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Ogni lettore, quando legge, legge se stesso. L'opera dello scrittore è soltanto una specie di strumento ottico che egli offre al lettore per permettergli di discernere quello che, senza libro, non avrebbe forse visto in se stesso. (da "Il tempo ritrovato" - Marcel Proust)

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Tutto da ridere?

Poesia

Elio Pecora (Biografia)
Edizioni Empiria

Recensione di Anna Maria Vanalesti
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Pubblicato il 29/10/2010 12:00:00

IL RISO INTERIORE DEI POETI
(a proposito del “Tutto da ridere?” di Elio Pecora)


Chi pensa che la poesia possa nascere solo da una condizione drammatica dell’animo, o e unicamente dalla sofferenza, si sbaglia alla grande, perché la poesia non è fatta solo di contemplazione del dolore e non sorge solo per cantare la negatività della vita, ma ha come sua primordiale origine lo stupore interno del poeta, nei confronti di tutto ciò che lo circonda, uno stupore che si traduce in canto e può avvalersi di varie corde, come dimostrano i diversi generi poetici (lirico, epico, satirico, ecc.). Ma che cos’è esattamente questo stupore interno, che dà al poeta il primo imput per comporre? E’ una singolare capacità di osservazione, distaccata e al contempo partecipe, una singolare inclinazione a cogliere il guizzo vitale che c’è in tutte le cose e in tutte le situazioni, persino nella morte, una sostanziale illuminazione, o meglio una tendenza ad illuminare il reale e riconoscerlo degno di essere attraversato e vissuto in ogni caso. Tutto ciò lo definirei “il riso interiore” dei poeti. Non sto percorrendo la strada pascoliana del fanciullino, non condivido né l’infantile rimpicciolimento degli oggetti, né la regressione all’infanzia, ma sto cercando di allinearmi con quanto già gli antichi (Aristotele in testa) sostenevano, che il riso illumina l’esistenza, ne scopre i significati più reconditi e l’intima bellezza. Del resto il vocabolo latino ridens significa anche giocondo, piacevole, bello, il verbo rideo poteva essere usato per indicare lo splendore di un prato fiorito (ager florum coloribus ridet) e Dante fa diventare il “riso” di Beatrice, lo splendore del suo sguardo (dentro a li occhi suoi ardeva un riso / tal, ch’io pensai co’ miei toccar lo fondo / de la mia gloria e del mio paradiso). Questa luminescenza del riso, trasferita in poesia, può produrre degli effetti straordinari, e non quando dà luogo all’umorismo e alla satira, ma quando genera quell’esplorazione di alcuni aspetti della vita, che di per sé potrebbero darci una sensazione di squallore e di sconforto e che invece, ripresi con la lente del riso, rivelano una verità insospettata, ma accettabile e persino leggera da assumere. E’,infatti, la leggerezza che il riso riesce a creare, quella leggerezza di cui la poesia è maestra, se è vera poesia, e di cui il lettore saprà avvantaggiarsi accostandosi ad essa. Sappiamo bene come, nel primo Novecento, il riso sia stato addirittura isolato come elemento centrale della poesia, basti pensare alla “poetica del divertimento” di Aldo Palazzeschi (Il poeta si diverte / pazzamente, / smisuratamente. / Non lo state a insolentire, / lasciatelo divertire), ma pur nell’esasperazione che tale centralità poteva comportare, il riso continuò ad esercitare la sua funzione illuminatrice, consentendo al poeta di testimoniare la crisi dei valori morali, storici e sociali, attraverso l’assunzione di una materia poetica, apparentemente priva di serietà e drammaticità. E che dire, infine, del riso interno alle leopardiane Operette Morali, rispetto alle quali non c’è niente di più riuscito, quanto a disvelamento dei mali dell’esistenza attraverso una scrittura leggera, ironica, piacevole e, spesso, addirittura divertente.
Oggi ritorna la dignità del riso nell’opera di un nostro poeta contemporaneo che non finisce di sorprenderci, perché dalla miniera del suo vastissimo serbatoio di umanità e poesia , ogni tanto estrae qualche diamante rimasto nascosto, lo pulisce della polvere del tempo e lo restituisce alla luce. E’ ciò che è accaduto per questo libro nuovo (mi sovviene il catulliano cui dono novum lepidum libellum?), dall’emblematico titolo “Tutto da ridere”, ma che da ridere non è, almeno dal punto di vista della serietà dei temi trattati e dei contenuti, espressi con leggerezza e levità, senza togliere nulla all’importanza del messaggio, all’autenticità delle parole e alla veridicità delle situazioni rappresentate. Per un poeta come Elio Pecora, che ha scelto di compiere “l’avventura di restare” dentro la vita e dentro la società, per continuare a denunciarne i guasti e i mali, ma anche a cantare la bellezza dei valori, la solidarietà tra gli uomini, la genuinità dei sentimenti, facendo circolare tra la gente la sua poesia, esprimendo sempre il suo pensiero, mantenendosi coerente nella sua integrale rettitudine di intellettuale e di poeta, il riso diviene lo strumento, non alternativo, del suo canto poetico, ma essenziale per sgretolare le falsità, demistificare le finzioni e restituire un’accettabilità all’esistente.
“Leggerezze” o “lepidità” le chiama nella prefazione queste sue poesie vagabonde, scritte in tempi diversi, forse dimenticate e poi riprese, ora “raccolte”, come egli dice e affidate ad un’editrice amica (perché nel mondo di Pecora tutto nasce da una relazione profondamente amicale con la gente che incontra), insomma una scrittura “ritrovata” per la quale ha deciso una rinascita, o forse la prima reale nascita.
Quando un’opera vede la luce, non è soltanto importante la fase della composizione, che non necessariamente avviene in modo consecutivo, ma ancor più fondamentale è la fase dell’edizione, che comporta la raccolta delle composizioni, la loro sistemazione riguardo all’ordine (che non è mai meramente cronologico), l’unificazione, che non è un semplice assembramento delle parti. La vera opera nasce dopo che queste operazioni sono state eseguite, pensiamo al lavoro del Petrarca per unificare le Rime sparse nel Canzoniere; pensiamo al lavoro del Leopardi, che dopo la prima edizione dei Versi, coll’editore Stella, riunisce le sue liriche negli Idilli e infine nei Canti (un lungo lavoro di composizione e ordine degli scritti, che segna l’intero percorso della poetica leopardiana). Per un poeta che guarda ogni istante attraverso la poesia, e che scandisce il proprio tempo e i propri rapporti con gli altri, inglobandoli sempre nel suo cerchio poetico, il riso è indispensabile per accettare ciò che lo circonda, anche quando è doloroso. L’idea espressa in limine al libro che il lettore possa partecipare al suo divertimento, fa da iniziazione del viaggio, per un cammino non impervio, che le poesie tracciano, lungo il quale, chi legge sia disposto a dimenticare per un po’ le opprimenti necessità quotidiane e a perdersi in un puro divertimento che vale per quello che la parola significa, un “volgersi altrove”, per guardare oltre e scoprire meglio se stessi.
“Il riso giova a traversare l’oggi” suggerisce sin dall’inizio il poeta ed è questo il segreto, continuare ad attraversare l’oggi, anche se pesa ed è difficile; ci aiuta la poesia, ci aiuta il riso, perché si può ridere di tutto, non deridere l’impegno del vivere, ma accettarlo, capirlo meglio, rinunciando alle pretese e cercando altre misure.
“Per altre misure” recitava un verso di Pecora in un altro libro, infatti, egli ha sempre cercato altre misure, per resistere ai faticosi affanni esistenziali, senza smarrire se stesso; non l’amor proprio che si confonde con l’egocentrismo, non l’autoreferenzialità, non la polemica distruttiva e il giudizio incondizionato sul prossimo.
E dunque, con passo cadenzato e leggero proviamo a ridere leggendo In margine, Il dono, Varie e svariate, in cui la vita è vista da opposti diversi, la passione è analizzata in tutti i suoi paradossali aspetti, e i protagonisti sono quelli che ben conosciamo e che affollano ogni giorno le nostre strade: l’uomo illustre e potente, il pensatore impegnato, il solito Narciso scontento, l’uomo che aspetta, il poeta che scrive brutte poesie. Il viaggio prosegue per circostanze, situazioni, confronti (Il padre e il figlio, Lui e lei, Il parlatore e l’uditore) fino all’ultimo incredibile poemetto La società dei poeti, dove l’ironia esilarante si accompagna al serrato ritmo dei versi e delle rime.
Parliamo di quest’ultime: Pecora sa scrivere in rima, conosce i metri, non li ha ripudiati come quei poetucoli ignoranti che pensano che per essere un Leopardi, basta scrivere in versi liberi. La rima nelle sue mani si trasforma in un pentagramma, su cui le note rimbalzano al punto giusto, accentuando i toni, creando effetti timbrici, concertando armonie musicali che rimangono nell’orecchio e divengono inconfondibili elementi di questa poesia. Dopo questa lettura , ci sentiamo meglio, non siamo più arrabbiati col mondo, anzi siamo disposti a perdonare. Pecora perdona continuamente, accetta, dimentica il male, accoglie chiunque generosamente e ride dei difetti degli amici, guardandoli con affetto e tenerezza, facendoli diventare quasi dei pregi, che li rendono più simpatici. Che inesauribile versatilità! Che straordinaria duttilità di pensiero! Che ariostesca visione del mondo! Non possiamo che stupirci dinnanzi a questo caleidoscopio di personaggi che specialmente nella società dei poeti sfilano ciascuno con una sua maschera , non pirandelliana, ma affettuosamente umana, che ce li rende cari.

E’ un’impresa un po’ balorda
questo treno sillabato
per la Musa così ingorda
il percorso è interminato.
Ma chiudiamo con i fuochi
d’artificio alla Totò:
sette colpi di grancassa
ed un fischio, perché no!

E’ divertimento puro, condito con scoppi di grancassa, alla maniera musicale e ritmica di Pecora, che la musica e il canto ce li ha nel cuore.
Conta poi molto il messaggio finale:

Al dunque l’esclusione
mutata in inclusione
non può che farci ridere
ancor più che sorridere:
è una strada sicura
fuori della paura.

La poesia è questo, include ciò che in genere il consorzio umano esclude, riprende e recupera le macerie della vita sparse dietro e dentro di noi, le ricompone in un ordine che ha un significato, riorganizza strade, dove c’erano boscaglie impraticabili, vale a dire nel nostro pensiero e nella nostra volontà, annulla la paura, perché consegna a ciascuno di noi, che legge, o che scrive, una lucerna che ci guida, un riso che fa luce, dove gli incubi notturni avevano azzerato le risorse del coraggio.

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