“Spesso il male di vivere ha incontrato il mio povero cuore nel tempo”.
Montale, Leopardi e Proust, che cosa li accomuna se non il male di vivere, la tristezza e il loro povero cuore malandato attraverso il tempo?
“L’argomento della mia poesia”, ha detto Montale in un’intervista, “è la condizione umana in sé considerata. Ciò non significa estraniarsi da quanto avviene nel mondo; significa solo coscienza, e volontà, di non scambiare l’essenziale col transitorio” .
Ecco il punto comune della prosa di Proust e della poesia di Leopardi e Montale; ecco che cosa unisce questi scrittori lontani (nel tempo e nello spazio, per dirla con Proust) e abbastanza diversi: non solo il povero cuore, il male di vivere, ma quella volontà di cui parla Montale “di non scambiare l’essenziale col transitorio”, non confondere, allora, ciò che conta da ciò che non conta, da ciò che non è importante.
E ciò che non è importante, nemmeno noi, i lettori, dobbiamo tenerlo in considerazione: non dobbiamo perderci, perdere il tempo dietro a ciò che non conta.
Non è importante allora che come scrittori siano molto diversi, che due siano italiani e uno no; che uno sia dell’ottocento e gli altri due no. Non importa che non si siano conosciuti, che non parlassero la stessa lingua; che probabilmente non si sarebbero capiti; quello che importa è che tutti e tre questi scrittori, seppur diversi, avessero bene in mente che cosa conta, che cosa è importante, e che di quello abbiano scritto.
E’ importante perché, come Proust ci insegna, “la durata eterna non è maggiormente promessa alla opere che agli uomini” ; tutto passa, quindi, il tempo si perde (e non è facile ritrovarlo), perciò non ci si può permettere di scambiare, altra assonanza Proust - Montale, “l’essenziale col transitorio”, il tempo perduto e quello ritrovato.
Ma che cos’è l’essenziale? Il sogno. E’ il sogno l’essenziale; sia in Proust che in Montale che in Leopardi. Il sogno è l’essenziale.
“Chi potrebbe”, infatti, “affermare tranquillamente di non esser che un tentativo nel vuoto, se non il sognatore di un tale sogno, tale sognatore particolare di un sogno specifico, che egli è il solo a poter raccontare in questi termini – e quel sogno è anche universale, è il sogno di tutti e di chiunque? ”
Ci si conosce, allora, anche se si è lontani, anche se i corpi non si sono mai toccati e gli occhi mai incontrati, ci si conosce perché si sogna un sogno specifico che è anche universale; è il sogno di tutti che si sogna.
Ma che cos’è il sogno? Qual è, o meglio, che caratteristiche ha questo sogno specifico, individuale ma di tutti, universale?
Il sogno, se seguiamo la caratterizzazione di Federico Bertoni, è articolabile in quattro punti:
1) Il sogno è oblio del mondo: «sottrae i suoi eventi alle riprove categoriche della realtà. Nel non essere del sogno ci è consentito dimenticare i vincoli onde la realtà grava ogni singolo fatto»;
2) Il sogno abolisce il tempo: «La distruzione di questi vincoli fa che l’inesorabile imperio del tempo venga nel sogno eluso e come dimenticato a sua volta»;
3) Il sogno sopprime la logica, come nell’immaginario infantile: quando «il meccanismo segreto della conseguenza era non soltanto ignoto, ma volutamente ignorato»;
4) Il sogno disgrega il soggetto: «In questo dileguare verso i fuochi misteriosi del sogno è smarrito il senso di un io centrale coordinatore a cui sia riferibile ogni parte della realtà nota» .
Il problema del sogno è l’irrealizzabilità e, soprattutto, la solitudine: si sogna ma si è soli.
“Si vive come si sogna: perfettamente soli” scrive Conrad nel suo Heart of darkness, ed è così.
Quel sogno di cui si parlava prima è sì universale e di tutti, ma il sognatore, l’uomo, nel sognare è perfettamente solo.
E solo rimane perché, lo si diceva, il sogno non si realizza, non può concretizzarsi, mai.
“Il sogno è oblio del mondo” è la prima caratteristica rilevata da Bertoni, e quest’oblio è l’inizio, il fattore primo, la spinta e lo start alla solitudine.
Il mondo viene temporaneamente ‘cancellato’, dimenticato per un attimo quando si sogna. Ci si isola, allora, dal mondo, da quella che tutti considerano la realtà quando si sogna: si è soli con il proprio sogno.
Si sogna con la sola compagnia del proprio sogno; allora la solitudine, forse, più che la conseguenza dell’estraniamento dalla realtà, è una caratteristica del sogno (e del sognatore).
Si sogna soli perché ciò che si sogna non è nel mondo e noi, quando sogniamo, non stiamo nel mondo, o meglio, “siamo nel mondo ma non del mondo” perché, in quel momento, siamo tutti del e per il nostro sogno; per questo una caratteristica fondamentale (la prima d’altronde rilevata) è “l’oblio del mondo”.
Il sogno, poi, abolisce il tempo, lo spezza, ne ristabilisce i ritmi. Il sogno, si legge, elude “l’inesorabile imperio del tempo”, svincola dal tempo, non fa parte di esso; frena allora la lenta discesa verso il tempo perduto e permette, forse, che il tempo venga ritrovato.
“Un home qui dort”, scrive Proust, “tient en cercle autour de lui le fil des heures, l’ordre des années et des mondes” ; e colui che sogna, nel suo sognare, non solo controlla le ore, gli anni e i mondi ma ne crea di nuovi: fa nascere, chi sogna, tutti i mondi che sono possibili nel suo sogno perché quello reale non gli serve, non gli importa. Il sogno è estraneo al mondo e al tempo e, questo, non lo può controllare, regolare, decidere, stabilire. Al sogno, come all’amore, non si comanda né lo si può costringere nel nostro tempo, nel nostro mondo e in questa misera cosa che è la realtà.
“La réalité”, scrive ancora Proust, “est le plus habile des ennemis. Elle prononce ses attaques sur les points de notre cœur où nous ne les attendions pas, et où nous n’avions pas préparé de défence” . Il sogno, invece, come la lettura, come la scrittura dimentica per un attimo questa realtà nemica, lascia da parte questo mondo che spietato lancia i suoi attacchi sul nostro ‘povero cuore’.
Anche Leopardi, da parte sua, deve aver conosciuto questa realtà spietata che, senz’altro, ha lanciato i suoi attacchi anche sul suo di cuore. Non è raro, infatti, sentir parlare nelle poesie di Leopardi del suo ‘povero cuore’ che è, in definitiva, il suo ‘male di vivere’, il suo ‘tempo perduto’.
“E anche tu sei presente, amore mio, tu sempre, immancabilmente, sotto le parole, sopra le sillabe, a esaltare il ritmo della vita” . Questo è Nabokov, ma potrebbero essere parole di Leopardi.
“Amore mio, tu sei presente” scrive Nabokov, e quell’ “amore mio” è presente, sta nel sogno, nel ‘povero cuore’ di Leopardi e nel ‘tempo ritrovato’ di Proust. Quell’ “amore mio” che Nabokov scrive anni dopo Proust e Leopardi è quello davanti alla cui maestà si sta come davanti alle rose del Bengala, come davanti a un ‘povero cuore’ malandato.
Ma che cos’è l’essenziale? Che cos’è il sogno?, ci si era chiesti prima. Che cosa si sogna?, ci si poteva invece chiedere; ed ecco, la risposta è arrivata da sé, senza necessità di porre la domanda. Questo si sogna: l’ “amore mio” di Nabokov, “la bella imago” di Leopardi; e come si sogna? Soli, abbiamo detto, ma per necessità. Quando si sogna – soli come Marlow – si è soli perché soltanto così si sta nel nostro sogno, davanti alle rose del Bengala, a un ‘amore’ o a ‘un povero cuore’.
Prima parlando del sogno si è parlato di ‘attimi’e ‘momenti’, perché? Perché un sogno non può durare di più?
C’è un aspetto tremendamente pericoloso nel sogno: la sua dimensione d’irrealtà. Una delle sue caratteristiche rilevate da Bertoni è, infatti, il fatto che “il sogno disgrega il soggetto”, lo spartisce, e questo non può durare più d’un attimo.
Attimo è il tempo giusto per far durare un sogno: infatti l’attimo, come il sogno, non è definito; quanto dura un attimo nessuno può dirlo e quindi non risponde, l’attimo, al nostro tempo, non segue questa realtà e, proprio come il sogno, anche nell’attimo c’è un oblio, un dimenticarsi del mondo.
Tuttavia, non ci si può dimenticare del mondo per più d’un attimo; è pericoloso il contrario. La letteratura, come il sogno, ha senz’altro un forte potere terapeutico (vedi saggio n. 6) ma, al tempo, pericoloso.
Permanere più d’un attimo nel sogno, in quell’altro mondo non “meno o pi reale di questo, soltanto diverso” , può però voler dire estraniarsi a tal punto dalla realtà da non riconoscersi più alla fine del viaggio. “Il ritorno del viaggiatore” è essenziale tanto quanto la sua partenza.
Insomma, alla fine di un viaggio, di un sogno, di una lettura o della scrittura del romanzo bisogna tornare. Ritornare, quindi, a questa realtà nemica, non per ricevere indifesi i suoi attacchi al nostro ‘povero cuore’, ma certi che ora, alla fine del viaggio, il viaggiatore, il sognatore è tornato forte del suo sogno e sa, magari, in qualche modo, tenere a debita distanza, non lasciarsi del tutto invischiare, infangare dalla realtà.
Sa il sognatore di ritorno che c’è un’altra realtà, altri mondi possibili tanto quanto i suoi sogni; ora sa che esiste un posto dove vivere non fa paura, dove non si sente affatto quel ‘male di vivere’ di cui si parlava. Conosce, forse, ora il sognatore che ritorna qualcosa che prima non aveva assaporato (non poteva) in questa misera realtà: il gusto di vivere.
Questo settimo – e penultimo – breve saggio, allora, termina con un mio augurio per voi che state leggendo e, quindi, in qualche modo, siete ‘partiti’: io, che tante volte sono partita ma non l’ho ancora trovato, vi auguro di essere più fortunati, e alla fine di qualunque viaggio, al capolinea di qualsiasi sogno, lì dove state fissi davanti a qualunque amore il vostro ‘povero cuore’ provi; io vi auguro di trovare il gusto di vivere e, una volta trovato, sappiate che il viaggio non sarà stato vano.
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