riflessioni su letteratura e "sistema" attraverso la pagina di Arno Schmidt
La pagina di Schmidt
“52 ANNI E 118 GIORNI: Dapprima uno si era messo a fischiettare. – Quando ripassarono straccamente un’altra volta, il fischio si era tramutato in canto nasale: “Oh, signorina Mirjam quando ballo con lei – za za, za za”, il resto onomatopea, schiocchi di lingua e ft ft; l’altro, probabilmente più anziano rise ringhioso. – Bella luna; quello che tocchi è d’argento. “ (Gadir, in Alessandro o della verità, Einaudi, Torino, 1965).
Arno Schmidt (1914 - 1979) è, con Doblin e Grass, uno dei più grandi esponenti dell'espressionismo tedesco. Poco noto in Itala, le sue opere sono state tradotte in molte lingue. Una di queste, Alessandro o della verità, mi capitò tra le mani nel 1974, su suggerimento di Alfredo Giuliani, critico letterario, poeta e scrittore oggi scomparso. Rimasi folgorato. Leggere Schmidt è come essere afferrato da un vento che solleva e trascina fino al volto sgusciante della luna. A volte abbatte, altre ti lascia andare dolcemente per poi inanellarti ancora nelle spirali del suo soffio enorme senza trovare mai una soluzione. Un vento senza approdo. Non vorresti approdare.
Leggere Schmidt è perdere ogni sistema di riferimento. Se mai credevi di aver letto, se sentivi di accedere a un qualsiasi movimento letterario, un luogo, quale esso sia, ripudierai a favore dell’immaginale: quello l’unico sfondo.
Tutto decade, tutto si sconfessa; persino i grandi della letteratura ottocentesca e degli inizi del novecento assumono un aspetto più dimesso, a volte persino futile. “Dove mi trovo?” Finisci col domandarti. La risposta è: nelle pagine di Schmidt. Pagine irriferibili a qualcosa che conosci, allucinate, esasperate, in cui le parole si mescolano in forme non immediatamente pensabili e tuttavia immerse in una profondissima cultura capace di evocare l’impensato ed inventare mondi. Pagine singhiozzanti, spesso frantumate da una punteggiatura ossessiva, puntigliosa, che finisce per imporsi come un testo nel testo. E te ne chiedi il perché. La risposta alla fine emerge: quella punteggiatura è creazione di tempo, serve a scandire il tempo di lettura e a rafforzare determinati passaggi, a renderli volutamente più “parlati”. Una pagina viva: parla, sussurra, a volte canta. Grida. Ma la devi seguire; è una pagina esigente e può anche essere chiusa bruscamente.
L'inafferrabilità di Schmidt riflette l'inafferrabilità della letteratura. Essa è invenzione, creazione da un nulla sottostante, muto, ma che chiede di parlare. Per sua stessa natura, la parola ha voce duplice, a seconda del narratore: banale e ripetitiva o inaspettata creazione di linguaggio nuovo. Ciò dipende dal fatto che il narratore sia servo del sistema di riferimento dominante o, al contrario, recalcitri, sfugga, detesti le strettezze del già conosciuto/già pensato e smania per essere esso stesso voce letteraria, capace di reinventare una lingua ormai esausta, decaduta, spenta, come ogni simbolo quando muore. Schmidt è allora simbolo, un creatore di quel "non ancora" che ancora non esiste e attende di esser detto. Leggere Schmidt è, dunque, inevitabilmente, dire.
Il libro, Alessandro o della verità (Einaudi, Torino, 1965), fu pubblicato, dopo aspre questioni e rimaneggiamenti. Nel racconto che dà il titolo alla raccolta, il giovane poeta Lampone di Samo deve raggiungere lo zio, generale del Grande Alessandro, presso Babilonia. Per farlo, si accompagna a una singolare carovana di attori girovaghi, finendo inevitabilmente per inoltrarsi in inestricabili conversazioni su Alessandro e il potere da lui incarnato e innamorarsi della prima donna: Monica.
“lei, misurata al massimo, virginale, castigata – ah, tutte cose che non è certamente. E la maschera d’avorio sopra il calice del bavero.”
Monica, Agraule, Pocahontas, Anna, nell’ultima pubblicazione italiana (in realtà la prima di Arno) Il Leviatano: le donne di Schmidt. Disincantate, calcolatrici, fredde, sempre meravigliosamente irraggiungibili, perché le donne di Schmidt sono la nostra anima, perduta e disattesa, che dall’ombra in cui la abbiamo relegata ci osserva e ritorna per incantarci ancora e, inevitabilmente, ritirarsi delusa, specchio della nostra freddezza e di un mutismo indotto, perché non siamo capaci di dirla e neppure lontanamente di amarla.
Alessandro è l’incarnazione del Leviatano, la bestia dell’ignoranza, del potere cieco, della violenza istintuale, del culto inossidabile e pazzesco del se stesso che non somiglia a nulla di umano; una nuda incarnazione del potere, qualsiasi la forma. È l’assassino che spiana città e continenti, passa sopra a tutto e chiunque pur di raggiungere i suoi scopi che neppure sono tali, perché non sono altro che espressione di un istinto di potenza e di una frattura originale all’interno del Sé, e dunque nulla hanno di sensato. In pratica, quello che oggi definiremmo uno psicopatico. In realtà, dovremmo conoscerlo bene, se solo pensassimo alla schiera infinita di dittatori e satrapi di vario genere che si sono alternati nel mondo, anche ultimamente ed anche nel nostro disgraziato paese, Contro di lui, si schiera l’intelligenza di pochi come Pitea o Licofrone o Ipponatte o il sergente profugo del breve romanzo, Il Leviatano, tutti destinati a perire.
Prendiamo Pitea, ad esempio (d’altra parte, ho cominciato proprio con lui e la sua cella in una fortezza cartaginese). Ebbene, Pitea non riuscirà a fuggire; sognerà soltanto la sua fuga e il suo sarà un sogno di morte.
Nel porto allucinato di Gadir, di fronte a una nave che non c’è, Pitea sogna la sua libertà dalla bestia che opprime.
“Ultimo ottenebramento: Vento nebbioso, fradicio, sommerge la montagna con frastuono d’organo, rotola sopra boschi ululanti. Aspirai profondamente e rantolai, gargarizzai fuori con beatitudine insensata: verso la libertà.”
“A sera: nuvolaglia di tempesta si aduna.
Ho aggirato già da un pezzo la montagna; in basso si stende Gadir, con i suoi vicoli ben tracciati, con i sobborghi dove incrociano a volo i piccioni.
Otto navi stanno all’ancora nel porto, oscillano; due davanti all’isola di Erythia, una, nera, qui di fronte, sulla sinistra, molto più in basso rispetto a me (un’ora di strada per arrivarci): tenterò con quella”.
Salirà su quella nave e salperà: verso la morte, nella cella mai abbandonata.
Né altro vede il giovane Licofrone, il cui destino sarà segnato dal potere ottuso incarnato da un finanziere di Roma (e la di lui figlia) e dal vescovo al suo seguito, il temibile Gabriele, colmo di costrizioni che dispensa sotto forma di fede.
« Questi è il nostro universalmente riverito Gabriele di Thisoa: – – » (inchinarsi educatamente: il prete di casa, pare. Forse anche il precettore nello stesso tempo). –
« – e qui la mia figliola Agraule : – – »
Capelli scuri le incorniciavano il volto. Pallida, clorotica, il naso aguzzo, con sguardi neri (solitamente, gli occhi umani formano segni di infinito; in questo caso, una formula fissa).
Una formula fissa. Come la cosmogonia ecclesiale che Gabriele impone ai due giovani, del tutto inesatta e fantasmatica, come Lico ben sa, grazie agli insegnamenti di filosofia e fisica ricevuti dal suo amatissimo maestro Eutochio, costretto a riparare in Persia per sfuggire le persecuzioni del vescovo. Senza tuttavia cedere.
“E già di nuovo a oriente: tramava a uncino la luna variopinta; verdi intrichi, viluppi gialli, fili rossi, (il gomitolo ancora stava sotto l’orizzonte), scialli azzurri. “Stasera ci sarà il sereno: vieni all’osservatorio, allora, intesi?!” : “Con piacere, maestro!””
Perché, come diceva Eutochio, i centomila anni della metafisica sono finiti e sono cominciati gli anni della fisica. Un sistema cominciava a cadere.
La caduta dei sistemi
Definirei sistema un aggregato di riferimento collettivo cui l’individuo non dovrebbe mai accedere, pena la rinuncia alla propria intelligenza.
In tutte le sue formulazioni e distinzioni, lo Stato è l’organizzazione “sistematica” per eccellenza. Schmidt identifica lo Stato e il sistema che in esso di incarna con una mostruosità che opprime e schiaccia l'individuo cui impone modi di vivere e pensare. Non era il solo.
“Io non chiedo che si sostituisca lo Stato con una biblioteca – benché quest’idea abbia visitato più volte la mia mente –; ma per me non c’è dubbio che, se scegliessimo i nostri governanti sulla base della loro esperienza di lettori, e non sulla base dei loro programmi politici, ci sarebbe assai meno sofferenza sulla terra”. (I. Brodskij, Dall’esilio, Adelphi, Milano, 1988, p. 53).
Sono convinto che Schmidt avrebbe approvato incondizionatamente.
Un sistema non è sempre evidente; spesso è occulto, difficile da individuare. Non per questo meno resistente.
“Funzioni intellettuali, proprie dei sistemi di divieti di una forma sociale, hanno assimilato le procedure linguistico–concettuali ai processi naturali scanditi da causa ed effetto. Ora, l’assunzione che la coerenza e il senso della condotta intellettuale siano archiviati in un modulo preformato, in un repertorio di competenze precostituite, rappresenta un’estensione impropria delle relazioni naturali al dominio delle sequenze costruttive nel corso delle quali, passo per passo, si formano i discorsi coerenti. Il presente diviene a questo punto una ritualizzazione del passato.
[…] Il mentalismo, le filosofie e le metodologie del ‘pensiero’, ‘mente’,’interiorità’ hanno occultato l’aspetto costruttivo del nostro sapere, svolgendo una funzione nella nostra forma di vita, paragonabile a quella esercitata dall’ipotesi teologica”. (A. Gargani (a cura di), Crisi della ragione, Einaudi, Torino, 1979),
Non solo il sapere sedimentato, ma anche la consuetudine, ovvero un sedimento non saputo, è parte integrante di un sistema e contribuisce al suo mantenimento. Come scrive Carlo Ginzburg:
“In ogni caso queste forme di sapere […] non venivano apprese dai libri ma dalla viva voce, dai gesti, dalle occhiate; si formavano su sottigliezze certo non formalizzabili, spesso addirittura non traducibili verbalmente; costituivano il patrimonio in parte unitario, in parte diversificato, di uomini e donne appartenenti a tutte le classi sociali. Una sottile parentela le univa: tutte nascevano dall’esperienza, dalla concretezza dell’esperienza. In questa concretezza stava la forza di questo tipo di sapere, e il suo limite – l’incapacità di servirsi dello strumento potente e terribile dell’astrazione.” (Ibidem, p. 81).
Una ragnatela pseudorazionale si intesse intorno al modo di sentire, pensare, vedere il mondo, informando queste funzioni psichiche del non senso dell’inattuale, imprigionandole all’interno di un già visto, già pensato, comunque mai davvero consapevolmente. Come scrive ancora Gargani:
“Si chiama crisi della razionalità la percezione che la casa del nostro sapere è di fatto disabitata […] È in questa situazione di transizione che si esperisce l’impressione che vi sia un sapere non esplicitato o non portato pienamente a coscienza al di là di quello di cui disponevamo; ossia sentiamo che il sapere e la nostra consapevolezza non riescono più a coincidere come accadeva nel sistema chiuso di quelle convenzioni”. (A. Gargani, a cura di, Ibidem, p. 46).
A questo punto sarebbe lecito chiedersi quale sia l’origine di un sistema e a cosa esso tenda, ma è un discorso che condurrebbe troppo lontano. Chi avesse voglia di approfondire può leggere il volume 8 delle Opere di C.G. Jung, La dinamica dell’inconscio, edito da Boringhieri e il libro di E. Severino, La tendenza fondamentale del nostro tempo, edito da Adelphi. Sulla base di quelle letture mi sentirei di proporre la seguente conclusione: un sistema è una manifestazione di strutture psichiche arcaiche legate all’istinto. Esso è per ciò stesso essenzialmente conservatore e avverso a qualunque forma di evoluzione. Nasce da un nulla rappresentativo ed è esso stesso un nulla che genera nulla e nullità. Riconoscerlo e combatterlo, in qualsiasi sua forma, è questione vitale.
Vivere nell’inconsapevolezza passiva e involontaria di un sistema fa scadere Il simbolo a segno e la possibilità di significare cede all’insignificanza della ripetizione sterile, come se si vivesse in un passato che non si vuole lasciare tramontare, un grembo materno ormai troppo stretto che, tuttavia, non si riesce ad abbandonare. Schmidt scalciava.
L’appartenenza inconsapevole ad un sistema riguarda molte altre forme culturali, non ultima l’arte. Per fare alcuni esempi, il “classicismo” ha resistito violentemente agli “impressionisti”, definiti dai membri del potere “la vergogna di Francia”. Per rompere il predominio dell’armonia ed aprire la musica ad altre possibilità linguistiche è stato necessario Schoemberg e la rivoluzione atonale da lui portata avanti. O ancora, “Nella musica di Mahler e nella polemica che essa rappresenta nei confronti di linguaggi istituzionalizzati, saturi, si può avvertire lo sforzo di fissare un nuovo paradigma di visione della vita umana, emancipata dalle convenzioni di codici usurati, attraverso l’impiego di sonorità che sembrano provenire dai padiglioni delle bande militari, della orchestre dei giardini pubblici.” (A. Gargani, a cura di, op. cit. p. 46). Solo che nei “giardini pubblici” abitava l’anima popolare cui Mahler ha dato espressione sinfonica. Per aprire la letteratura a forme linguistiche e narrative diverse dal romanzo tradizionale, abbiamo dovuto attendere Doblin, Musil e Schmidt. Il primo, per quanto grandissimo, ancora legato a certe forme narrative tradizionali e, per ciò, accettato; il nostro, ferocemente osteggiato, quando non ignorato, dalla critica ufficiale del tempo. Ma non tutta.
“Un ragazzo matto. All’inizio si pensa: stupidaggini. Poi ci si arrabbia. Un uomo evidentemente che si ritiene un genio e si comporta di conseguenza. Si prosegue a leggere. Si è incantati. Si è commossi. Poi ancora snobismi. Poi immagini splendide. Espressionismo con tre punti esclamativi.” (In Introduzione a Leviatano o il migliore dei mondi, Mimesis, Milano–Udine, 2013, p. 9).
Vento
Nelle notti di brughiera, ai margini della palude e dei suoi occhi: Schmidt.
"Ah, la greve risacca dell’aria! Un battello di nebbia scialuppa a lungo nel porto erboso, e naufragò poi esitante sotto gli alberi. Lasciò cadere mani assieme a dure lacrime nelle acque nere, la sua voce strisciò al suolo; le spalle uno poteva tirarle a sé, il viso non ancora.” (Paesaggio lacustre con Pocahontas, Zandonai, Rovereto, 2011).
Cosa muoveva Schmidt? La moglie - Alice - racconta che qualcosa lo afferrava e dalla sua bocca cominciavano a fuoriuscire parole, come un fiume di carta. Tuttavia non basta. Probabilmente una profonda volontà distruttiva di tutto ciò che è conforme a un limite imposto ottusamente, un’enorme insoddisfazione e un bisogno quasi sovrannaturale di fuga, evidenziati soprattutto in Enthymesis, ovvero Q.V.O. (in Alessandro o della verità, op. cit.) contribuivano al suo impulso creativo. C’era tuttavia anche un fortissimo bisogno di sfuggire dal caos della Germania post bellica, da lui raccontata nella “Trilogia”, in particolare in Specchi neri (Lavieri, S. Angelo In Formis, 2009). Tuttavia anche la necessità di ordinare il caos interiore in cui si dibatteva. Schmidt, infatti, scriveva dove capitava, spesso su foglietti volanti, difficili da recuperare, come ci racconta Dario Borso nella sua introduzione a Paesaggio lacustre con Pocahontas (op. cit.). Forse ordinare e sfuggire ad un tempo una forza oscura che si agitava in lui come fonte espressiva insopprimibile, che lo afferrava costringendolo a sciorinare parole a bassa voce, ad essere praticamente tutt’uno con quelle parole spesso inevitabili.
Schmidt non era Schmidt: era il suo dire. Sul piano personale, al di fuori degli scritti, la sua esistenza era un trascinarsi da un’ispirazione all’altra, spesso allucinazione, senza cura dei giorni.
Come scrive Brodskij nel suo Dall’esilio (I. Brodskij, Dall’esilio, op. cit., p. 60): “Il poeta, ripeto, è il mezzo di cui la lingua si serve per esistere. O, come ha detto il mio amato Auden, è colui in cui e per cui la lingua vive. Io che scrivo queste righe scomparirò; e scomparirete voi che le leggete; ma rimarrà la lingua nella quale esse sono scritte e nella quale voi le leggete: rimarrà non solamente perché la lingua è cosa più duratura dell’uomo, ma anche perché più di lui è capace di mutazione”.
Alessandro o della verità è scomparso ormai da anni dalla scena letteraria italiana. I dieci lettori italiani di Arno Schmidt, come amaramente li definisce Claudio Magris, non hanno molto da rimpiangere: il libro l’hanno letto. Resta l’ottusità del sistema, in questo caso quello editorial/culturale vigente nelle patrie galere. Poco male: chi lo possiede potrà sempre rileggerlo. In segreto.
Questo articolo, già pubblicato sulla Rivista Fermenti, è stato richiesto in Germania dalla Fondazione Arno Schmidt e inserito nella bibliografia ufficiale del grande autore tedesco.