Fece un attimo di pausa,
prima di continuare tra le viti
con un sorta di radice da tirarsi dietro
a distanza di un braccio dalla schiena,
nel fascio preciso della luce
accumulando energia
sulla punta delle dita.
Con un procedere rituale,
come a incanalare pace
in un punto d'unione la sua musica vibrò,
come fosse uno stendardo,
afferrando della gioia nell’intarsio
delle pieghe,
un segreto per l’occhio della mente.
Non c'è modo di parlarne
se non per paragone a qualcosa che conosco;
come tamburi colpiti da sussurri
intrecciava con le viti una poesia
un ricamo argenteo sulle vene
dell’acqua, in mezzo al piccolo frutteto
avvolgendo le mie ossa con i fili
con i lacci di un canto nel silenzio,
lo stesso di una stanza di un bambino
quando dorme
spostando l’aria col respiro.
C’è una vita leggerissima da allora
nello stagno di narimi,
una staziona segreta che rimane
un piccolo perpetuo sulla lingua,
nel barlume che raggiunge
il suo splendore.
Fra gli sguardi del sole io ritorno
nelle ombre assegnate
una mussola in preghiera ed argentina,
nel ventre smisurato del mio bosco
dei cervi muti, custodi di vocali,
dove la corsa finisce in un miracolo
e il suo corpo uno strumento che congiunge
a voce bassa dei semplici bambini
che si sporgono nel nulla
ad occhi chiari
dalla cima dell’ultima parola,
con un dire lungo i lati delle labbra
la vita vince sempre su ogni uno,
con un filo, rosso, che ci lega
nel seme del tacito affidarsi.
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