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La Stiva

Argomento: Letteratura

di Giovanni Baldaccini
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Pubblicato il 07/06/2024 12:01:02

Il Minotauro è un animale esausto, ma non credo se ne sia accorto, chiuso com’è nella malinconia.

 

 

Dunque dove mi trovo? Questa stiva non è un contenitore. Non tutto è disponibile a comando. Devo passare la domanda al revisore ed aspettare pratiche – che si compiano, dico – sperando che si trovi la bisaccia dove ho messo i ricordi.

Spesso cortocircuiti (se si crea un conflitto). E mi sento inevaso.

Se la cosa riesce, potrebbe generarsi un’alluvione. E allora stracci, idrovore, pompe di calore per asciugare il senso che rimane.

Dunque leggere titoli. Sui contenuti meglio sorvolare.

 

Ora, la stiva è un luogo galleggiante dove la notte abita tranne poche fessure. Magari un Monastero.

Molto simile a un ventre, potrebbe essere quello di tua madre, se non fosse che lo conosci benissimo avendoci abitato, mentre questa è simile all’ignoto. Per questo induce desideri, inquietudini, paure. Cosa, ad esempio, dietro quelle casse? O peggio, dentro. O all’angolo del buio più lontano, quello dietro quell’altro? Meglio tornare in-dietro.

Con cautela: si potrebbero incontrare ricordi.

 

Si apre a caso (cioè, togli il cellophane al mondo) e scopri che una tal signora “aveva un culo di vetro sul quale si poteva leggere il medioevo” (H. Miller, “Tropico del cancro”).

Ora, non è cosa di tutti i giorni leggere il medio evo sul culo di una donna, cosa che farei volentieri per svariate ragioni, ma il futuro non era contemplato. Nemmeno che il tropico avesse il cancro. Quindi, rivolgersi altrove.

Scopri allora che ti è arrivata una lettera, da un certo Baranowicz che abita in cima al mondo. Scrive di una donna. Mi scrive. Io non la conosco.

“Si chiama Alja e sta zitta quasi tutto il giorno. Lascio che abiti qui, le do un letto e così vive accanto a me. Posso darle anche dei soldi se vuoi che venga da te. Ma posso anche tenerla qui. È lo stesso per me! Scrivimi a Irkutsk fermo posta. Ogni mese Isaak Gorin, il venditore di grammofoni, ritira la mia posta.

Ho anche acquistato da lui un grammofono, e alla donna che sostiene di essere tua moglie piace ascoltarlo. A volte piange persino. Forse piange per te, almeno io penso – e allora può essere che anche a me vengano le lacrime.” (J. Roth, “Fuga senza fine”).

Questo succedeva mentre a Vienna si suonavano mazurke anche dentro le cripte (J. Roth, “La cripta dei cappuccini”) e qualcun altro emigrava in America, lasciandosi dietro un mondo inabile, un figlio inabile e un’anima disabilitata, come l’Europa degli Ebrei che vanno. Gli capita anche di non riuscire a riconoscere uno straccio di mondo perché era rimasto insieme al figlio inabile.

E un giorno gli amici, vedendo del fumo uscire dall’appartamento, entrano e trovano che sta bruciando tutti i vecchi libri. “Che fai?” gli gridano. E lui: “Brucio Dio!” (J. Roth, “Giobbe”), mentre a Venezia gli angeli girano solo di notte e io non posso dormire (I. Brodskij, “Fondamenta degli incurabili”).

A Vienna comunque Mitzi non mi lasciava in pace, nonostante le avessi comprato cento statue di cera con cui giocare, lei e quell’idiota del figlio (che poi era anche mio, sembra). Così mi sono sparato (J. Roth, “La milleduesima notte”).

Sempre meglio che a Berlino, dove qualcosa ti dice di darle il cuore altrimenti viene a prenderselo da sola, e hai voglia a rispondere “un momentino...”.  (A. Döblin, Berlin Alexanderplatz”).

Quindi sali su un treno, e mica lo sai dove stai andando e qualcuno dice:” Và al diavolo”.

“Certo generale, o dovrei dire tenente? Scusatemi signora, ho buscato un avvelenamento da gas a furia di essere comandato di corvèe in cucina, e da allora la mia vista non è stata più la stessa. Avanti verso Berlino! Ma sì, certo siamo su Berlino, sono su di te, Berlino. Ho il tuo numero. Niente migliaia, niente centinaia e nemmeno un indegno zero di soldato semplice (molto semplice), Joe Gilligan in ritardo per le patate, in ritardo per il servizio, in ritardo per il rancio anche quando il rancio è in ritardo. La statua della libertà non mi ha mai visto e se mi vorrà guardare dovrà chinarsi su di me”. (W. Faulkner, “La paga del soldato”).

E ad Alexanderplatz non c’era più nessuno.

 

In un’altra cassa mi trovavo a Zlotogrod e facevo il verificatore. Tutti i pesi erano falsi. 

Non me ne fregava niente: io volevo stare con Eufemia, anche se non aveva un culo di vetro.

Eufemia stava con me, nell’osteria della frontiera, per il tempo che poteva. Ma tornava l’inverno, e con l’inverno passava il colera ma ritornava l’uomo cui apparteneva. C’era poco da verificare: gli apparteneva, almeno d’inverno. A Zlotogrod l’inverno è lunghissimo.

E allora una notte il gendarme Piotrak mi carica su un carro. Su un carro mi carica e mi scarica davanti all’ospedale, per sentirsi dire dal medico: “Costui è morto. Perché ce lo porta qua?” (J. Roth, “Il peso falso”).

Capisci? Da una cassa all’ospedale. E nemmeno ci dovevo andare!

E allora è meglio andare in un’altra cassa, dove ci trovi dei mattoni e ti puoi costruire una stanza. E tutti ti scambiano per un rabbi, un santo cui chiedere consigli, mentre sono soltanto un peccatore, un avventuriero, uno di quelli che corrono sulla corda per non trovarsela al collo. E dopo i fatti di Eufemia, credo sia meglio che le donne siano loro a morire. Io mi costruisco una stanza, senza porte, senza finestre, soltanto uno spioncino, per tenerci dentro i miei peccati e i miei istinti irrefrenabili. Li freno io, li freno! Coi mattoni. E non venitemi a chiedere cosa dovete fare: fatelo da voi! (I. Singer, “Il mago di Lublino”).

Ma non chiedetemi neppure di ascoltare la radio se non ne avete una (stava in un’altra cassa). Non me lo chiedete, altrimenti mi devo inventare di averne una mentre non ce l’ho, e vi devo dare le notizie che sperate di sentire, mentre questi ci ammazzano uno a uno e ci fanno lavorare come se non fossimo morti. E vi devo dire che arrivano gli Americani, ma non ne ho la minima idea.

Poi gli Americani arrivano davvero, ma quelli intanto (quegli altri), si sono convinti che una radio ce l’ho davvero, nonostante il divieto di averne, e mi ammazzano. Così quando quelli arrivano, voi avete avuto la conferma di una notizia che non avevo ma che vi ho dato. E io sono morto. (I. Singer, “Jacob il bugiardo”).

Quando sono morto le ho chiuse; ho chiuso tutte le casse. Ho cercato di uscire dalla stiva ma non ci sono riuscito, perché ho capito che non sono io a stare nella stiva, ma la stiva è dentro di me. E c’è stata per cento anni, di solitudine, solo che non c’erano alberi dove pisciare e i cent’anni non finivano mai.

Ma se sono morto come faccio a camminare? “Mentre io, prima che Karrer impazzisse, camminavo con Oehler solo di mercoledì, ora, dopo che Karrer è impazzito, cammino con Oehler anche di lunedì… E senza esitare ho detto a Oehler: bene, camminiamo anche di lunedì, ora che Karrer è impazzito ed è allo Steinhof”. (T. Bernhard, “Camminare”).

E a furia di camminare mi sono trovato in un cesso pubblico, a sorvegliare le pisciate degli altri, dopo anni di strada a suonare un organetto, sai, quei vecchi attrezzi pieni di vecchie canzoni, e avevo una gamba sola per via della guerra. Per questo avevo un organetto.

Stavo in un cesso pubblico a fare il guardiano, sperando in qualche mancia. Avevo un pappagallo sulle spalle e a un certo punto il pappagallo si è messo a volare, lì, nel cesso, e le sue ali frusciavano come credo possa frusciare solo la morte, ma non le sentivo. Non sentivo le ali del mio pappagallo: non lo sentivo volare. Neppure quando si è posato sulla mia spalla”. (J. Roth, “La Ribellione").

“E allora succede che anche Horace non li udiva. Non udiva le urla di quello che si era bruciato. Non udiva il fuoco, anche se il fuoco continuava a vorticare verso l’alto con la stessa intensità come se vivesse di se stesso, e senza alcun rumore: una voce infuriata, come in un sogno, che usciva ruggendo in silenzio da un placido nulla”. (W. Faulkner, “Santuario”).

E da quel nulla esce fuori che Dio viveva a Parigi, anche se non lo sa. E quando mi sono trovato davanti a Lui, senza una gamba e senza neppure l’organetto, mi ha chiesto cosa volessi. “Voglio andare all’inferno!” ho risposto (J. Roth, “La ribellione”) "e un battello gridava dalla Senna, un altro rispondeva e tutti seguivamo il corso della corrente. La seguivano tutti e che non se ne parli più” (F. Céline, “Viaggio al termine della notte”).

 

 

 

 

 


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