“Credere in altri, credere e lottare
col viso guasto e il freddo sulle mani”
dicesti con un sibilo sottile, stringendo il pugno,
con le labbra rigonfie di saliva e nicotina.
E come un’eco si persero parole
tra il fumo che saliva, tra gli sguardi indifferenti,
in quel caffè fuori porta, in un’ora tarda di maggio.
“Ma fu strada quella d’altri tempi.
Ora si parla a vuoto, forse troppo,
nulla dà maggior potere della menzogna”
dissi fra me e me, dissi a quell’altro, nel silenzio greve
di quell’ora già tarda, lo vedevo di sbieco,
controluce, con una smorfia ferma sopra il labbro.
“È un segno questo lasciatomi in quei giorni”
disse indicando con l’indice sul volto
la cicatrice tagliata sulla guancia,
“allora era diverso, si sapeva, ed era
quello il potere” balbettò soffiando.
Ed io che fuggo, non so per quale sorta,
che vedo donne e uomini nel fango
trascinati per forza o per inerzia
arrabattarsi e chiedere del pane
ed altri fermi, chiusi nello spazio
del proprio tornaconto, ognuno solo,
ed altri ancora vendersi per poco,
io che non basto a smuovere l’offesa…
“Chi vuoi che salvi?” chiesi a bruciapelo.
“Quelli, non altri, quelli che han creduto”.
Veniva un’onda cupa di basalto, un’onda
bruna dove soffia il vento che fa secche
le querce e rosso il cielo, la tramontana
ci soffiava al fianco, ed era quello il tempo
dell’attesa, il primo tempo quando è verde il grano.
Torse la bocca in una smorfia, torse
le mani ossute. “Oh se qualcosa mai
fosse rimasto! Se qualcosa ancor oggi
fosse vivo!” disse col tono cupo del rimpianto,
disse guardando fisso oltre la soglia.
“Sono gli anni che invecchiano, sono
i tempi, questi, più avari, sono…” e vidi
oltre il suo viso tutto incrinarsi il tempo
delle nostre debolezze, i sogni eterni,
muti, in un trasecolar di foglie, vidi…
Lo so per certo, questo tengo a mente,
la nostra nudità, la nostra fede spenta.
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