Pubblicato il 01/10/2010 12:00:00
“Sono nata in una piccola città della Germania dell’ovest, esattamente due settimane prima che fosse costruito il muro di Berlino, il 13 Agosto 1961” dice di sé Stefanie Golisch a pagina 178 del suo libro Luoghi incerti, che la scrittrice non vuole sia definito un “romanzo”, dichiarandosi incapace e affatto intenzionata a scriverne uno, ma che rifiuta anche di considerare un’autobiografia, perché, come mi scrive in una e-mail di luglio, l’interessa “l’essere tedesca”, e desidera rappresentare non il suo io, ma piuttosto “l’approccio che un io assume verso se stesso”. Come, allora, parlare di Luoghi incerti abbandonando gli usuali schemi dei generi per una lettura critica che non lo tradisca troppo, e come devo orientarmi? – mi chiedo. E, dopo avere interrogato il libro più volte, leggendolo e rileggendolo, tormentandolo con appunti, sottolineature e altri segni, mi accorgo che l’orientamento mi viene suggerito proprio da quel rapporto speciale stabilito da subito fra la data della propria nascita, indicata in modo piuttosto approssimativo, e quella, del tutto precisa e, dunque, privilegiata, della costruzione del muro di Berlino, come dire che la Golisch avverte la Storia della Germania come un recipiente rispetto alla propria esistenza. Ed è un orientamento di lettura che a me sembra fornire la chiave giusta per entrare nella pagine di questa scrittura così libera, che assomma e mestica avvenimenti autobiografici e storici, critica letteraria, analisi e riflessioni, percorsi di vite tanto dei propri familiari come di altri. E che ha lo scopo di mettere in luce, oltre i fatti, rievocati secondo un’altalena temporale che segue l’andamento delle memorie e delle riflessioni, disciplinato soltanto da esigenze interne al testo, le atmosfere, gli stili di vita, le scelte etiche che caratterizzarono almeno due generazioni fra il 1920 ed il secondo dopoguerra. Ma anche di rispondere alla domanda che spesso vienerivolta ancora oggi alla generazione dei cinquantenni e quarantenni di nazionalità tedesca: che cosa sapessero i loro genitori e i loro nonni dello sterminio degli ebrei. Stefanie Golisch analizza con lucidità quella che definisce una “vergogna collettiva rimossa” e che ha generato “lo stordente silenzio” da cui è stata avvolta la sua infanzia. Scrive, infatti: “Ancora negli anni settanta del secolo scorso, lo sterminio degli ebrei era un tabù assoluto. Sia in famiglia sia scuola si evitava attentamente l’argomento”. E che questo silenzio ha generato “un muro tra le generazioni, fatto di diffidenza e di sospetto, una guerra non dichiarata tra i figli che vogliono sapere e i padri che tacciono insistentemente”. Bisogna sempre tenere conto di questi sentimenti, di questo scontro generazionale, per comprendere il valore emblematico che assumono le biografie dei nonni e la difficoltà confessata dell’autrice di costruire un dialogo profondo con la madre e il padre all’interno di un crogiuolo di silenzi, sospetti, volontà di capire, incapacità di amare, rari slanci dell’anima. Perché le sia necessario, per scrivere questo libro, usare quelle bugie “per arrivare all’oscena verità” sua e dei suoi avi. E perché, di contro, Stefanie Golisch voglia “fare qualcosa” per “loro”, le tante vittime dell’olocausto. E perché abbia tradotto le poesie di Selma Meerbaum-Eisinger, morta giovanissima in un campo di lavoro in Ucraina : “mi dà la sensazione – dichiara - di potere trasformare il mio imbarazzo in qualcosa di costruttivo, concreto, visibile”. Non un tentativo – come aggiunge poco dopo – “di rendere giustizia alle vittime, ma di restituire a una di loro il suo inconfondibile volto.”. Questa “curiosità” per i volti dei morti della Shoah, i “volti mancanti”, come li chiama lei, la carica di volontà di vedere, quando negli anni ottanta, visita il campo di concentramento di Auschwitz., e , per non “allontanare l’accaduto”, come vorrebbe forse la guida, la scrittrice guarda ad una ad una le foto dei deportati che riempiono le pareti di un interminabile corridoio, come se, appropriandosi dei loro lineamenti, di quella che fu la loro tangibilità fisica, immaginandone, fino a percepirle in sé, vite e sofferenze e sogni abbandonati e dolori, possa restituirli in qualche modo agli altri, possa dare voce ad un terribile silenzio, immagine ad un vuoto. E’ da questo nodo psicologico irrisolto che si origina quel singolare tono narrativo, sospeso tra spietatezza e compassione, che caratterizza la scrittura della Golish, nella convinzione che per “com-patire” si debba guardare ad occhi spalancati, allenandoli a guardare orrori e dolori, storture e santità, in quanto facenti parte della cosa oscura e incomprensibile e caotica che è la vita, e della natura di ogni essere umano. Che solo dopo avere “provato quel dolore segreto, possiamo sentire – come scrive Ingeborg Bachmann, una delle autrici amate dalla Golisch – (in modo diverso) ogni esperienza ed in particolare quella della verità.” “Luoghi incerti” finisce, allora, con l’essere anche un libro di formazione: quell’approccio dell’io verso se stesso, di cui l’autrice parla nella e-mail inviatami per guidarmi alla lettura del suo libro, viene narrato, infatti, attraverso le varie tappe di una crescita dalla infanzia e dalla prima adolescenza fino alla giovinezza e al trasferimento in Italia, quando il muro tra le “due” Germanie crollò, ma non così la differenza fra le due popolazioni, non così tutto l’inevitabile groviglio di sentimenti, contraddizioni, ottusità, volontà di lasciarsi alle spalle il proprio passato e lo sguardo accusatorio dei pochi sopravvissuti e di tutti gli altri. Né cessò, naturalmente, il conflitto interiore dell’autrice, ormai “in esilio” in Italia. In un clima storico tanto difficile, in tanta palese disarmonia generazionale, tra verità taciute troppo a lungo e voglia di verità, in cui “ognuno si salva come può: dimenticando, rimuovendo, negando, inventando, negando…”, segnato anche da stridori etico-estetici, l’io della protagonista appare insicuro, disorientato, perfino nel rapporto con la propria fisicità, quasi che il suo corpo, al pari di qualsiasi altra forma, non l’esprima davvero e sia un qualcosa di incongruente con la sua più profonda interiorità e la percezione della propria identità femminile: “Non è, la mia vita, un album di fotografie con la copertina azzurra e non è nemmeno un diario, ma piuttosto una gigantesca tela, una specie di collage prodotto senza alcun criterio estetico dove esplodo in mille pezzi, incerta tra cose e uomini, irriconoscibile a me stessa e probabilmente agli altri.” E per di più è il racconto di una formazione “al femminile”, assai più complessa e difficile di quella vissuta dagli uomini della sua stessa generazione, proprio perché ha dovuto non solo affrontare le incongruenze e le ambiguità di un periodo storico, ma anche quelle legate ad un nuovo modo di essere al mondo come donna, prima, e poi come intellettuale. La Golisch racconta, infatti, insieme alla sua storia, quella di tante altre donne cresciute in quelle città di provincia della Germania, tra povertà, stenti, e quotidiane cure, incapaci di pensarsi, di assumere consapevolezza di sé, confinate nei loro ruoli di sempre, umilmente accettati, e perciò incapaci di comprendere la generazione delle loro figlie e nipoti, indecise se dovere gehen oder bleiben, come scriveva Uwe Johnson. E racconta anche il suo approccio con la letteratura “per stare nel mondo”, insieme agli autori che l’hanno accompagnata nella crescita, che l’hanno spesso confusa più che illuminata, e nei confronti dei quali ella ha intrecciato, da giovane, relazioni spesso ossessive, di sovrapposizione d’identità, amandoli e tendendo la sua intelligenza alla comprensione più possibile profonda dei loro mondi interiori, come fossero persone vive, poiché così dichiara: “Non faccio differenza tra i vivi e i morti, li ascolto tutti e li racconto tutti.” Ma con una particolare predilezione, va aggiunto, per gli anarchici, i ribelli, i dimenticati, gli apparentemente vinti, ed invece fieri e infelici aristocratici dell’esistenza, come Uwe Johnson che si isola in una stanza sotto terra e scrive contro il tempo e la morte, e che Stefanie incontra “con gioia, meraviglia e spavento”, perché ne ha bisogno per comprendere meglio se stessa ed il suo “essere storico intrecciato in un passato che non si può ignorare”. E come Tolstoj, Baudelaire, Rimbaud, Celan, P. Roth, Bachmann, e tanti altri che usano le parole per chiedere al lettore “audacia e coraggio di vita”. E perciò le maneggiano come un bisturi, fissando lo sguardo nelle più intime fibre del vissuto. A proposito del rapporto della Golisch con la lettura e la scrittura, sono molto illuminanti il capitolo Uno scrittore tedesco, dedicato all’amato Uwe Johnson, e quello titolato Leggere, perché in essi si trovano delle dichiarazioni che palesano in qualche modo una poetica dell’autrice, a partire da questa così “gridata” e perentoria: “Provo repulsione istintiva per gli autori che si credono in possesso della verità.” Di questo infatti si tratta: può la letteratura raggiungere la verità, The hearth of darkness, come scrive lei stessa preferendo una reminescenza letteraria, dove l’attendono “pazientemente i coltelli?” No, non è possibile: è la risposta a cui dobbiamo giungere, tenendo conto di quanto lei dice. La letteratura, dunque, è un altro dei “luoghi incerti”, sebbene si affanni per un suo connaturato imperativo etico-estetico, a cercare la verità; solo che la verità sembra essere la somma di tutte quelle che via via gli autori raccontano, (scrisse già molto prima di lei la problematica, originale Virginia Woolf: “La verità si può ottenere solo mettendo insieme molte varietà di errori”) con la conseguenza che lei, come ogni altro lettore, ha trovato nei libri il suo io e tutti gli altri mille contrari. “I libri – scrive – mi hanno spiegato e non spiegato il mondo”, e, in ogni caso, non hanno fornito “una via d’uscita”, alimentando casomai la “compassione per il caos che regna su di noi, la solitudine, la nostra condanna e il nostro sublime privilegio.” Lettori e scrittori appartengono ugualmente ad “una grande in felicissima famiglia che tira avanti così: consolata e rassicurata dal dolore altrui.” Già basta fare scorrere il dito sulle sequenze in cui si divide il capitolo Leggere per capire quanto si è detto: Non c’è salvezza, La solitudine, Atmosfere, Trovare alleati, Sfuggire alla realtà in altro modo, e così via, con un una piccola riflessione sull’ultima qui elencata ( ma l’ordine nel capitolo è diverso ): che realtà e verità non coincidono, perché la verità sta dietro o aldilà o altrove che nella realtà che appare, che “è una chimera, anche se cercarla è un dovere inesauribile, “un atto morale che non ha riguardo di nessuno”. Una cosa è certa per la Golisch, che proprio il luogo più incerto, cioè la letteratura, è l’unisca sua “dimora possibile”. I libri letti dall’autrice – aggiungo – sono stati, in ogni caso, ottimi maestri di stile, se si considera il valore squisitamente letterario della sua scrittura. il suo nitore lessicale, la bella tessitura sintattica, la chiara costruzione dei personaggi, secondo il convincimento che è “proprio l’intreccio tra forma e contenuto” che fa della scrittura “un veicolo di verità”.
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