Pubblicato il 20/11/2016 13:56:26
Ricordo che qualche giorno prima della partenza con il Vespucci mi ritrovai influenzato, proprio mentre stavo a casa dai miei genitori per qualche giorno di licenza. Dovevo partire, ma la mia inerzia mi avrebbe fermato lì, a casa, lasciandomi allettato dalla pigrizia e dalle amorevoli cure della mia famiglia, sereno tra quattro mura domestiche, sarebbe stato facilmente realizzabile con un semplice certificato medico. Ma dentro di me qualcosa ribolliva e una pressione interiore sollevava i coperchi del mio quieto vivere, era l’avventura, erano il mare, il cielo e il vento che battevano i loro piedi vicino al mio letto, piedi-tamburi, un suono assordante, diventato in breve una tempesta di sogni che sollevò il mio corpo e mi pose in macchina, con la mia famiglia al seguito ad accompagnarmi fin sulla banchina del porto di Livorno, dal quale salpai per un’avventura la cui durata sarebbe stata di cento giorni. Furono più di tre mesi di navigazione attraverso il mare insieme ai miei compagni di corso, portati da un immenso soffio di leggerezza su vele aperte nell’azzurro, galleggiando su inesauribili profondità oceaniche pronte ad inghiottire tutti noi, qualora ci fossimo svuotati della nostra stravagante audacia. Invece avemmo la meglio sull’oceano, che rimase vinto dalla potenza della nostra giovinezza, dall’orgoglio di rassomigliare agli uomini che avevamo già pensato di essere. Fu la nave a raccogliere ansie e tristezze, attese e illusioni nella sua anima di acciaio, legno e tela, e con questa forza attraversò tutti i mari e ci riportò a casa illesi e un poco più uomini, uomini allegri. Avevamo vinto, non sapevamo su chi o che cosa, sapevamo però che qualcosa in noi era cambiato, era stato il mare, non ci aveva scontato nulla, ci aveva sorretti così come ci avrebbe inghiottiti; dipese, la vita o la morte, solo da noi, fummo i fautori del nostro destino. (Da "Navigazioni incerte": www.ebook-larecherche.it/ebook.asp?Id=75)
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