Il coraggio di distaccarsi, nella produzione del cinema italiano oggi, da un genere massivamente accettato è analogamente valutato quanto quello di affidarsi a delle tendenze pop-cinematografiche contemporanee. Gabriele Mainetti, dopo il fortunato successo di Lo chiamavano Jeeg Robot del 2015, ha voluto ulteriormente ridurre il distacco da un genere che non è, per natura, riflessiva del dominio del paradigma cine-comic nella cinematografia di genere.
Freaks Out è il dispendioso risultato di questo tentativo (considerando i 12 milioni di euro spesi); se da un lato abbiamo un cinecomic che vuole divincolarsi dai tratti della cinematografia leader del genere (quella statunitense rappresentata dai colossi di Marvel Studios di Disney e di DC Films di Warner Bros); dall’altro assistiamo alla predisposizione malriposta di Mainetti e Guaglianone di approcciarsi all’enormità del progetto con una insufficienza narrativa.
L’attenzione al genere e la volontà di “italianizzare” alcuni ritmi e tempi dei cinecomic la vediamo su più fronti, come ad esempio prosemica degli attori, o ii consueti piani americani costruiti dalla fotografia di D’Attanasio dei personaggi principali ci restituisce una dinamica visiva coerente; tuttavia, gli elementi autoriali come la parlata romanesca, o, i troppi esigui esterni di una Roma anti-neorealista fanno capo ad una tendenza un po’ confusa e deludente di elementi narrativi. L'esempio più lampante è quello di assistere ad un’invasione di nazisti cinematografici che strizzano l’occhio al nazisplotation piuttosto che all’attesa presenza di un eventuale fascismo Mainettiano.
La mancanza di archi narrativi ben sviluppati (fatta eccezione per la protagonista Matilde, interpretata da Aurora Giovinazzo) per i personaggi principali, la mancanza di back-story da parte dell’antagonista Franz, la poca coesione dei precedenti con il sotto-testo storico, e l’uso disorientante di cultura pop (inclusa un’esplicita citazione ai fumetti dei Fantastic four) non restituiscono quell’ “adesione al reale nel mondo supereroistico” che aveva autorialmente attecchito in modo felice in Lo chiamavano Jeeg Robot.
Eppure, le fattezze del mondo inventato dallo scenografo Sturiale sono curate in modo maniacale con dei dettagli scenici degni per ogni location - dalla tenda dell’antagonista Franz con tutti i riferimenti sul futuro e sugli elementi scenografici dell’espressionismo tedesco, alla messa in scena circense del prologo. Quest’ultimo momento sembra essere la metafora comunicativa personale di Mainetti: con le giuste implementazioni il cinema italiano è pronto a mostrare come anche in Italia la maestria cinematografica pregna di vfx, scene con molte comparse e coordinazione di molteplici reparti possa esistere.
A Gabriele Mainetti, dunque, va riconosciuto questo ispiratissimo tentativo di proporre un cinema italiano di genere inedito ed impegnato a sottintendere il tema della diversità; l’essere freak di ciascun singolo membro del pubblico odierno altamente identificabile nei personaggi che sono così diversi ma così desiderosi di appartenere ad un gruppo.
Freaks Out si pone forse come pallida esecuzione nella scala dei cinecomic ma si getta (e cerca di gettare) in un mondo sconosciuto per il cinema italiano. Per un atto del genere occorre una grande capacità visionaria ed un coraggio intelligente. A Mainetti è possibile riconoscere entrambi mentre, il regista stesso, si identifica come un freak nel panorama del cinema nostrano.
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