disgusto) sono gli unici pensieri/sentimenti possibili da cui ti vorresti liberare al più presto e nei quali vorresti, tuttavia, restare, perché non puoi fare a meno di provarli e, inevitabilmente, condividerli. Per Bernhard i pazzi siamo noi, una folla confusa, una massa informe incapace di pensare autonomamente. Passivi e orribili, pieni di stupidità e perversioni, pronti a seguire senza la minima capacità critica le linee di una vita pre-figurata da chi è pre-figurato a farlo. Credo fosse un uomo deluso, un “soccombente” tra i tanti che non ammetteva di essere tale. Non poteva evitarlo: se si fosse concesso anche solo un briciolo di sentimento di pietà, sarebbe senz’altro impazzito e noi non avremmo letto il lato meraviglioso di una follia contenuta e lucida che ha contemplato per tutta la vita, permettendoci di contemplarla. E accusandoci di farlo.
Id: 3355 Data: 22/04/2024 12:04:51
*
- Arte
E. Hopper: lattimo senza tempo
E. Hopper: l’attimo senza tempo di Giovanni Baldaccini Scrivere di Hopper non è compito semplice: sembra scrivere di nulla. Molti ne hanno parlato e molte sono le definizioni dell’uomo e della sua pittura. Di volta in volta i suoi quadri sono stati espressione di silenzio, alienazione, assenza, solitudine ed altre categorie più o meno adatte a classificarli. Io non trovo una categoria adatta. Per me Hopper è un’assenza talmente estrema da sfuggire a qualsiasi definizione. A mio parere, Hopper esce dal tempo e il tempo è categoria di qualsiasi realtà si voglia parlare. Nella realtà codificata delle sue astrazioni materiali, Hopper mi sembra fuori dal reale. Tuttavia Hopper esiste – o meglio, esistono i suoi quadri. Hopper dunque è reale, ma di una realtà diversa, perché Hopper annulla il tempo e dunque la stessa possibilità di essere reale. Questa affermazione andrà giustificata. “In quei territori dell’estremo spaesamento contemporaneo, infatti, incontriamo presenze spettrali che si aggirano tra luoghi desolati, nascosti dalla banalità del quotidiano, dall’eterna ripetizione di gesti automatici e inautentici. Tutto appare sprofondato nel presente dove ormai nessun evento può più davvero aver luogo perché lo spazio di manifestazione nella vita ordinaria sembra completamente saturo di accadimenti sempre identici. Il tempo insomma si chiude, bloccato nel suo movimento di sistole e diastole, in un presente atemporale ben lontano dall’istante kairotico e destinale. Non c’è spazio per l’eterno né per il suo ingresso nel tempo attraverso l’attimo, non c’è aíon possibile ma solo ossessiva ripetizione che frattura le estasi temporali disperdendo irrimediabilmente télos, skopòs éschaton. Non resta che l’ipostasi del presente con l’opprimente pesantezza dell’esistere” [Levinas, E., Il Tempo e l’Altro (1948), tr. it. di F.P. Ciglia, Genova, Il Melangolo, 2001]. Dunque Hopper annulla la ripetizione del banale e chiude il tempo rifiutando in tal modo l’insensatezza di un esistere che è ossessione inconsapevolmente ripetuta, ma non credo che l’attimo, che Hopper fissa nei suoi quadri, non apra spazi d’eterno. Di questo parlerò in seguito. Per ora dirò che Hopper “tiene insieme le cose”. In un campo io sono l’assenza di campo. Questo è sempre opportuno. Dovunque sono io sono ciò che manca.
Quando cammino divido l’aria e sempre l’aria si fa avanti per riempire gli spazi che il mio corpo occupava. Tutti abbiamo delle ragioni per muoverci io mi muovo per tenere assieme le cose. Mark Strand, Tenendo le cose assieme da "Sleeping with one eye open" Nella fissità atemporale delle sue rappresentazioni, Hopper evita la dispersione. Egli fissa infatti i suoi personaggi/paesaggi nello spazio racchiuso e immobile della tela, evitando che soffrano del tempo, che soffrano il suo trascorrere meccanico, che si annullino nel tempo insensato del mondo. In ultima istanza, Hopper tenta di evitarne la morte. Nell'annullamento temporale, i quadri di Hopper sono uno squarcio d’eterno. Cancellando il tempo, tenendo insieme le cose nell’attimo che non sfugge, fissando uomini, donne, paesaggi, muri, città e qualsiasi altra cosa capiti sotto i suoi occhi, persino una pompa di benzina, Hopper evita che muoiano disperdendosi nella banalità delle definizioni e consegna i suoi oggetti a un eterno senza tempo che tuttavia è tempo nella misura in cui li definisce in un “al di fuori” irreale, una metafisica del reale che egli ricerca e fissa nell’eterno senza tempo della sua visione che annulla le categorie del quotidiano. In ultima analisi, Hopper teme la morte. La teme a tal punto da estenderne il concetto persino alle cose: Hopper voleva salvare le cose dalla morte. Sovrano è l’attimo, sottratto a qualsiasi forma di fluire e, con ciò, scomparire. Hopper rende eterna l’antitesi dell’eterno, cioè l’attimo, e in questo modo ferma il tempo che va verso la morte. Questa l’eternità che Hopper rappresenta nell’irrealtà tangibile delle sue tele, dove tutto è sospeso, diafano, non concreto, persino il colore, persino la luce, spesso limitata a un particolare e comunque impalpabile. Città impossibili, quelle di Hopper, città che non esistono e tuttavia esistono. Come le sue donne immobili, come temessero persino di respirare. Nulla respira in Hopper e noi che lo osserviamo non possiamo che trattenere il fiato per paura che le sue "cose" possano scomparire. “Nei quadri di Hopper possiamo guardare le scene più familiari e sentire che sono essenzialmente remote, addirittura sconosciute. I personaggi guardano nel vuoto. Paiono essere altrove, persi in una segretezza che i dipinti non possono svelare e che noi possiamo solo cercare di indovinare. È come se fossimo spettatori di un evento cui non siamo in grado di dare un nome. Sentiamo la presenza di ciò che è nascosto, di ciò che senza dubbio esiste ma non viene rivelato. Formalizzando l’intimità, fornendole uno spazio in cui può venire osservata senza essere violata, il potere di Hopper viene esercitato nei nostri confronti con estremo tatto”. (Mark Strand, Edward Hopper, un poeta legge un pittore, Donzelli, Roma, 2016). Non è l’attesa dell’inatteso, come dice Derrida, a caratterizzare il nostro tempo. Ciò che sopravviene è ciò che sappiamo da sempre senza conoscere e ci rifiutiamo di ri-conoscere. Osservando un quadro di Hopper, quel che ci perturba (S. Freud, “Il perturbante”) è la presenza assente di una conoscenza, quel “conosciuto non pensato”, secondo una definizione di C. Bollas, che ci sorprende perché non abbiamo il coraggio di pensare e conoscere l’inevitabile attesa/disattesa del non tempo. Una coscienza diversa: questa la proposta di Hopper. Una coscienza che non ignora ma non sa, che fluttua nella fissità, che sospende il giudizio, il valore, la sostanza e si presenta di fronte all'ignoto non per conoscerlo, ma per esserne parte. Hopper è parte del suo dire, un non-dire oleoso che sguscia mentre assimila, confonde mentre osserva, propone l'improponibile di un tempo che non è per sfuggire al suo tempo senza voltargli le spalle. Un inconscio che si fa figura: questo mi sembra Hopper. Nell'inconscio non esiste coscienza del tempo. Esso è psiche atemporale. Tuttavia, anche il non-tempo parla. Lo fa nel sintomo e in qualsiasi altra forma d'espressione rivesta questa terra. Il mondo di Hopper, e il mondo in generale, è un immenso teatro rappresentativo, una serie ininterrotta di simboli che si propongono e propongono una significatività senza parola che, come tale, è in attesa d'esser detta. Quando ciò avviene, la proposta si rinnova. Hopper, tuttavia, non vuole che si dica: il suo linguaggio muto fissa ogni parola. Di Hopper non si può parlare. Si può soltanto osservare, tentando di non essere risucchiati nella fissità impalpabile del suo non dire. Hopper è un simbolo muto, e nel frastuono insensato del banale, che si ripete inutilmente lungo secoli di aspettativa di dire, egli ci dice di osservare un silenzio che parla di silenzio. Hopper, in ultima istanza, fa parlare ciò che vede nel mondo: il silenzio del non tempo della morte, Nel frastuono a-significativo del mondo risuona la voce di Thanatos che Hopper tenta di far tacere sospendendo il tempo e facendoci ascoltare, attraverso i suoi quadri, il silenzio del significato, il nulla muto della nostra epoca.
Id: 3350 Data: 16/04/2024 12:03:56
*
- Letteratura
Brevi riflessioni sul linguaggio: Brodskji e Blanchot
Brevi riflessioni sul linguaggio: Brodskji e Blanchot di Giovanni Baldaccini il male, e specialmente il male politico, è sempre un cattivo stilista. (I. Brodskij, Dall’esilio, Adelphi, Milano, 1988). “Sono nato e cresciuto sull’altra sponda del Baltico, in pratica sull’altra pagina di uno stesso giornale grigio e frusciante. A volte, nei giorni limpidi, specialmente in autunno, mentre stavamo su una spiaggia dalle parti di Kello- maki, un amico tendeva il dito in direzione nord ovest, al di là di quella lastra d’acqua e diceva: “Vedi quella striscia azzurra di terra? E’ la Svezia””. (I. Brodskij, Dall’esilio, Adelphi, Milano, 1988). Dall’esilio. Dunque una lontananza, ma “lontano da dove?” per parafrasare un famoso saggio di Claudio Magris. Dalla Russia? Dalla patria? da se stesso? O forse dalla lingua, quella lingua in cui era nato e che ha dovuto lasciare a causa di una violenza cieca e senza senso? Forse da tutte queste cose. Forse, però, quell’esilio non è stato soltanto una violenza insensata: è servito a ricostruire un senso profondo del se stesso e della lingua che con lui era stata esiliata. La lingua è la vera protagonista di questo discorso di Brodskji, tenuto a Stoc- colma in occasione dell’accettazione del Nobel. Ma cosa è la lingua, se parago- nata all’ottusità del potere, di quel “cattivo stilista” che è lo Stato? Sembra che essa sia qualcosa che ci precede e ci sopravanza; qualcosa, dunque, di preesistente che tuttavia ci appartiene; qualcosa di comunque indispensabile, perché essa è “il più formidabile accelaratore della coscienza, del pensiero e della comprensione dell’universo”. Difficile non essere d’accordo, soprattutto se si pensa a un saggio di E: Cassirer, Linguaggio e Mito, nel quale l’autore fa dell’atto del nominare un’epifania capace di dare forma al mondo. Tuttavia, chi frequenta la lingua, cade, nell’atto di scrivere, in una posizione estremamente scomoda. “Il poeta, ripeto, è il mezzo di cui la lingua si serve per esistere. O, come ha detto il mio amato Auden, è colui in cui e per cui la lingua vive”. Come scrive Blanchot, “L’opera esige dallo scrittore che egli perda ogni “natura”, ogni carattere, e che, cessando di riferirsi agli altri e a se stesso con la decisione che lo fa io, diventi il luogo vuoto dove si formula l’affermazione impersonale” (M. Blanchot, Lo spazio letterario, Einaudi, Torino, 1967, p. 41). Uno stato apparente di non libertà, di dipendenza, quasi una compulsione che lega lingua e scrittore. E’ davvero così? “Questa dipendenza è assoluta, dispotica, ma è anche liberatoria. Infatti, pur essendo sempre più vecchia dello scrittore, la lingua possiede ancora la smisurata energia centrifuga che le è conferita dal suo potenziale temporale cioè da tutto il tempo che ha davanti a sé”. La lingua sopravvive allo scrittore; essa si esprime sempre. Tuttavia, questa entità creatrice – la lingua – gode di una libertà relativa. Lo Stato ne condiziona l’espressione. E’ forse lingua il linguaggio burocratico? E’ forse lingua la menzogna, il fine di asservimento, il controllo poliziesco e quanto altro di assurdo lo Stato è capace di mettere in atto? Nella negazione della lingua e nel suo sforzo insensato di non esistere, lo Stato è comunque destinato a soccombere: “Il disgusto, l’ironia o l’indifferenza che la letteratura esprime spesso nei confronti dello Stato sono in sostanza la relazione del permanente – meglio ancora, dell’infinito – nei confronti del provvisorio, del finito”. Se scrivere è un rapimento, un sia pur provvsorio appartenere a un Altro che ci scrive, un allontanarsi dallo svilimento del quotidiano cui la società e la massa statalmente organizzata ci rinchiudono, scrivere è un atto creativo di recupero, di riparazione dell’assurdo, nel tentativo di rendere l’insignificante significativo, almeno nel dialogo strettissimo tra scrittore e lettore. Un libro non è un atto autistico: è un dialogo, senza lettura non esiste. Scrivere è allora una dialogica di lontananze tra scrittore e lettore, tra sé e l’Altro da sé, un incontro impossibile vissuto, uno scambio profondo, un fare anima dell’anima che si incontra e entra in contatto con altre anime senza vederle, saperlo, conoscerle fisicamente. Scrivere è l’attuazione di un conosciuto non pensato che viene pensato e conosciuto dall’Altro ignoto che abita lo scrittore e che, nel tempo della lettura, sì incarna inconsapevolmente nel lettore. Scrivere è un tessuto del mondo; un significato trasversale e avvolgente che permette di esistere. Ma esistere esige uno sforzo. A proposito di alcune poesie di Rilke, Blanchot scrive: “Il poeta ha per destino di esporsi alla forza dell’indeterminato e alla pura violenza dell’essere di cui non è possibile fare nulla, e di sostenerla coraggio- samente ma anche trattenerla in sé imponendo il ritegno, il compimento di una forma [...] Ma compito che non consiste nel consegnarsi all’indeciso dell’essere, ma nel dargli decisione, esattezza e forma, oppure, come egli dice, ‘nel fare delle cose a partire dall’angoscia’” (M. Blanchot, op. cit. p. 122). Qui Rilke, o se si vuole Blanchot, assume posizioni kierckgaardiane se non anche riferibili ad Heidegger, ma poco importa. Quel che conta è che scrivere è operare nel nulla, fare del nulla qualcosa di esistente: un linguaggio. Come scrive Recalcati, basandosi su Lacan: “Se, in effetti, l’opera d’arte è un’organizzazione testuale, una trama signi- ficante che manifesta una propria particolare densità semantica, questa organiz- zazione non è solamente un’articolazione di significati, ma un’organizzazione significante di un’alterità radicale, extrasignificante”. (M. Recalcati, Il miracolo della forma, Bruno Mondadori, Milano, 2011, p.39). Questa alterità radicale è un luogo vuoto, come lo definisce Lacan nel Semi- nario VII, irriducibile alla significazione, che tuttavia proprio perché vuoto può far scaturire da sé ogni rappresentazione e dunque aprire al godimento del significare. Questo non vuol dire che la Cosa sia capace di parola, ma come l’Apollineo Nietzschiano si ridurrebbe a sterile forma organizzativa senza il Dionisiaco, lo stesso Dionisiaco non sarebbe altro che caos senza il sistema formale rappresentato dall’Apollineo. Detto in breve, l’Altro della lingua abita lo scrittore come luogo caotico e indeterminato. Si tratta, dunque, della matrice profonda dell’inconscio, dove nulla esiste ma tutto è possibile. Per essere, l’Altro della lingua (inconscio) si rivolge all’Io cui richiede l’esistenza di una forma. Scrivere è allora un dialogo profondo con l’indeterminato che si presenta alla coscienza per esistere. Non riguarda soltanto lo scrittore, ma l’intero genere umano, nella misura in cui “scrivere” può avere molte facce ed espressioni, non solo nell’arte, m anche – e non ultimo – nel campo ormai desertificato delle relazioni. “In senso antropologico, ripeto, l’essere umano è una creatura estetica prima che etica. L’arte perciò, e in particolare la letteratura, non è un sottoprodotto dell’evoluzione della nostra specie, bensì prorio il contrario. Se ciò che ci distingue dagli altri rappresentanti del regno animale è la parola, allora la letteratura – e in particolare la poesia, essendo questa la forma più ata dell’espressione letteraria – è per dire le cose fino in fondo, la meta della nostra specie” (Brodskij, op. cit.). Temo soltanto in parte. Se lo fosse davvero, il mondo non sarebbe quello che è. Ma questa è un’altra storia.
Id: 3348 Data: 15/04/2024 17:29:40
|