I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.
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- Cinema
Una storia nera - Recensione
Il racconto contemporaneo dei temi sociali di questi anni si presta sempre più nella cinematografia italiana. La violenza domestica, legata politicamente ai femminicidi e in diretta conseguenza al femminismo, risulta sempre polarizzante nelle discussioni dei film che risentono del politically correct. Una storia nera, di Leonardo D’Agostini, è un crocevia di due fenomeni; il primo dimostra come il tema sociale sopra discusso non venga meno di importanza e rilevanza nella delicata scelta di un’opera seconda di una giovane leva registica come D’Agostini; il secondo, invece è prosieguo dell’esperimento ormai rodato dei film marchiati Groenlandia, sotto la guida di Rovere. Se esperimenti come Il primo re (2019, Rovere), Come pecore in mezzo ai lupi (2023, Patitucci), Settembre (2022, Steigerwalt),The Hanging Sun (2022, Carrozzini) e Il campione (dello stesso D’Agostini, al suo esordio) hanno proposto una produzione che mira a ri-codificare il cinema dei generi su modelli cinematografici stranieri, (spesso statunitense) - adattandolo alla messa in scena, tempi e modalità del cinema nostrano , “una storia nera” ripropone questa formulazione cinematografica, ed anzi vuole non solo rimpolpare i generi con tendenze straniere ma proporsi come interlocutore diretto nel cinema di riflessione sociale a cui, in principio di questa sede, si accennava. D’Agostini, con il marchio Groenlandia, interloquisce con il cinema nazionale in primis alle similitudini con il fortunato C’è ancora domani della Cortellesi, confermando il trend di discussione della femina causa. Una moltitudine di temi, toni drammatici e stampo da trial movie, possono essere ricondotti anche ad Anatomia di una caduta (2023, Triet) confermando come il film voglia esplicitamente alzare la mano per dire la sua nell’odierno dibattito cinematografico. Anche la scritturazione della Casta nei panni della protagonista Carla, donna vittima e carnefice; la presenza del personaggio Alaimo, PM interpretata da Cristiana dell’Anna; Claudia Della Seta nei panni del giudice del processo per non parlare della presenza scenicamente ingombrante della sorella del marito violento (Licia Maglietta). D’Agostini aderisce all’odierna iper-presenza femminile sullo schermo. La missione politica si percepisce dal “punto di vista di onestà della forma cinematografica”; la messa in scena scenografica (Peng) piena di riflessi e specchi in molte inquadrature, i movimenti di cinepresa oggettivi, la fotografia a tratti chiaroscurale ai limiti delle regole di noir-lighting (Paradisi) possono confermare l’estetica matura di un autore giovane come D’Agostini. Anche la musica del film interagisce fortemente, come gli stessi autori Ratchev e Carratello affermano: “La musica che abbiamo realizzato per Una storia nera prova a raccontare quello che si nasconde nei personaggi, nei loro pensieri, nelle loro intenzioni: la follia della violenza, lo sgomento e la paura, la vergogna e il coraggio, connettendosi con quanto vediamo rappresentato nelle immagini ed espresso nei dialoghi. Musicalmente è stato entusiasmante”. Esattamente come in C’è ancora domani della Cortellesi - in cui erano Mastandrea e la Cortellesi stessa- , il cuore fondante della vicenda narrata, la causa-effetto o ancora, l’evento che dall’ordinario ci pone nello straordinario, è la relazione della coppia Carla e Nicola (De Piano) riflessa nel rapporto dei figli Rosa e Nicola (rispettivamente Gavino e il feticcio Carpenzano, riconfermato dopo l’esordio efficace ne Il Campione. La similitudine con il film della Cortellesi eredita anche un cattivo difetto di scrittura e sceneggiatura: la bidimensionalità del personaggio maschile. L’orco cattivo immaginario cronachistico che non attecchisce cinematograficamente: quali sono le sue sfumature? Qual è il background psicologico? Sono domande che chi scrive si è posto energicamente, soprattutto in considerazione del finale pseudo-cliffhanger dal gusto noir.
Id: 3415 Data: 28/06/2024 18:46:35
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- Letteratura
Freaks Out - Recensione per seminario critica 2022
Il coraggio di distaccarsi, nella produzione del cinema italiano oggi, da un genere massivamente accettato è analogamente valutato quanto quello di affidarsi a delle tendenze pop-cinematografiche contemporanee. Gabriele Mainetti, dopo il fortunato successo di Lo chiamavano Jeeg Robot del 2015, ha voluto ulteriormente ridurre il distacco da un genere che non è, per natura, riflessiva del dominio del paradigma cine-comic nella cinematografia di genere. Freaks Out è il dispendioso risultato di questo tentativo (considerando i 12 milioni di euro spesi); se da un lato abbiamo un cinecomic che vuole divincolarsi dai tratti della cinematografia leader del genere (quella statunitense rappresentata dai colossi di Marvel Studios di Disney e di DC Films di Warner Bros); dall’altro assistiamo alla predisposizione malriposta di Mainetti e Guaglianone di approcciarsi all’enormità del progetto con una insufficienza narrativa. L’attenzione al genere e la volontà di “italianizzare” alcuni ritmi e tempi dei cinecomic la vediamo su più fronti, come ad esempio prosemica degli attori, o ii consueti piani americani costruiti dalla fotografia di D’Attanasio dei personaggi principali ci restituisce una dinamica visiva coerente; tuttavia, gli elementi autoriali come la parlata romanesca, o, i troppi esigui esterni di una Roma anti-neorealista fanno capo ad una tendenza un po’ confusa e deludente di elementi narrativi. L'esempio più lampante è quello di assistere ad un’invasione di nazisti cinematografici che strizzano l’occhio al nazisplotation piuttosto che all’attesa presenza di un eventuale fascismo Mainettiano. La mancanza di archi narrativi ben sviluppati (fatta eccezione per la protagonista Matilde, interpretata da Aurora Giovinazzo) per i personaggi principali, la mancanza di back-story da parte dell’antagonista Franz, la poca coesione dei precedenti con il sotto-testo storico, e l’uso disorientante di cultura pop (inclusa un’esplicita citazione ai fumetti dei Fantastic four) non restituiscono quell’ “adesione al reale nel mondo supereroistico” che aveva autorialmente attecchito in modo felice in Lo chiamavano Jeeg Robot. Eppure, le fattezze del mondo inventato dallo scenografo Sturiale sono curate in modo maniacale con dei dettagli scenici degni per ogni location - dalla tenda dell’antagonista Franz con tutti i riferimenti sul futuro e sugli elementi scenografici dell’espressionismo tedesco, alla messa in scena circense del prologo. Quest’ultimo momento sembra essere la metafora comunicativa personale di Mainetti: con le giuste implementazioni il cinema italiano è pronto a mostrare come anche in Italia la maestria cinematografica pregna di vfx, scene con molte comparse e coordinazione di molteplici reparti possa esistere.
A Gabriele Mainetti, dunque, va riconosciuto questo ispiratissimo tentativo di proporre un cinema italiano di genere inedito ed impegnato a sottintendere il tema della diversità; l’essere freak di ciascun singolo membro del pubblico odierno altamente identificabile nei personaggi che sono così diversi ma così desiderosi di appartenere ad un gruppo. Freaks Out si pone forse come pallida esecuzione nella scala dei cinecomic ma si getta (e cerca di gettare) in un mondo sconosciuto per il cinema italiano. Per un atto del genere occorre una grande capacità visionaria ed un coraggio intelligente. A Mainetti è possibile riconoscere entrambi mentre, il regista stesso, si identifica come un freak nel panorama del cinema nostrano.
Id: 3373 Data: 19/05/2024 18:02:47
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- Cinema
Scelte - Blue Jasmine
Quest'opera è ispirata al personaggio interpretato dall'attrice Cate Blanchett del film di Woody Allen "Blue Jasmine". L'artista è interessata ad approfondire la protagonista dal punto di vista psicologico, immortalando un suo momento di disperazione, nel quale la donna si copre le mani con il viso e lascia in vista solo i suoi gioielli. Lo scopo è evidenziare il lato materialista e venale del personaggio, esasperato anche dal regista e dalla sublime interpretazione dell'attrice. Nel film, la donna, elegante dama dell'alta società newyorchese, dopo il tracollo finanziario del ricco e disonesto marito, è costretta a ripiegare nella dimessa abitazione della sorella a San Francisco, dove si trasferisce nel tentativo di ricostruirsi una vita. Jasmine, personaggio snervante e spocchioso, ripete sempre il medesimo errore, mentire e preporre solo aspetti materiali, fino al fallimento, alla totale perdita della ragione. Lei non ha più niente, ma malgrado tutto è ancora in grado di mantenere il suo aspetto elegante e narcisista nei confronti della sorella e delle persone a lei vicine. Ma questa volta la coazione a ripetere gli schemi della falsa vita precedente non le riuscirà e alla fine della storia Jasmine svelerà i lati più distruttivi del suo comportamento che hanno portato al fallimento del matrimonio, al suicidio del marito e all’inconsistenza delle relazioni personali, comprese quelle attuali con la sorella e dei suoi compagni. Jasmine diviene, allora, il simbolo dell’aridità delle relazioni della società americana, sottolineando anche l’inevitabilità della crisi degli ultimi anni delle classi più affariste, incapaci di esprimere valori etici e sociali, scollegate dalle emozioni e dagli affetti, con una visione puramente materialista e consumistica della vita. Jasmine si presenta come una donna fragile, incapace di affrontare la vita, incapace di valutare i comportamenti falsi e truffaldini del marito, di riflettere, persino di ragionare. E’ troppo assorbita dalla vita ricca e senza problemi che conduce, preferendo far finta di non sapere, di non vedere. Il suo tratto isterico di copertura funziona bene, la bambina confusa e dipendente si sente al sicuro. Dopo il tracollo, Jasmine reagisce come sa fare: usa la dipendenza (da alcool e da pillole), a volte si dissocia, si estranea dalla situazione che sta vivendo, parla da sola, racconta di sé anche agli sconosciuti, inventa una vita diversa. Si appella anche ad un fragile lato narcisista, mostrando superiorità e disprezzo verso la normalità vista come squallida e poco elegante. La tragicità del personaggio è, proprio in questa impossibilità di crescere, di avviare un percorso evolutivo che la porti dalla posizione dipendente orale ad un radicamento in fasi più complesse e piene della vita.
Id: 3164 Data: 29/08/2023 12:31:44
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- Cinema
No Time to Bond
La vita contemporanea è immensamente frenetica nel cambiamento; non solo nel modo di vivere ma anche nel perenne cambiamento delle cose. Sono gli anni del fulmineo pensiero verso nuove politiche e strutture di pensiero sociali; sessualità, nucleo familiare, annichilimento, politiche del lavoro sono solo alcuni dei massimi sistemi che non sopravvivono al confronto col passato. La tendenza di questo fulmineo sistema di pensiero, così tenendente alla frantumazione del passato, è favorito dalla digitalizzazione della nostra vita. A quest’ultimo non sfugge niente: il recupero dei vecchi modi di pensare per il costante confronto per il presente avviene ormai in ogni aspetto anche della cultura visiva. Le iconografie cinematografiche, talvolta, risiedono nei personaggi; la loro immortalità viene contraffatta dal tempo o dal loro stesso status in divenire. Le saghe cinematografiche più longeve subiscono sicuramente questo fato. In questa sede si prende in esame la più longeva saga cinematografica, con il personaggio più resiliente ai tempi ma che, tuttavia, con il suo ultimo ciclo cinematografico, ha rinunciato al suo immutabile status. Il suo nome? Bond, James Bond. No Time To Die ci inganna due volte, in due accezioni. La prima, meramente parolistica ed esplicita per le battute del film e gli eventi rispetto al significato del titolo; la seconda, invece ci inganna per averci fatto credere che Bond potesse non cambiare mai. Daniel Graig ha interpretato l’ultimo dei classici ed il primo dei nuovi Bond, privato del suo old-fashioned style sempre più gradualmente da Casinò Royale fino a No Time to Die. Nell’ultimo film Bond non può sopravvivere al suo stesso retaggio. Se 007 può essere donna, afroamericana e muscolosa, James Bond non può diventare un padre di famiglia. E infatti soccombe. James Bond muore, o per meglio dire, muore la sua aura già decadente. Lo hanno detto in molti fin da Casinò Royale che il rude Bond (più originariamente come il personaggio di Ian Fleming) è ora un uomo con una seria e malvelata instabilità emotiva. Un Bond che rinnega la sua infanzia rancoroso, che finisce preda di gag dalle sue aspiranti bond-girl, che viene mandato in bianco e che viene sparato da una sua collega. Un bond in capace di mantere in vita le donne che ama o di cui è amante, incapace di mettersi in forma e con un aspetto non degno dell’agente al servizio di sua maestà. Più di tutto, di un Bond che finalmente è debole. Il personaggio è diventato persona, ed è così che il personaggio ha smesso di esistere. Si vocifera che il prossimo Bond possa essere donna; la contemporaneità fulminea a cui si accennava poco fa potrà sicuramente cambiare il destino di 007. Tuttavia, in No Time to Die, abbiamo l’impressione opposta. Il disperato politically correct che vuole un 007 donna, afroamericana e muscolosa, macchiettistica e scritturata per soddisfare le aspettative del pubblico dovrebbero offenderlo. La costruzione narrativa di qualità dovrebbe porsi oltre queste tipologie di forzature che stanno, a mio avviso, rovinando la qualità dei character. Non si può inserire un personaggio a scapito della sua ideazione per velleitarie volontà politiche, non si può. Non in un franchise come quello di Bond. La morte di Bond ci rivela però un altro inquietante paradigma dei nostri tempi tumultuosi di cambiamenti scellerati e incondizionati: nessun personaggio, neanche dalle più solide realtà letterarie, è al sicuro da questo cambiamento. E il Bond di Daniel Graig ha funzionato in questa veste di passaggio. Ciò che ci sarà dopo potrebbe non esistere più in quanto tale. Ed è proprio adeguata la linea di Lea Seydoux nel finale: “...ti racconterò di un uomo. Il suo nome era Bond, James Bond.” : un mito per i posteri.
Id: 2978 Data: 18/06/2022 09:18:10
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- Cinema
Lo and Behold - Herzog e la sua favola di internet
Lo and Behold - Il futuro di internet è oggi, ultimo documentario del regista tedesco Werner Herzog, ci parla di internet come lo conosciamo oggi: quello che rappresenta e che può rappresentare secondo il cinema del regista tedesco. Il massimo sistema preso in esame riflette sicuramente la contemporaneità digitale di cui internet si fa principale protagonista; in questo senso, Herzog concentra la riflessione più futuristica in alcune battute dei suoi intervistati quando si fa riferimento al futuro tecnologico in cui l’uomo non è indispensabile – in un caso, parlando con un tecnico robotico che afferma che la squadra di calcio del Brasile potrà essere battuta da robot un giorno; nell’altro, un po’ meta-filmicamente, come i robot potranno gestire la lavorazione di un film. Un Herzog interessato dunque a questa nuova “rivoluzione” – come da lui indicata nel primo capitolo del film – e determinato a porre con il film come un duplice atto celebrativo: uno relativo alla rete e ai cambiamenti della comunicazione, l’altro una celebrazione referenziale della soggettività con cui il regista affronta questo tema. In questo senso il regista usa un tono di voce performativo-poetico (Nichols): una schiera di studiosi filmati in momenti di folgorazione poetica mentre esprimono le loro sensazioni; è escluso, dunque, un qualsiasi tentativo acuto di spiegazione tecnica per le tematiche poste. Questi intervistati hanno realmente segnato la storia di internet; tra di essi troviamo i pionieri dei concetti di ipertesto e dei protocolli di internet come Ted Nelson, Leonard Kleinrock e Bob Kahn. Herzog pone l’argomento internet e i suoi risvolti come una storia fantastica - con toni visti già nel rapporto tra uomo e natura del documentario sulla vita di Timothy Treadwell (Grizzly Man) -, vale a dire il consueto formalismo celebrativo del regista. Troviamo un esempio nel terzo capitolo del film (Il “Lato Oscuro”): Herzog narra dell’orribile esperienza della famiglia Catsouras, una figlia deceduta in un tragico incidente e il conseguente cyber-insulto dovuto alle mail anonime con le foto della figlia sfigurata. La drammatizzazione di queste scene risulterebbe convincente – anche accettando la costruzione forzata della messa in scena – se venisse però contro-bilanciato da alcune spiegazioni. Herzog non cita né discute minimamente le possibilità preventive di queste aberrazioni informatiche come il semplice rivolgersi alle autorità competenti. Tutto viene quindi lasciato ad una dimensione esclusivamente drammatica. E’ tuttavia innegabile però l’efficacia che questo soggettivismo narrativo convince quando vengono affrontate teorie come “l’internet delle cose”. Anche qui, pur non scavando in un dovuto approfondimento tecnico, Herzog mostra al pubblico le idee illuminanti proposte dagli esperti: i lunghi sguardi degli intervistati e la fissità della macchina da presa sono i principali fautori filmici di questa presentazione. Mentre in Grizzly Man l’apporto poetico e pro-forma del regista veniva in contro al racconto tra natura e uomo, in Lo and Behold lo stile del cineasta tedesco non si adatta alla stessa rete che oggi si auto-adatta e si auto-completa, dove il tecnicismo googlato fa parte ormai della nostra quotidianità. Herzog mostra con poetiche intuizioni alcune importanti teorie ma, nella maggior parte del film, cade in una sensazionalistica e poco adeguata conduzione di tali argomenti.
Id: 1905 Data: 17/06/2017 18:07:06
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- Cinema
Taxi Teheran : il meta-film di protesta di Jafar Panahi
Vincitore dell’ orso d’oro del festival cinematografico di Berlino 2015 , Taxi Teheran è prima di tutto un film in cui così raramente si può osservare una finzione perfettamente “reale” , in cui gli elementi filmici e profilmici si mischiano l’un l’altro. Non a caso convincere la giuria del festival tedesco è stato proprio quest’urlo silenzioso del regista Jafar Panahi , con un Darren Aronofosky (presidente di giuria) sensibilizzato e ispirato dal caso del regista iraniano. Taxi Teheran mostra il regista fingersi un tassista per le strade di Teheran con una telecamera fintamente nascosta al fine di creare un nuovo film nel suo paese. Il coraggio e la non-curanza hanno mosso la creazione di questo film a seguito della sentenza del 2010, da parte del governo Iraniano , di non poter scrivere, dirigere, produrre alcun film all’interno del paese per vent’anni. L’ incredibile ammonizione era stata emessa a seguito della partecipazione a movimenti di protesti avvenuti a maggio 2010 a favore dei diritti umani e del mondo del cinema e, successivamente all’arresto del regista. I film di Panahi sono sempre stati degli espliciti attacchi alle rigidità del proprio paese ; Offside e Il Cerchio hanno investigato sulla limitazione dei diritti delle donne, vincolate anche da regole religiose. Con quest’ultimo , il film stesso diventa una testimonianza dei vincoli del regista stesso, una sorta di capitolo meta-referenziale realizzato in prima persona. Taxi Teheran mette dunque in scena la società odierna in cui il regista vive, illuminando le contraddizioni e le ipocrisie del sistema. I vari passeggeri che, durante il film usufruiscono del servizio fittizio del regista, creano delle scenette e delle gag perfettamente metaforizzate e significati ; gli esempi che si dimostrano più agguerriti e diretti nei confronti della cesura e della manipolazione dell’informazione sono senza dubbio quelle relative all’educazione dei bambini (mostrata tramite la vivace nipotina del regista) , e quella del venditore abusivo di film esteri. Ogni dettaglio e ogni parola sono condensati in modo preciso e tagliente. Anche gli attori si mischiano sottilmente alla realtà che Panahi ricostruisce ; tutti partecipano perfettamente a collocare questo viaggio in taxi in una verità attuale più vicina che mai agli spettatori. Gli attori non creano personaggi con un proprio intreccio bensì riescono nell’intento di creare una rappresentazione collettiva della gente di Teheran , alle quali il regista vuole fortemente comunicare precisi messaggi. Panahi ci tende la mano per fornirci ,in prima istanza, un onesto messaggio d’amore per il suo paese e per il cinema ; secondariamente egli dimostra come l’informazione e l’arte cinematografica non possono essere controllate e messe a bando, soprattutto perché le limitazioni rafforzano le convinzioni dei fautori d’arte visiva. Un film coraggioso, importante e intelligente per la capacità di creare “arte sociale”.
Id: 1563 Data: 22/10/2015 19:34:09
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- Cinema
Sugar Blues : lo zucchero puō uccidere, il cinema no
Quello che mangiamo non lo conosciamo ma probabilmente ciò che mangiamo conosce noi o meglio, il nostro sistema immunitario. Ignoriamo anche l’effettiva quantità di glucosio che il cibo trattato contiene ; questo cibo è il medesimo che ,inconsciamente o no, finisce sulle nostre tavole per essere preparato e servito. William Dufty nel 1975 pubblica “Sugar Blues”, libro scientifico-divulgativo divenuto poi best seller mondiale. In tale scritto Dufty attacca la negligenza delle istituzioni riguardo al trattamento di saccarosio delle industrie alimentari americane. Dov’è finito lo “Sugar Blues” dagl’anni ’70 ad oggi? Questa è la domanda che Andrea Culkovà, (regista e visual artist originaria della Repubblica Ceca) cerca di far risuonare con il suo documentario, omonimo dell’ormai dimenticato libro di Dufty. Sugar Blues mostra una storia comune, come potrebbe essere per chiunque, in cui la regista Ceca si affida alla vita personale per rafforzare il concetto di problema socialmente comune. La vita di Andrea cambia quando le viene diagnosticata un diabete gestazionale durante la sua gravidanza ; l’evitare ogni possibile zucchero diviene una necessità ma al contempo una difficoltà immensa : questo è la tesi dello Sugar Blues di Andrea Culkovà. La regista consulta numerosi esperti tra scienziati, dietologi e dottori generici e giunge alla conclusione che sul mercato alimentare i cibi vengano trattati chimicamente acquisendo una particolare quantità di glucosio. Le multinazionali per la “trattazione” del cibo sono un grosso potere lobbistico che ha portato la regista negli USA, poi in Germania (nel gelido regno di Haribo) fino alla parte meridionale del Sudan. Proprio in quest’ultima locazione la regista ha messo in luce il tentativo di innestare anche in popolazioni del terzo mondo lo zucchero con apparenti ed innocenti merendine ; il circolo vizioso economico che produce assuefazione. Lo studio che effettua Andrea tende a scardinare la visione quotidiana alimentare di tutti, senza fare distinzioni e , per riuscirci, la regista giunge al tentativo che ritiene più efficace : l’informazione. Il film ,infatti, non tende mai a forzare il cambiamento delle abitudini alimentari in modo drastico ; tuttavia, lo studio condotto durante lo svolgimento mette in luce che la società ,con gli attuali trattamenti di cibo , è prediabetica. Sugar Blues è lo strumento più diretto e funzionale per la campagna a nome “Sugar can Kill” , uno slogan secco che risuona dunque fondamentale in un discorso che la regista ci porta all’attenzione . Il film , spiega successivamente , è indirizzato a tutti che vogliano comprendere e , usando le parole della regista “a persone che siano aperte mentalmente e che vogliano cambiare la propria vita”. La campagna è proseguita anche nel nostro paese ; il film è stato presentato in anteprima italiana al Festival del Cinema Africano, d’Asia e America Latina a Milano nel 2014. Ha seguito anche una presenza al Biografilm Festival 2015 di Bologna. In entrambi gli eventi Andrea si è dimostrata impegnata e determinata , offrendo –nel caso milanese- perfino dei workshop di cucina priva di ogni forma di zucchero. La forza di questo documentario risiede proprio nel fare il documentario stesso uno strumento per tutto l’intero eco-sistema all’interno di Sugar Blues. Il coinvolgimento , le discussioni , le attività promozionali , le foto, gli articoli fanno parte dello Sugar Blues, proseguendo là dove la regista vuole continuare : le persone.
Id: 1562 Data: 22/10/2015 19:16:06
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- Cinema
Nessuno Siamo Perfetti : la vita di Tiziano Sclavi
Nell’ estate del 2001 avevo undici anni e mi trovavo ,durante le vacanze ,in una casetta di campagna piuttosto diversa dal solito ;vi era una strada strettissima per giungervi ma il retro poteva contare un grande campo di ulivi che si distendeva sino al combaciare di altri terreni di diverse proprietà ,e fino a dove occhio poteva osservare. In quella casa la notte diveniva sempre bellissima e inquietante ,ed io rimanevo da solo fino a tardi a ritrovarmi nella mia ansiosa insonnia ,resa più amabile e terribile da un fumetto che iniziai a leggere proprio quella stessa estate .Sapevo cos’era ,tuttavia non l’avevo mai letto prima di quelle notti oscure ;un unico sentimento di empatia provavano quelle storie a fumetti per me .Circa quattordici anni dopo, mentre ero in una sala durante un festival di cinema ho guardato un film che mi ha fatto tornare le sensazioni di quell’estate ;un ritratto biografico dell’autore di quel fumetto ,raccontato in tutte le sfaccettature possibili .Avvertii una sensazione di deja-vù nei confronti della vita dell’autore ,poiché stavo ritrovando e riprovando quella paura e quelle storie a fumetti come mai prima d’ora. Nessuno Siamo Perfetti, il film che ho visto in quella sala, è uscito il 18 Giugno 2015 prima di essere presentato in anteprima a numerosi festival. Giancarlo Soldi, regista visionario e determinato, non è nuovo al ritratto di autori fumettistici quali “Come Tex nessuno mai” dedicato al mondo di Tex e di Sergio Bonelli. In questo equilibrato racconto il regista ha portato un inedito Tiziano Sclavi – scrittore ed autore del fumetto Dylan Dog - a parlare della sua vita ed il suo lavoro in un racconto ben orchestrato, che restituisce la figura dello scrittore in tutte le fasi più importanti della sua vita. In una Milano colma di spettri e balene Magritteiane (non a caso potrei aggiungere l’aggettivo “Golcondoiesche”) ,Nessuno Siamo Perfetti riesce infatti a creare l’atmosfera adatta che permette allo scrittore di raccontare delle proprie fobie e paure che fin da bambino hanno caratterizzato la vita di Sclavi. I ricordi e gli episodi personali della privatissima vita di Sclavi proseguono paralleli alle varie testimonianze dei colleghi ed ex-colleghi della Sergio Bonelli Editore ,in una legittimazione oggettiva dei momenti descritti dal regista. Il film si attesta influentemente come la confessione dello scrittore nel sottoporsi ad un’ incredibile mole di lavoro durante il periodo più prolifico (arrivando a scrivere fino a quindici storie contemporaneamente) e sofferto della sua vita ,fino ad una drammatica perdita di sé. La sfida di smettere di scrivere è l’episodio più importante per Sclavi che porta lo scrittore all’isolamento totale da tutti e tutto. Soldi riesce così a rendere una più ragionevole consapevolezza ai numerosissimi fan che mai si erano capacitati della decisione di non scrivere più, lasciando una sorta di messaggio finale per il pubblico da parte dell’autore di Dylan Dog. Si percepisce quindi il tentativo di sublimare le proprie sofferenze con la scrittura in modo ossessivo e appassionato - confessando anche la propria incapacità di sottrarsi all’alcolismo – sfociati in anni di incredibili connubi artistici degli autori più amati dell’artista quali Neil Simon e Edgar Allan Poe. Soldi cerca di analizzare lo Sclavi scrittore, nella sua più privata e nascosta natura ma giungono inevitabilmente le testimonianze relative al fenomeno Dylan Dog. Nella contemporaneità di oggi ,in cui il fumetto italiano sta assumendo una valenza culturale sempre più riconosciuta ,Soldi ricalca le origini del personaggio che l’ha rinnovato radicalmente dal 1986 ad oggi ;dalle iniziali ventimila copie vendute al mese si passò in brevi anni al mezzo milione, mentre critici e intellettuali ne lodavano le storie (come ad esempio Umberto Eco) .Dylan Dog è senz’altro il personaggio più importante di Sclavi, che viene qui presentato quasi come un mistico fratello dello stesso autore ,dal quale trascendono le più profonde repulsioni/attrazioni con il mondo dell’incubo e dell’horror. Sono due le interviste che il regista ci fornisce ,una più recente e l’altra meno ,che fanno capo ad un progetto concettualmente ideato da quindici anni .L’amicizia di Soldi diviene strumento fondamentale per la realizzazione e il racconto della vita del papà di Dylan Dog, seppur non manchino le testimonianze di personaggi culturalmente influenti quali Dario Argento ,Sergio Castellitto e il successore dello stesso Sclavi ,Roberto Recchioni. Con una fotografia lugubre e incantevole (Luca Bigazzi) e una musica evocatrice (Ezio Bosso) ,Giancarlo Soldi riesce a creare un prezioso resoconto del personaggio Sclavi anche per i non assidui lettori di Dylan Dog ,facendo comprendere la vita ,le ragioni e le origini del grande scrittore come nessuno aveva fin’ ora mostrato .La vita stessa di Sclavi diviene ,con Nessuno Siamo Perfetti ,una descrizione unica che richiama alcuni precisi modelli – come quello dello scrittore e il suo non-mondo composto da scrittura , whisky e isolamento – in modo calzante e coeso con le testimonianze raccolte.
Id: 1561 Data: 22/10/2015 19:13:20
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- Cinema
Il documentario tra poesia e impegno storico:Patricio Guzmān
L’uomo e le sue atrocità : le dittature politiche sono state una delle principali cause di vittime lungo l’arco dei secoli in tutti i paesi del mondo. Il secolo novecento è spesso indicato come apice di brutali massacri quotidiani, in cui le grandi guerre mondiali sono state percepite , nella loro distruzione di massa anche dalla parte civile della popolazione, come i principali atti da “non dimenticare”. Malgrado i principali storici e documentaristi si concentrino sulle guerre mondiali, lievitano sempre alcuni registi impegnati con determinazione sugli abomini politici e dittatoriali che hanno causato indicibili danni alle popolazioni dei paesi occidentalizzati. Amo definire questi registi “fiaccole luminose nel buio della dimenticanza”. Una di queste fiaccole è per me divenuta uno spunto di ispirazione e di riflessione : ricordare la storia perchè venga metabolizzata è sempre un atto coraggioso, a volte accolto negativamente,e altre addirittura ostruito. Patricio Guzmàn è un regista documentarista cileno da considerarsi anche uno storico, oltre che un poeta e il mio spunto. Ho potuto conoscerlo di persona , parlare con lui dell’arte documentaria cinematografica. Del suo incredibile cinema ho potuto visionare “Nostalgia de la luz” e “El botòn de nacàr” , con cui quest’ultimo egli ha conquistato il Biografilm Festival 2015 di Bologna per il suo raffinatissimo racconto delle vittime del regime dittatoriale di Pinochet. Il ricordo di questi atti indicibili, mi ha spiegato il regista, è in qualche modo “contenuto”. I giovani cileni , soprattutto, non hanno in patria un riferimento mediale valido se non i film dello stesso regista. Egli vuole tenere vivo questo ricordo, esattamente come è successo per la shoah ; nel caso degli ebrei non si può neanche numerare l’infinito numero di testimonianze di ogni genere. “Perchè” – chiede Guzmàn- “anche in Cile non può essere ricordata questa strage? Di quegli anni terribili e delle vittime di cui il mondo non ha potuto prendere coscienza?” Una domanda che mi ha ghiacciato e poi commosso. “El botòn de nacàr” , sul quale voglio focalizzare l’attenzione , si addentra in una narrazione che pone toccanti racconti di alcuni testimoni , parallellamente ad alcuni quesiti più squisitamente esistenzialisti sul genere umano. Il documentario , secondo capitolo di una trilogia mistica iniziata con “Nostalghia de la luz” , ha tracciato un parallelismo tra le migliaia di persone scomparse, gettate in mare durante la dittatura di Pinochet e lo sterminio di sei etnie residenti nella terra nei pressi dello stretto di Magellano nel sud del Cile, dal XIX secolo. Il film è il primo progetto del documentarista che ha finalmente potuto godere di sovvenzioni e fondi da parte del governo Cileno. Guzmàn parte dall’oceano e dal mare come memoria collettiva per raccontare lo scempio delle vittime della dittatura e dei “corpi buttati a mare”. Il documentario si pone poeticamente e allegoricamente come riscoperta di una coscienza, mai così tanto rumorosa come le onde di un oceano di storia dell’uomo. “El botòn de nacar” è anche la ricerca di un popolo usurpato e destinato a finire, la cui cultura ancora vive nei discendenti e nelle culture linguistiche dei Kawesqar e degli Yagan. La possibilità di sfruttare più di due miglia di costa marina a fini commerciali è una delle domande che pone il film, e che solo la storia coloniale del Cile può spiegare. Guzmàn intervista diversi discendenti dei Selk’nam , e racconta del loro retaggio servendosi di alcune incredibili foto di inizio ventesimo secolo. L’analisi di El botòn de nacàr pone l’uomo ad una durissima sentenza , incapace di trovare alibi. Così come le antiche tribù pre-cilene videro la loro fine con la forzata civilizzazione , – in cui Guzmàn sfrutta l’aneddoto di Jemmy Button- è innegabile come il racconto del Cile anti-rivoluzionario di Pinochet abbia ripetuto la propria storia. El botòn de nacàr si presenta come poetica riflessione sull’umana coscienza, divenendo un portavoce della storia non solo del Cile, ma dell’umanità stessa. La storia del paese sud americano infatti, fornisce un effetto a specchio sulle coscienze passate delle varie civiltà , e delle relative atrocità consumate (specialmente per le colonizzazioni). Un importantissimo tentativo di tenere viva una memoria , e applicarla alla contemporaneità sciagurata di oggi , senza entrare nell’atmosfera di pesantezza che la storia conferisce. Il mare, posto precedentemente come ipotetico contenitore collettivo di ricordi, in realtà è un lavabo che scioglie ogni avvenimento nel suo infinito neropece. Solo le tracce – come il bottone luccicante è dunque l’urlo silenzioso che questo grande regista si propone di far risuonare. *Ho voluto far risuonare questo nome -“El botòn de nacàr”- più volte, noncurante delle ripetizioni per il rispetto che provo per il regista ed il suo linguaggio cinematografico, da me adattato per la scrittura di questo articolo.
Id: 1560 Data: 22/10/2015 19:07:00
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- Cinema
Considerazioni su Terminator Genisys
Per l’occasione ho voluto rivedere i quattro film della saga, analizzare a caldo i paradossi temporali e valutare la collocazione di questo nuovo Terminator all’interno della saga. Sono passati trentuno anni da quando James Cameron, nel 1984, creò l’universo di Terminator con il primo film del franchise. Nonostante l’enorme successo e la conferma del film a cult indiscusso, negli anni a seguire la saga non è mai riuscita a riottenere il clamore dell’originale, perdendone sempre più in un climax discendente di seguiti dal dubbio gusto di critica e pubblico. Terminator Genysis si ripropone come secondo rilancio del franchise (dopo l’odiato Salvation) , con il suo tentativo di accattivarsi ,in modo piacione ed essenziale , i fan di vecchia data. L’effetto nostalgico, però , non riesce ad elevare Genysis a degno erede dei primi film Cameroniani che vede una cristallizzazione dei primi fasti della serie. Questi richiami - talvolta maniacali nel ricostruire le inquadrature dei film di Cameron – sono uno spunto positivo ; rilettura contemporanea di quelle immagini che sono diventate storiche per il franchise. Spunti, però , che non germogliano in uno sviluppo avvincente, né tantomeno in scelte narrative minimamente colte da coerenza. Volendo soprassedere ai consueti paradossi temporali che da sempre convergono con il fascino delle vicende del futuro e del presente, non si possono denotare questi spostamenti nel tempo che giungono al punto di disorientare lo spettatore. Nei primi venti minuti la trama riprende i fatti del futuro di John Connor (Jason Clarke), della guerra delle macchine ormai giunta al termine, e di come queste ultime per assicurarsi la sopravvivenza mandino indietro nel tempo un Terminator per evitare la nascita del leader della resistenza , con il consueto e analogo invio nel passato di Kyle Reese (Jai Courtney) ; il primo episodio viene dunque “utilizzato” come punto di partenza per Genisys per costruire un nuovo continuum-spazio (anche se nessuno sa come e perché). Il 1984 costruito da Alan Taylor vede una Sarah Connor (Emilia Clarke) già pronta e armata fino ai denti, sostenuta da un T-800 (Arnold Schwarzenegger) mandato indietro nel 1973 per difenderla da un altro Terminator. Kyle Reese si ritrova in una situazione estranea, confusa, che riscrive l’intera saga cancellando virtualmente i contenuti degli ultimi tre film. Un vero e proprio retcon. La storia viene nuovamente mutata quando Kyle e Sarah vengono inviati nel 2017 , per evitare il giorno del giudizio “alternativo” , ad opera di Genysis , nome in codice di Skynet. Ricordi di un passato mai vissuto (da parte di Kyle) ; la trasmutazione di John Connor (avvenuta in modo misterioso e senza alcun senso temporale) ; i personaggi ombrosi (che si suppone verranno rivelati nei sequel) che spediscono il T-800 nel 1973 : molti sono gli elementi che vengono amalgamati e dati per scontati ma per nulla spiegati, come elementi superflui al corretto svolgimento della narrazione. In definitiva il film di Taylor rimane completamente irrisolto : un’orchestrazione degna per una colonna portante mancante dell’intero film. Quel che colpisce è la perdita di tragicità che aveva accompagnato gli altri capitoli, non si percepisce quella disperazione dei primi film – in particolare del secondo- che accompagnavano magistralmente lo spettatore in una sensazione di perenne tensione ; in questo film tutto questo è messo da parte a scapito di un’eccessiva e forzata autoreferenzialità e citazionismo che sfiora la parodia, condito da gag comiche di dubbio gusto. Anche il cast viene percepito come mal-assortimento , su cui in primis colpisce la nuova Sarah Connor. La Clarke si presenta come ragazza troppo formosa , complice di battute e sketch che non hanno nulla a che vedere con il saldo e rude personaggio creato da Linda Hamilton ne “Il giorno del giudizio” del 1991. Jason Clarke nel ruolo di John Connor spicca assolutamente tra i più credibili , rispetto a quelli proposti fin’ora nei vari film anche se ,tuttavia , non lascia una traccia gloriosa nella determinazione del personaggio, (SPOILER) - complice anche la sciagurata scelta narrativa di tramutare il tanto acclamato messia in macchina a servizio delle macchine. Jai Courtney si presenta come un Kyle Reese un po’ palestrato , quasi come potesse essere lui stesso un T-800, e a parte questo, l’attore esegue il compitino senza particolari sterzate drammatiche per il personaggio. Schwarzenegger è uno degli elementi nostalgici, su quale è impossibile giudicare la prova attoriale che in questo caso trascende vista l’importanza della presenza dell’originario T-800. Il sorriso sforzato, a cui ci abitua durante la visione del film, risalta metaforicamente come coscienza di un capitolo realizzato con molte speranze (quella di fare cassa) tramite il confezionamento di un “normale” film d’azione ricco di elementi autocitativi . Non è possibile trovare in Terminator Genisys un capitolo della saga che rinnovi la passione dei film di Cameron, né delle innovazioni narrative convincenti, che più che accostare nuovi fan sembra definitivamente allontanarli. Una saga ormai “vecchia ma non obsoleta”!
Id: 1512 Data: 20/07/2015 19:43:04
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Picnic with Weissman - Considerazioni
Il cortometraggio Picnic with Weissman mette in luce il binomio tra uomo e oggetto, illustrando come quest'ultimo influenzi l'altro : Swankmajer svolge un uso preciso di oggetti animati per denunciare una metamorfosi che permette all'oggetto di diventare uomo e l'uomo di diventare oggetto. Gli strumenti utilizzati, portavoce dei primi consumi di unamassa medio-borghese, sono scelti per sottolineare il materliasimo a cui l'uomo ormai si è avviato. Lo stop-motion , usato precisamente e coerentemente , rende netti e concisi i passaggi di questa metamorfosi. Interessante la scelta di concedere effetti sonori rigorosi per determinate scene al fine di sottolineare il significato (come ad esempio la scena dello scavo) dell'immobilità etica e morale imposta dall'unione sovietica negli anni '60. Swankmajer inscena un cinema del silenzio quanto mai parlante, dove perfino un surrealismo che rende oggetti autonomi di movimento non allontana la protesta silenziosa del regista.
Id: 1367 Data: 10/03/2015 19:28:42
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Arancia Meccanica - Considerazioni
Reco due importanti premesse : - Non argomenterò in modo alcuno la colonna sonora , seppure piena di significati , poiché sono (proprio come Alex) un fanatico di Beethoven e Rossini, e dunque sarebbe difficile non essere di parte. - Non discuterò della trama( è l’adattamento di un romanzo) , né degli aspetti tecnici (per discutere la regia di Kubrick si dovrebbe analizzare scena per scena ogni inquadratura per non fare un lavoro sciatto). La cultura visuale di oggi ,satura di immagini che mostrano tutto , ha permesso lo sbandieramento e la diffusione, quasi trent’anni dopo l’uscita, di Arancia Meccanica. Il film più controverso di Stanley Kubrick fu infatti ritirato dalle sale dopo le prime proiezioni recanti un enorme successo nonostante la sconvolta opinione della critica e del pubblico . Nel 1971 , all’epoca dell’uscita del film, nessun regista (tranne Kubrick) avrebbe potuto concepire l’idea di concedere, alla visione indifesa del pubblico , la trasposizione cinematografica del romanzo di Anthony Burgess. Kubrick non permette allo spettatore di sospirare mentre l’ identificazione con il personaggio principale si insidia sempre più in uno spettatore da prima disgustato, e poi sempre più curato del suo triste destino. Colui che appare nella prima scena è Alexander De Large (Malcom McDowell) , il capo di una banda di teppisti giunti al momento precedente della loro transizione a criminali. Perchè non si parla subito di criminali? Alex e i suoi “drughi” sono dei ragazzi non ancora adulti che lo stato – vera e propria entità personificata nel film- non può più limitarli tramite i provvedimenti riformatori o delle convezioni correzionali. Il regista dunque, ambienta questa mostra di eventi in un futuro prossimo dove i giovani sono i primari carnefici e vittime. La maggior parte delle scene di Arancia Meccanica si svolge in interni maniacali (curati manieristicamente da Kubrick) sempre stretti, recanti poco spazio , e quasi claustrofobici. Un’ oppressione di pareti piastrellate da precise figure geometriche (come nel caso del bagno della dimora del protagonista) inquadrate ossessivamente. Questo feticismo per queste fredde delineature d’interni divengono metaforicamente i contorni che depersonalizzano la società mostrata in Arancia Meccanica , prendendo i genitori di Alex come esempio : così assenti ed alienati , appaiono come dei manichini dalle grottesche forme , ossequienti a delle regole che li regredisce quasi ad una continuazione dell’arredamento. Alex sembra voler subconsciamente ribellarsi a questa forzata razionalità quadrata condita dallo squallore medio-borghese che lo circonda ma viene "castrato" mentalmente (Kubrick sembra suggerire una domanda provocatorio e riflessiva : meglio un criminale ribelle o un individuo assoggettato ed alienato?) Il regista denuncia ulteriormente il nucleo familiare, composto da genitori assenti e ingenui che non conoscono alcun dettaglio del proprio figlio, vedendo solo un’apparenza : quest’ ultima è un vero diktat consequenziale del consumismo “novello” e imperante di quegli anni. L’accostamento uomo-oggetto non è sicuramente casuale per Kubrick, se consideriamo nuovamente la scena iniziale che ci presenta i protagonisti. Il Korova , più che un bar , sembra una vetrina piena di uomini-manichini tutti eguali , senza cenni di vita , immortalati nelle loro statuarie assenze. A tal proposito, un appunto sulla rappresentazione delle donne di Arancia Meccanica è doveroso. Le figure femminili del film sono superficialmente masse senza personalità, o volontà. Rappresentate sempre bizzarramente, con parrucche colorate e sorrisi esasperati , come fossero delle bambole nulla-pensanti in alcuni casi (la madre di Alex , la psicologa ipocrita all’ospedale , le due ragazze rimorchiate nel negozio di dischi, come se fossero loro stesse merce in vendita e a “richiesta”…ecc.) ; e in altri mostrate provocatoriamente deboli e quasi consenzienti delle brutalità a cui sono sottoposte : l’esempio che mi ha fatto ragionare di più su questo , dopo aver rivisto la scena più volta, si svolge nella parte iniziale del film. Alex e i suoi giungono nella casa del giornalista [ricordate tale personaggio perché ci tornerò più avanti] in campagna per esercitare “l’ amata ultra-violenza” , stuprando la moglie dell’ uomo. Le azioni della donna, offrono l’impressione di una debole e incosciente non-resistenza alle violenze che sta per subire. Una donna dunque resa oggetto o debole, è quella che compare nella negativa società Kubrickiana. Il tema strutturale del film - la violenza – giunge ai risvolti di ogni organo della società : politica , etica , economia , giustizia e, come già detto, la famiglia (intesa come nucleo societario). Il provocatorio atteggiamento che il primo ministro assume nei confronti del protagonista , dimostrando falsa-amicizia allo scopo di ottenere consensi politici e dunque il potere. La cura “ludovico” a cui viene sottoposto Alex , amorale e anti-democratica che lo rende una caricatura di se stesso ; il regista sembra volerci dire metaforicamente ,nonostante sia riferita ai criminali , che il governo vorrebbe "curare" più individui possibili. I cenni relativi all’ economia sono delle punte di spillo, come il degrado della zona pseudo proletaria in cui vive Alex (più assomigliante ad un ghetto che un quartiere) , o i cenni continui del primo ministro sul dover abbassare i costi di gestione dei detenuti (ancora una volta mercificando gli uomini). Anche la giustizia viene descritta come istituzione ipocrita e corrotta ; una giustizia che non si attiva mai e si limita a sostituirsi ad Alex come carnefice. I vecchi compagni del protagonista, verso la fine del film in veste di poliziotti (quale modo migliore per sfogare la loro violenza?)che abusano del loro potere per regolare i conti, sono contraddittori almeno quanto l’ispettore giudiziario, curatore dell’educazione di Alex , a cui poi sputa (letteralmente) in faccia . L’unica istituzione che sembra salvarsi sembra apparentemente la religione – rappresentata dal cappellano (in cui Kubrick si identifica) della prigione – che rimane sostenitrice del libero arbitrio e della scelta. Ma qual è il fondamentale messaggio di Arancia Meccanica ? Dopo aver definito una società così marcescente, in cui il male degli individui è solo rimandato ad un ciclo destinato a ripetersi come un orologio (ricordando il titolo originale Clockwork Orange) , Kubrick argomenta un massimo sistema che si sopraeleva a quello della società : la violenza (naturalistica se vogliamo) dell’uomo. Per il regista la violenza si pone alla base degli uomini, e di conseguenza della società, in un sistema macroscopicamente corrotto dove l’azione legalitaria stenta a mettersi in moto e dove i criminali , per il giusto profitto possono anche essere graziati (Alex alla fine del film riceve tutta l’amicizia del ministro ,un lavoro e una paga sicura in cambio di consenso politico). Tutti gli oppositori di questo sistema vengono calpestati (la figura dello scrittore, come detto in precedenza, che rappresenta l’opposizione democratica e pacifica , o lo stesso Alex prima carnefice poi vittima). L’ uomo è per natura violento e questo sistema legittima tale violenza , ci dice gravemente Kubrick . Tornando alla figura del cappellano si può considerare che l'unica possibilità di non-violenza sia la scelta arbitraria (seppur questa venga negata). Arancia Meccanica è un film che medita l'essenza dell'uomo , del suo creato (la società) e fornisce delle immagini estremamente violente e disarmanti . Un'amara e corretta previsione di come il mondo sarebbe cambiato (o forse già lo era?) dopo il 1971. A parere mio al regista britannico si deve questo enorme merito di previsione, oltre alla scelta coraggiosa e giusta di spiegare la violenta natura dell'uomo con la violenza stessa.
Id: 1363 Data: 08/03/2015 21:12:57
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- Cinema
M. Butterfly - Considerazioni
M. Butterfly è un film atipico per Cronenberg, attraverso il quale il regista descrive l'eterno confronto tra occidente ed oriente, che sfocerà poi nel binomio uomo-donna. Ambientato in una Cina Maoista del 1964 , il film assume toni di diversi generi , dalla spy-story al melodramma. Renè Gallimard (Jeremy Irons) è un funzionario dell'ambasciata francese in Cina (simboleggiante l'invasione culturale occidentale) che finirà per innamorarsi di un soprano cinese dopo aver assistito appasionatamente ad una rappresentazione di Madama Butterfly del maestro Puccini. Il confronto tra i due è reso da continui incontri sessuali che faranno nascere tra i due un amore incondizionato. Cronemberg rimane coerente al suo concetto di metamorfosi che giunge in questo film alla scena finale : dopo aver scoperto che la sua amata non esiste (era un uomo travestito al soldo del servizio segreto cinese) , il protagonista muta in quell'idea che aveva amato, la sua madama butterfly. Il film si sviluppa e si conclude con toni drammatici ben calcolati grazie alle scelte registiche classiche di Cronemberg - il continuo campo/contro campo tra i due protagonisti , ad esempio. Una metaforfosi che coinvolge un confronto culturale (tra occidente e oriente) che il regista sembra possa avvenire solo mediante una mutazione possibile solo teoricamente.
Id: 1362 Data: 08/03/2015 21:00:36
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- Cinema
Black Swan - Considerazioni
Come l'incanto , che solo la leggiadria di un Attitude o Assemblè può concedere agl'occhi ; come il ristagno , che durante una preparazione tende la mente e il fisico. Il Cigno Nero ci regala la storia di Nina Sayers (una "doppia" Natalie Portman da oscar) , ballerina di una compagnia di danza di New York. Nina si impegna profondamente nella danza, concedendo , grazie al suo perbenismo imposto (dovuto alla convivenza con una madre ultra-apprensiva) , i sacrifici che quest'arte richiede. Thomas Leroy (Vincent Cassel), direttore della compagnia, annuncia di voler cominciare la stagione con il Lago dei Cigni. Il consueto ciclo descrittivo degli elementi classici della danza - feticismo per i tutù , insegnanti esigenti che forzano i ballerini alla sbarra, i problemi di insicurezza - vengono in quest' opera a mancare. Nel film di Aronofosky infatti, i temi principali sono molteplici. Il cinismo della danza classica (qui portato a livelli estremi) è lo sfondo che illumina e procura tono all'altra tematica ; un dualismo che trova nel lago dei cigni (musicato da Pëtr Il'ič Čajkovskij e danzato da infiiniti interpreti) la più incalzante miscela di emozioni. Nina viene scelta come Odette, la prima ballerina, ma deve dimostrare di poter veramente interpretare anche il cigno nero Odile , gemella cattiva della protagonista. Leroy spronerà la protagonista spingendola ad arrendersi alle passioni attraverso alcune pulsioni sessuali. Qui risaltano (un po' alla rinfusa) diversi concetti Freudiani ; il regista trasmette il concetto che proprio attraverso la "liberazione sessuale" la protagonista potrà davvero essere perfetta per la parte (dove la perfezione non hai mai portato tanti sacrifici come qui). L'altra Nina si fa stra attraverso un altro personaggio, quello di Lily (una super sexy e disinibita Mila Kunis), la ballerina che rappresenta tutte le qualità del cigno nero. Nina finirà poi per ossessionarsi al ruolo , giungendo ad una pazzia allucinatoria. I toni molto dark (anche dal punto di vista dei colori , che sono molto cupi) rendono una visione struggente e deprimente del percorso della ballerina, la cui metamorfosi metaforizza alla perfezione il cambiamento psichico di Nina. Questa bi-personalità che la protagonista acquisisce può essere interpretata come il vivere della danza, di ogni singolo passo delle ballerine. Il cigno bianco rappresenta la vita tranne la danza, e il cigno nero è ciò che avviene quando si danza : si trascende in una nuova persona, un nuovo individuo, una nuova creatura perfino. La perfezione del ruolo richiede sempre un sacrificio ; Beth , ad esempio (una opaca e sciupata Winona Ryder) viene distrutta dal suo carattere autodistruttivo rispetto alla protagonista , che per la parte, si immola addirittura. Tecnicamente il film si è rivelato di buon spessore, sottolineando le scelte artistiche di trasformare la Portman letteralmente nel cigno nero con segnali forti, anche un po' rozzi ma che portano a termine il compito di stupire il pubblico con un giusto pizzico di orrido e macabro (autolesionismo della protagonista) unito ad una componente sensuale grazie alla bellezza della Portman, arrecano a tutta l'atmosfera del film il giusto colore per il giusto tema, il nero, ed il cigno che n'è intriso. Ri-complimenti alla Bi-Portman!
Id: 1361 Data: 08/03/2015 20:55:08
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Alice in Wonderland - Considerazioni
Alice in Wonderland si presenta come l'ennesimo tentativo , da parte di Burton , di raccontare ciò che il regista ama di più : le fiabe. Lo stile cupo e dark che contraddistingue i suoi film è giustamente quasi assente. I personaggi sono caraterizzati bene nei loro ruoli e non mancano di essere spregiudicati,ossessivi,volgari e spietati ; ed è proprio in questo punto che si vedono gli ingredienti aggiuntivi di Burton che in alcune fasi del film sottolinea lo spirito critico dell'epoca vittoriana su cui si basa originariamente il libro. Gli attori sono pressochè perfetti nelle loro interpretazione calcolando le personalità dei personaggi che richiedeva la sceneggiatura.
Id: 1360 Data: 08/03/2015 19:37:01
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Harry Potter e i doni della morte Parte 2 - Considerazioni
Tutto finisce. Probabilmente è lo slogan di quest' ultima trasposizione cinematografica , a fare della fine del ciclo produttivo del maghetto creato da J.K Rowling , uno dei film più aspettati di questi ultimi anni. Spesso molte volte viene utilizzata la parola "epico". Harry Potter e i Doni della Morte si conclude in un finale precisamente epico in cui il pubblico (piccolo e grande) si gusta l'epilogo di un'incredibile sforzo produttivo cinematrografico durato 10 anni. La scelta di aver diviso l'ultimo capitolo in due film si riconferma geniale ; sia per motivi puramente economici (box office impazzito per entrambi i film) , sia per spiegare meglio e rendere coesivi gli elementi di tutta la narrativa dei precedenti film della saga. Harry Potter arriva al culmine della sua via ed è innegabile per i fan più romantici (come me) notare la crescita di un personaggio che ci ha gustato l'immaginario per un decennio. Molti tra il pubblico dei giovani, uscendo dalle sale al termine del film verranno invasi dalla nostalgia dei ricordi che li riportano ad una fredda,dolce nottata d'inverno del 2001 dopo aver visto al cinema l'esordiente piccolo Harry nella Pietra filosofale. Probabilmente uno degli aspetti dei film di Harry Potter da me più apprezzati, era e sempre resterà l'estetica delle ambientazioni , gli sviluppi e gli intrecci della trama che in esse prendono vita. In ogni film di Harry Potter ci si impersona nel protagonista inevitabilmente (pieno di interrogativi e sempre impreparato all'imprevedibile avvenire) ; si rimane in modo vero e proprio accanto al protagonista immerso nella sua avventura aspettando un finale che non sempre offre le risposte che si aspettano. La saga è conclusa. Gli incassi fioriscono per quest'ultima magia diretta dall'inattacabile David Yates. I Doni della Morte 2 ha un comparto tecnico ottimo e esaustivo. Alcuni fan probabilmente arriccerrano il naso per la mancanza di dettagli importanti proveniente dai libri della Rowling come ad esempio il passato di Silente, su cui la scrittrice pulula per molte pagine. Ad eccezione di questo il film è uno dei più spettacolari dell'intera saga ed è giusto che sia così. Molte sequenze sono di grande spessore ( cito il combattimento tra Harry e Voldemort e la fuga dalla Gringott al galoppo del Drago) e più ci si avvicina al finale, più le scene sono emozionanti. La colonna sonora , perfettamente gestita da Alexandre Despat, risalta tutta la maestosità dei temi classici di John Williams. Daniel Radcliffe (Harry) non aggiunge molto alla sua già convincente prova del film precedente. Una nota positiva e in luce per Emma Watson (Hermione) che riesce a rendere le scene drammatiche più realistiche e convincenti. Ma è soprattuto Alan Rickman a stupire nel mostrarci un Piton diverso e non bi-valente. I Doni della Morte 2 è probabilmente, seppur implementato con la prima parte , il più coinvolgente e grandioso episodio della saga. Il lungo percorso di Harry e soci , le numerose avventure e lo scontro finale con Voldemort vengono perfettamente bilanciati e raccontati in questo film. L'addio ai fan è ben organizzato ed enfatizzato. L'ultima magia è compiuta. Molti considerano la fine della storia come MORTE delle avventure che hanno compiaciuto ed appassionato grandi e piccoli. Ma non si può non dare atto dell'eredità che i diversi film , ridistribuiti tramite edizioni speciali in dvd ci lasceranno il DONO di poter rivedere tutti gli episodi. La morte delle avventure di Harry Potter e il dono di poterle rivedere tutte. I Doni della morte.
Id: 1359 Data: 08/03/2015 19:29:14
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Harry Potter e i doni della morte Parte 1 - Considerazioni
Harry Potter e i doni della morte Parte 1 - Recensione L'aria Novembrile anti-natalizia è giunta accompagnata dal consueto appuntamento con il maghetto immaginario della scrittrice più famosa del mondo, J.K. Rowling. L'ultimo capitolo della saga di Harry e soci è stato diviso in due parti,decisione intrapresa sicuramente dalla solita Warner per raddoppiare i guadagni e avere un box-office esplosivo. Questa prima parte in realtà,non ha convinto molto ; se si contano i soliti effetti-speciali digitali "a sfondo verde" ben poco rimane di questo capitolo. Per poco più di due ore,si assiste ad una trama confusa,spezzettata e che mai esplode non riuscendo a coinvolgere il pubblico. Il tentativo del regista (Yates) di lasciare quasi ogni scena in sospeso, di mostrare dialoghi sconnessi,continui flashback da parte dei protagonisti è azzardato e poco efficace. Inoltre lo spessore recitativo dell'intero lungometraggio viene a perdere spessore inevitabilmente ; Gary Oldman e Michael Gambon (Sirius Black e Albus Silente) sono scomparsi dalle scene per la morte dei rispettivi personaggi) , Maggie Smith (Mc Granitt) purtroppo manca sui set perchè malata, l'infinita Helena Bonham Carter (Bellatrix Lastrange) , Alan Rickman (Piton) , Brendan Isaacs (Malocchio Moody) e tanti altri sono ridotti a piccole-relative comparse facendo incentrare sui tre protagonisti centrali quasi tutto l'intero copione. Emma Watson a parte (Hermione) , gli altri due protagonisti non intensificano mai le scene come il libro suggerirebbe e non riescono a dare spessore alla filo narrativo. Un altro errore quasi evidente è proprio quello di avere stravolto la struttura classica dei film di Harry Potter che tanto affascinavano il pubblico (l'inizio a hogwarts, l'introduzione dei nuovi personaggi di rilievo,lo sviluppo dell'intreccio e l'epilogo) con il risultato di disorientare in modo profondo i fan offrendo scene che convincono. Tuttavia si potrebbe sicuramente dire che lo schema solito dei film di HP non era possibile , da parte della direzione e sceneggiatura, riattuarla come di consueto poichè non sarebbe stato "narrativamente" giusto secondo gli scritti della Rowling. In complesso un film non bene prodotto quasi appositamente per allibire gli spettatori a nutrire un ghiotto interesse e una grande voglia di guardare quello che sarà la vera conclusione, l'eredità dei film di HP ; I Doni della Morte parte 2. Non ci rimane che sperare in una magia anti-delusione!
Id: 1358 Data: 08/03/2015 19:25:21
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Gruppo di famiglia in un interno - Considerazioni
Considerazioni su Gruppo di famiglia di un interno Tematiche : Politica – E’ innegabile che le varie discussioni che i protagonisti del film esercitano rappresentano un duro dibattito politico, dove da una parte abbiamo Konrad , giovane del proletariato e idealista di sinistra che, tra i vari sviluppi narrativi del film scopriamo anche tentare di sabotare un piano fascista di un ricco signore di destra (che si rivelerà poi il marito della contessa Brumonti), dall’altra abbiamo la famiglia (composta in questa fazione per lo più dalla contessa Brumonti e da Stefano) che rappresenta la nuova borghesia come classe emergente di quegli anni. Sociale – Viene rappresentato il disagio della completa impossibilità di una generazione anziana nei confronti di quella giovane, del cambiamento delle tendenze giovanili. Il professore, che in una battuta del film afferma ,con una veemenza non completamente convinta, davanti alla giovane Lietta tutto ciò che rappresenta la sua gioventù : lo studio, il viaggiare, lo sposarsi (in modo fallimentare). Il professore rimane inerme e senza aggiungere parole quando scopre poco prima i giovani nelle loro nuove e strane incertezze, nei modi e nell’incosapevolezza di ciò che è venuto prima di loro (affidando ad una scena di nudo questa descrizione).Anche il valore familiare è pesantemente intaccato ; la stessa famiglia del racconto è un dissacrare continuo dei valori familiari tradizionali (tra volgarità,incesto,immoralità etc.). Anche il semplice scambio di battute tra il Professore, uomo anziano di cultura e legato tradizionalmente a valori completamente diversi e la famiglia , carica di nevrosi familiare post-moderna si nota una enorme differenza : Il professore parla sempre in modo risoluto, calmo e paziente mentre i membri della famiglia sono l’opposto. Ambientazione : L’ambientazione del film , praticamente solo d’interni , rimanda ad un concetto di oggetto-corpo molto importante. Visconti decide di affidare la descrizione del personaggio del professore anche in modo massiccio all’ambientazione in cui egli si trova. Un enorme appartamento di diverse stanze con un soffitto solenne, piena zeppa di librerie , quadri e oggetti antichi. Tutto questo suggerisce la volontà di solitudine del protagonista ; solitudine cercata in seguito ad una vita amorosa fallimentare e dunque al completo estraneamento del mondo e della realtà. In una scena egli sembra parlare dei personaggi di un quadro come personaggi conosciuti, con cui aver avuto relazioni sociali. E’ molto significativa anche la sua riluttanza, in una delle prime scene, parlando con la contessa Brumonti, a cambiare la sua vecchia libreria per una nuova. Il rifiuto del nuovo, dell’atto di cambiare rappresenta una negazione di tornare alla vita e riprovare la sensazione di aver a che fare con uomini e non “con le loro opere” come lo stesso professore afferma.
Id: 1357 Data: 08/03/2015 19:21:11
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- Cinema
Million Dollar Baby - Considerazioni
"Sentimentalismo marcato, enfasi ed eroismo. Il ritorno del cinema classico americano." Così, forse, si potrebbe definire Million Dollar Baby. Clint Eastwood racconta una storia melodrammatica dai netti contorni senza lasciare spazio a imprecisioni o sbavature narrative. I temi trattati sono molto forti come la boxe (sport incentrato attorno all'arco narrativo del film) , la cui ferocia può appunto fare da contorno ai toni eastwoodiani che, dopo i Ponti di Madison County colpiscono lo spettatore senza esclusione di colpi. Maggie Fitzgerald (Hilary Swank) è una pugile determinata ad allenarsi per riscattare la sua vita, e quando giunge alla palestra di Frankie (Eastwood), un vecchio pugile abbandonato a se, la ragazza viene rifiutata. Solo l'intervento di Eddy (Morgan Freeman) concederà una chance alla giovane boxatrice. Eastwood crea aftmosfere crepuscolari, con decisi chiari-oscuri per contornare l'ambiguità morale dei vari personaggi . In Milion Dollar Baby la catarsi si manifesta con la visita quotidiana in chiesa di Frankie per 23 anni ; la disgregazione familiare dalla squallida e avida famiglia di Maggie . Tuttavia il finale del film è il vero bombardamento emotivo inflitto al pubblico : Maggie affronta il suo grande scontro, la sua grande prova e il definitivo riscatto di una vita ma crolla a causa di un colpo scorretto e diventa completamente paralizzata. Lo sviluppo dell'intreccio si muove dunque sull'eutanasia e di conseguenza sulla forza di una fede religiosa che non può che deragliare su un'incosciente irresponsabilità (molto esplicativa la battuta che Frankie rivolge al parroco della chiesa "...lei ha chiesto aiuto a me, non a dio"). Tramite un omaggio alla lingua irlandese, la rivelazione finale ci racconta che il padre della boxatrice , da lei perso , altri non è che Frankie stesso. Eastwood accentua all'estremo la tragicità della vita raccontandoci , tramite la protagonista , come il grande combattimento che l'ha ricongiunta a suo padre sia anche il loro nuovo termine di rapporto. Questo film, infine espone in modo egregio a mio parere il binomio vita/morte : un turbinio di indeterminatezze che il regista inscena con lo sgabello che rende Maggie paralitica. L'unica nota un po' eccessiva ,che rende ridondante l'intera sinfonia filmica è la morte della ragazza , un eccessivo atto drammatico che stona un presumibile finale aperto. Questo avrebbe forse reso omaggio all'unico elemento , volente o no da parte di Eastwood, che regola lo sviluppo dell'intreccio : il caso.
Id: 1356 Data: 08/03/2015 19:20:00
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- Cinema
Interstellar - Considerazioni
Cosa c’ è oltre? Una domanda incompleta, senza possibile responso concreto. Nolan si conferma un abilissimo visionario, un vero ricercatore di molteplici risposte a quella domanda così incommensurabilmente vasta. Interstellar , ultimo film del regista britannico è la risultante di quelle risposte : Nolan non si accontenta di rispondere ad uno solo dei massimi sistemi che chiama in causa ; con la sua ultima visione (questa volta gestita al 100% da lui) egli tenta di dare riscontro a più fondamentali nodi dell’esistenza. Dopo il viaggio nei sogni con Inception , Nolan pone un altro viaggio nell’indefinito (s)conosciuto : lo spazio e il tempo. E’ doveroso , al fine di eseguire un’analisi completa, suddividere il pezzo con vari approfondimenti : Analisi Extradiegetica Si sa del Nolan poco significante ed espressivo, a favor di tecnicismi e regole di buona direzione. Un Nolan definito gande “operaio tecnico”, capace di saper mantenersi freddamente corretto e ben distante da alcuni cineasti contemporanei vistosamente più manieristi. In tale proposito Interstellar si propone come un film Nolaniano, definito da una serie precisa di elementi che lo rendono tale . Pur non peccando di maniersimo, i primi piani di steady-cam in momenti di risoluzione emotiva dei personaggi sono ormai un marchio di fabbrica del regista. Tali riprese sono usate sempre senza riserve, per fluire l’intimo legame tra un padre ed un figlia nel momento più delicato ad esempio (tra la perdita di una madre e una grossa sensibilità infervorata da una brillante intelligenza nella bambina) ; la steady di Nolan è quella più tradizionalista, con tremolii involontari, che possono suggerire – sarò accusato di dietrologia- l’inquietudine di tali rapporti , così opportunamente inquadrati. Ma se l’accusa che potrebbe venirmi rivolta rimane lecita, non dovrebbe essere ugualmente lecito il non-notare come lo stesso Nolan utilizzi in altri primi piani una camera fissa o il carrello, escludendo dunque un’improbabile casualità. Rimane lecito presumere come nei primi piani il regista si compiaccia della steady per farci captare il rapporto tra Cooper (Matthew Mcconaughey) e Murphy (Mackenzie Foy bambina, Jessica Chastain adulta). Si potrebbe recriminare Nolan come manierista, dopo Interstellar, per l’attitudine al trasporre elementi filmici fondamentali che ricorrono come flashback enunciativi ,come ad esempio la prima stretta di mano che il dott. Brand (Anne Hathaway) pone a Cooper in veste di viaggiatore dimensionale. Altri elementi ricorrenti di Nolan, o meglio , dei montaggi dei film di Nolan , sono le risoluzioni degli intrecci narrativi , sempre sequenzialmente alternati. Anche il solito terzo del film che il regista dedica sempre nell’introduzione di dettagli (da poter poi stravolgere durante lo svolgimento) , può essere considerato un aspetto di manierismo. L’assenza di audio nelle scene dello spazio aperto , in relazione alla potenza degli organi della colonna sonora sono , a mio parere, un esemplare omaggio a Kubrick. Analisi diegetica Un futuro pre-apocalittico nè consueto nè remoto, quasi contemporaneo sono narrati in Interstellar ; il pianeta è colpito da una forma di carestia che mette a rischio la sopravvivenza dell’umanità(ricordiamo la volontà maniacale di Nolan nel volere realismo in quelle tempeste di sabbia). Subito c’è la contrapposizione al tema sempre imperante nei film contemporanei : la tecnologia , qui ultra presente seppur non colonna portante degli eventi. I robot che accompagnano Cooper sono una testimonianza di uno dei messaggi che Nolan vuole profetizzare : non è la tecnologia avanzata che segnerà il destino dell’umanità. Tuttavia nel finale il robot TARS si troverà ad essere l’effettivo salvatore dell’umanità, quando comunicherà a Cooper la sequenza che poi egli invierà alla figlia. Una sorta di negazione alla predestinazione che moltissimi bio-apocalypse hanno sempre elogiato. Ma quali sono i veri azzardi compiuti da Nolan in questo film ? La stroncatura da parte della comunità scientifica riguardo le teorie di fisica quantistica, astrologia e relatività sbandierate nel film sono probabilmente non mal riposte, vista la campagna di auto-legittimazione che ha conseguito il film. Tale stroncatura da parte di molti scienziati ha riguardato anche il coinvolgimento dell’amore come forza regolatrice nell’universo. L’ormai famosa scena in cui Anne Hathaway parla dell’amore come dato attendibile per proseguire la missione. E’ questo il vero azzardo interessante di Nolan ; questa la sua vera interpretazione. Il tentativo di sconvolgere quel retaggio culturale che vede l’amore come qualcosa di completamente soggettivo e privatizzato. La troppa semplicità però, in cui Nolan chiude il ragionamento spegne quella scintilla di geniale proposta e ipotesi , che alcuni hanno paragonato al finale metafisico di 2001 : Odissea nello Spazio dell’inarrivabile Kubrick. Scardinare tutta la conoscenza , fino ai limiti dello spazio e dell’esistenza , per giustificare l’amore come forza più attendibile è veramente tuffarsi , scusate la metafora , in un buco nero privo di soluzioni adeguate. Una tesi brillante , senza però l’antitesi agognata. Tuttavia Nolan ci consegna un messaggio : alla fine sono gli umani gli artefici del proprio destino , e questo risulta quanto mai magistrale nella contemporaneità di oggi.
Id: 1355 Data: 08/03/2015 19:16:54
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- Cinema
Rosemary s Baby - Considerazioni
Immensi grattacieli newyorkesi , una dolce litania acustica e un carattere (in rosa) dei titoli che ricorda quelli delle più classiche commedie : questi sono gli enigmatici (ma altrettanto simbolici) primi elementi che Roman Polanski "attiva" nello schermo ; questa è la prima scena di Rosemary’s Baby , uno dei primi classici che il nuovo americanismo cinematografico ha conosciuto a partire dalla fine degli anni ’70. Nel 1968 infatti, all’epoca dell’uscita del film, si chiudeva un periodo storico condito dalla mentalità hippie con le proprie sotto-culture , e che già durante gli anni ’60 tale periodo aveva già subito forti tensioni a causa di eventi storici. Rosemary’s Baby è un film che incarna i sentimenti di presa visione del nuovo popolo americano , disilluso e antipatico per quel concetto di “american way of life” uscente dagli anni ‘50(perfettamente riassunto nella foto storica di Margaret Bourke-White). Questa presa visione è dipinta da Polanski simbolicamente ,seppur ci siano elementi filmici di autentica e lecita ispirazione di fatti coerenti, come ad esempio l’utilizzo dell'esistente Dakota Building come location principale del film. Una location sicuramente non casuale per Polanski ; ma perché New York e perché il Dakota Building ? Essi rappresentano il simbolo di una società aristocratica ben radicata, ed ormai assoggettata (ed assoggettante) ad un imponente consumismo materialistico. Le alte classi sociali rappresentate nel film , e poi mostrate in modo monumentale nella scena finale del film fanno appello alla presa di visione dal popolo che lo società segrete ed occulte, tramandate negli anni e istituite alle più alte cariche sociali sono realmente esistenti. Gli anni ’60 sono stati sconvolgenti per la storia americana ; basti pensare agli omicidi politici concatenati e svoltisi in circostanze macroscopicamente inquietanti , come John Kennedy a Dallas nel 1963 , suo fratello Robert a Los Angeles e Martin Luther King a Menphis nel 1968… Polanski accuratamente descrive semplici e credibili i protagonisti nelle loro vite comuni ,e rende impossibile non identificarsi con la protagonista per poi inebriare lo spettatore di puro terrore. L’uso e l’identificazione così accesa in Rosemary fanno meditare il pubblico ; ciò che succede a Mia Farrow nel film potrebbe succedere a chiunque. Il male, interpretato dai due inquietanti vicini Castevet , e poi simboleggiato nella setta che essi rappresentano , può arrivare a tutti con poteri incontrastati. Probabilmente è questa una delle caratteristiche che ha reso grande Rosemary’s Baby : la capacità di terrorizzare lo spettatore con una psicologia dietrologica del film ; dubitare di chi è gentile e premuroso (come i Castevet) , o di persone che sensibilmente sono incluse nella nostra sfera affettiva (come i dottori che si occupano del travaglio di Rosemary, o il marito stesso ). La “violazione intima” è poi metaforicamente rappresentata nella scena del concepimento del figlio di Rosemary. Polanski inquadra tutti gli appartenenti alla setta : ogni istituzione rappresentata con le alte cariche dei personaggi (avvocati, medici , politici …) rappresentante la società occulta , permette lo “stupro” delle libertà e delle libere scelte , concedendo poi un “travaglio” anti-democratico. Anche le provocatorie allusioni all’istituzione religiosa (con la messa in scena del pontefice e della cappella Sistina) trovano un fondamento nella crescente e spaventata nuova “popolazione cosciente”. Metafora neanche troppo velata, visto che la protagonista viene violentata veramente, sotto droga, da satana. Il personaggio di Rosemary sembra essere l’unico personaggio che fino all’ultimo si oppone vanamente ; anche il marito diviene simbolo di paurosa e consenziente corruzione (decide di lasciare alla setta il destino del figlio della moglie). Tutta l’atmosfera del film si regge su una magistrale e ben orchestrata tensione psicologica di ciò che potrebbe succedere, e che lascia sospeso lo spettatore tra la volontà di giungere allo sviluppo dell’intreccio e la paura scaturita dalle immagini che questo potrebbe causare. Impossibile non accentuare l’abilità degli attori , in particolare su Mia Farrow (indimenticabile il suo sguardo quando scorge il figlio demoniaco nella culla) e su Ruth Gordon, interpretante, bipolarmente magistrale, la malefica vicina Minnie Castevet. Polanski con maestria indubbia crea un genere nel genere ; quello che si presenta come horror diviene in realtà uno psico-dramma attualissimo , capace di incarnare i sentimenti di un’ America nuova. Rosemary ‘ S Baby diviene dunque il portavoce (o meglio porta-sentimenti) di quella nuova America cosciente e di conseguenza impaurita. Non credo sia un’esagerazione affermare che il film di Polanski, uno dei classici assoluti della storia del cinema ha cambiato quest’ultimo in modo influente.
Id: 1354 Data: 08/03/2015 19:14:43
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- Arte
Ottava arte, sbilanciandomi
Gli artisti che più stimo sono coloro che , grazie alle loro virtù e i loro talenti , non rinunciano mai alla ricerca di ciò che è nuovo. Non bisogna lasciare che sia solo il passato a dominare l'importanza artistica, occorre andare alla ricerca di ciò che i nuovi tempi e le nuove generazioni possono offrirci. La difficoltà maggiore è riposta soprattuto nell'abbattimento dei pregiudizi di massa. I videogiochi sono un esempio di ciò che può essere definito nuovo. Purtroppo a causa di troppi videogiochi ripetitivi,violenti e stupidi il fenomeno videoludico è sempre stato assoggettato ad una scarsa rilevanza culturale. Tuttavia è innegabile porre dei parallelismi con le altre arti. Esistono film mediocri culturalmente deboli ma nonostante questo , il cinema rimane un'arte. Esistono complessi musicali e cantautori che non sono definiti ne rinnovatori , ne grandi interpreti di un particolare genere musicale. Tuttavia la musica è una delle arti più importanti. Perchè non è lecito applicare questi esempi alle opere videoludiche? Sostanzialmente un videogioco è un'esperienza videoludica interattiva , un vero e proprio testo audio/visivo che può comunicare importanti messaggi sociali e culturali. Grazie ai capitoli della saga di Metal Gear Solid ad esempio, i giocatori verranno a contatto , tramite le complesse trame e sottotrame dei titoli della serie, a stretto contatto con importantissime tematiche sociali reali quali moralità, genetica , terrorismo, storia e filosofia. Tutto questo è inoltre stra-condito da elevate citazioni di ogni genere (durante le sequenze filmate del gioco, ci si può trovare impegolati ad ascoltare discussioni riguardanti testi Shakespeariani!). Bado bene a non far sì che l'idea di prendere in considerazione il videogioco come strumento culturale , anzi di diffusione culturale, non crei l'arte di videogiocare. La mia proposta in effetti sta nello stabilire che un game designer può essere definito artista. Chiunque ascolti La Regina della Notte è un notevole compositore musicale come lo era Mozart che l' ha composta? Chi osserva e riflette sulla Notte Stellata è uno strabiliante pittore come lo era Van Gogh? E' possibile anche chiedersi un'altra cosa. Colui che videogioca e sventa un attacco terroristico guidando il proprio alter-ego corrente è un game designer abile e colto comeHideo Kojima? E' abbastanza allarmante inoltre rendersi conto di quante poche persone riflettino su quanta arte si celi dietro alla lavorazione di un videogioco di nuova generazione. Chissà se i "conservatori" immaginino quanti disegnatori sono ingaggiati per realizzare concept di videogiochi ; se si rendono conto che le colonne sonore dei videogame sono mastodontiche e di incredibile spessore tanto più che ormai oggi moltissimi compositori cinematografici lavorano a stretto contatto con gli sviluppatori (Hans Zimmer, Harry-Gregson Williams...) ; se hanno una vaga idea della narrativa necessaria per realizzare delle sceneggiature presenti in alcuni videogiochi (cito senza togliere niente agl'altri Mass Effect, The Elder Scrolls e Final Fantasy). Penso che sia inutile continuare questa lunga serie di domande retoriche. Il lavoro che si cela dietro allo sviluppo di un videogioco è notevole. Questo sviluppare videogiochi in modo così minuziosamente curato e colmo di elementi culturali non può essere definita ottava arte (videogame) , potrebbe essere riconosciuto come potente strumento mediatico dalla rilevante influenza culturale. Sempre ricordando che non tutti i videogiochi sono di grande spessore, come non lo sono tutti i film,tutti i libri o tutte le composizioni musicali.
Id: 1353 Data: 08/03/2015 18:58:39
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